IL GIORNO DOPO E OLTRE. LA VERA DISCORDIA NEL GOVERNO DI ISRAELE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL GIORNO DOPO E OLTRE. LA VERA DISCORDIA NEL GOVERNO DI ISRAELE da IL MANIFESTO

Il giorno dopo e oltre. La vera discordia nel governo di Israele

LO SCENARIO MEDIO ORIENTALE . Ciò che Gantz e Gallant sanno, e che Netanyahu si rifiuta di ammettere, è che la pluridecennale «politica di separazione» tra Gaza e la Cisgiordania è crollata il 7 ottobre

Meron Rapoport*  11/07/2024

*Ripubblicato da +972 Magazine

A prima vista, è difficile dare un senso alla spaccatura all’interno del governo israeliano sul day after a Gaza, che ha portato Benny Gantz a lasciare la coalizione domenica scorsa. In una conferenza stampa in cui ha annunciato la sua decisione, Gantz ha accusato il primo ministro Benyamin Netanyahu di «impedire… una vera vittoria» non presentando un piano praticabile per la governance della Striscia dopo la guerra.

Gantz, che si è unito al governo e al gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre come ministro senza portafoglio, ha sollecitato Netanyahu per mesi a presentare il suo piano per il «giorno dopo». Il primo ministro, che ