IL PIANO SUD È GIÀ FALLITO SENZA PROGETTI NÉ SOLDI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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IL PIANO SUD È GIÀ FALLITO SENZA PROGETTI NÉ SOLDI da IL FATTO e IL MANIFESTO

Il piano sud è già fallito senza progetti né soldi

GIANFRANCO VIESTI  28 LUGLIO 2024

Il governo è alla ricerca di annunci che rinforzino il suo consenso nel Mezzogiorno, un po’ provato dalle Europee e soprattutto a rischio per l’autonomia differenziata. Ma in questa accelerata strategia comunicativa si può inciampare in seri infortuni, com’è appena accaduto per le ZES. Riepiloghiamo la questione per il lettore, rinviando i più curiosi a una analisi del gennaio sorso, disponibile su www.eticaeconomia.it.

Nel 2017 sono state istituite 8 zone economiche speciali (ZES) nel Mezzogiorno: porzioni di territorio vicine ai porti volte a attirare investimenti grazie a semplificazioni amministrative e crediti di imposta per investimenti (con poche differenze rispetto a quelli esistenti, per tutti, sin dal 2015). Non una grandissima idea, per motivi qui impossibili da ricordare. Il tutto ha avuto grandi ritardi. Ma al momento dell’insediamento del governo le strutture delle ZES stavano cominciando a lavorare. Il governo è intervenuto sostituendole con la cosiddetta ZES unica, estesa all’intero Mezzogiorno. Un territorio “speciale” singolare, di tale enorme dimensione e diversità al suo interno che non ha riscontri in alcuna esperienza internazionale. ZES unica è un ossimoro: una definizione più da comunicazione che da politica industriale. Si sono spostate le procedure autorizzative a una struttura ministeriale romana; rinnovati i crediti di imposta con agevolazioni più elevate, in applicazione della nuova carta comunitaria degli aiuti 2021-‘27. Un intervento salutato con enfasi dalle rappresentanze imprenditoriali (che fanno il loro mestiere di portatrici di interessi) e da quella porzione, ormai piuttosto ampia, dei quotidiani del Sud passati al sostegno incondizionato alla maggioranza. La logica della decisione era semplice, del tutto evidente: far passare tutte le pratiche di investimento sul tavolo del ministro Raffaele Fitto.
Ma le cose non sono andate affatto bene. Il Piano Strategico, presentato poche ore fa con grandissimo ritardo, ma con una straordinaria enfasi, è un documento che non dice nulla. Individua una serie di filiere, che coprono quasi tutti gli ambiti produttivi, a cui saranno dedicate in futuro le autorizzazioni uniche; ma non limita solo a quelle il credito di imposta. Per il resto riassume l’esistente.

Quanto alle autorizzazioni, non si ha notizia che nel corso del 2024 ne siano state concesse, con un evidente ostacolo ai piani di investimento delle imprese. La nuova struttura di missione romana, il cui avvio era previsto a inizio anno ma poi è molto slittato, non è ancora a regime: cosa, peraltro, non semplice in un mondo ministeriale caratterizzato da epurazioni a tappeto di tutti i tecnici non fedeli alla linea. Dovrebbe rispondere in tempi brevi a istanze provenienti da tutto il Sud; ma senza le relazioni che le strutture locali avevano con le istituzioni che rilasciano autorizzazioni e pareri. Inoltre, dato che è possibile richiedere anche varianti urbanistiche, ora non solo nelle zone industriali o portuali ma ovunque, le sue decisioni potrebbero scardinare dall’alto i piani urbanistici.
Ma la catastrofe è avvenuta con il credito d’imposta; che, si badi, aveva funzionato con efficienza e regolarità per molti anni. Con la legge di bilancio sono stati destinati 1,8 miliardi fino al 15.11.2024; per investimenti successivi non ci sono al momento risorse. Il decreto che ne norma le procedure, inizialmente previsto per fine 2023, è arrivato solo a maggio. Stabilisce per le imprese il dovere di prenotarsi entro il 12 luglio e di realizzare tutti gli interventi entro novembre. In caso di risorse insufficienti, si va a riparto.
L’Agenzia delle Entrate ha appena reso noto che sono arrivate 16.064 prenotazioni per 9,45 miliardi; quindi, se tutti gli investimenti fossero realizzati, il credito d’imposta maturato sarebbe pari solo al 17% di quanto richiesto (17% del credito, non dell’investimento).

Il peggiore dei mondi possibili: le imprese nulla sanno dell’agevolazione effettiva (lo si saprà il 14.3.25, a cose fatte). Moltissime rinunceranno: alcune perché si sono prenotate comunque, vista l’incertezza sul post 2024; altre proprio perché non possono controllare l’economicità dell’investimento. Per tutte, grandi rischi. Il regno dell’incertezza: esattamente il contrario di quello che serve a promuovere gli investimenti.
Non era difficile prevederlo: quando si agisce sulla spinta della frenesia comunicativa e della brama di assoluto e immediato controllo, e si procede in sede tecnica con superficialità, ritardi e approssimazione, è facile provocare disastri. Una nuova perla in una collana dedicata al Sud, fra cancellazione del reddito di cittadinanza, frenetici cambiamenti del Pnrr, mistero sull’allocazione territoriale delle sue risorse e riduzione della decontribuzione, ormai piuttosto lunga.

Viesti: «Università: la destra fa cassa sui servizi pubblici, taglia dove perde meno consensi»

INTERVISTA. Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari: “Il corpo universitario è stato troppo acquiescente e ricurvo sul “particulare”. Ma mai essere scettici a priori. Gli atenei potrebbero essere un altro fronte dell’opposizione”. 513 milioni di euro. Questo sarebbe il taglio complessivo alle risorse dell’università a cui sta pensando il governo: 173 milioni al fondo ordinario, 340 milioni al piano di reclutamento straordinario

Roberto Ciccarelli  28/07/2024

Gianfranco Viesti, economista all’università di Bari, ha studiato la realtà dell’università italiana in libri come La laurea negata (Laterza) e L’università in declino (Donzelli) A lui chiediamo di analizzare le prospettive che si aprono con i nuovi tagli in arrivo dal governo Meloni.

Professor Viesti come spiega i tagli complessivi da 513 milioni di euro agli atenei?
La destra attacca sempre i grandi servizi pubblici. Sono operazioni molto meno visibili di quelle che toccano gli individui, con la significativa eccezione italiana del reddito di cittadinanza. Si fa cassa sui grandi servizi universalistici. I tagli arriverebbero dopo un breve periodo in cui, dal governo Gentiloni in poi, non dico che l’università sia stata rilanciata ma almeno è stata fermata la sua demolizione iniziata dalla Gelmini e proseguita a lungo.

È possibile che i tagli siano la conseguenza della riattivazione del patto di stabilità europeo e della spending review che il governo Meloni ha iniziato a fare ben prima che il patto tornasse in vigore?
Possibilissimo. Il mio giudizio su questo governo è negativo, lo vedo all’opera con la sola finalità di mantenere il potere a tutti i costi. Taglia e taglierà dove costa meno in termini di consenso.

Cosa ci si può aspettare dalla prossima legge di bilancio vista anche la procedura di infrazione per deficit eccessivo?
La procedura non è colpa di Meloni, è il frutto della versione finale del patto di stabilità che è molto negativa e rischiosa soprattutto per l’Italia. Per capire cosa rischiamo basta ricordare quali sono stati gli effetti prodotti dall’austerità negli anni Dieci. Investimenti bloccati e servizi pubblici scarnificati. Abbiamo avuto la dimostrazione che il livello della domanda interna è decisivo, al contrario di quanto dicono i teorici neoliberali. Comunque, è preoccupante quello che sta accadendo. La speranza è che gli anni della ripresa post-covid abbiano dato più tono alla nostra economia. Vedremo.

Quali saranno gli effetti degli eventuali tagli sulle piccole e medie università a Sud e nel Centro-Nord?
A parità di regole tenderà a consolidarsi la frattura geografica esistente; in passato vi è stata una contrazione, selettiva (fra atenei) e cumulativa (decisioni che producono effetti nel tempo). Ha riguardato tutto il Centro-Sud, Toscana, Lazio e Marche compresi. E poi il Nord periferico: Liguria, Piemonte e Friuli. Chi ha resistito meglio sono state le università collocate nel triangolo Milano-Bologna-Veneto. Anche senza nuove decisioni queste disparità tendono a ampliarsi nel tempo. Bisognerebbe intervenire per cambiare quei meccanismi, a cominciare dal ruolo improprio dell’Anvur. Invece, pare che si intervenga per mutare le regole di riparto, come è stato segnalato sul sito Roars, per accrescere ancora la selettività.

Il Pnrr ha immesso cospicue risorse nel sistema universitario. Quali sono stati i risultati?
È stata presa la decisione, a mio avviso discutibile, di inondare le università con finanziamenti straordinari una tantum da usare in un lasso di tempo molto breve e con personale precario reclutato ad hoc. Sarebbe stato meglio usare una parte rilevante di queste risorse per aumentare il finanziamento pluriennale ordinario. Ora abbiamo molte possibilità per fare ricerca anche se con tempi rapidissimi e con regole barocche. Ma dal 2026 cambia tutto. Ci sarà un atterraggio durissimo.

Perché?
Perché finirà lo straordinario e non ci sarà l’ordinario. Penso a tutti coloro che stanno lavorando da assegnisti e contrattisti: per loro non ci sarà posto all’università. Torneranno ad essere difficili reclutamenti e avanzamenti di carriera, specie al Centro-Sud.

Il governo ha annunciato una revisione del pre-ruolo che moltiplica le figure precarie e un intervento complessivo che rafforzerà l’impostazione originale della legge Gelmini del 2010. Che tipo di università vogliono creare?
Bisogna capire se prevarrà la linea neoliberista di creazione di un’università a più livelli sociali e territoriali, il vecchio disegno dei liberali italiani. Oppure se resisterà una qualche vocazione sociale. Difficile dire: la maggioranza non ha un disegno comune di paese.

Dal 2008 al 2010 contro le riforme Gelmini un intero paese andò in piazza. Dopo 15 anni di assenza di un dibattito pubblico sull’università e sulla ricerca, e di destrutturazione interna della partecipazione, sarà possibile organizzare una risposta?
Sarà difficile, mi pare si sia persa l’abitudine. Il corpo universitario in questi anni è stato troppo acquiescente e ricurvo sul suo particulare. Ma mai essere scettici a priori. Spero che soprattutto i miei colleghi più giovani, come chiedo sempre loro di fare, lottino per evitare che l’università diventi ancora peggiore di quella del passato. Spero che con l’inizio dell’anno accademico ci sia una reazione: la contrapposizione politica generale potrebbe aiutare, l’università potrebbe essere un altro fronte di contrasto al governo Meloni. Naturalmente senza dimenticare che le responsabilità della crisi dell’università non sono solo della destra. Tutt’altro.

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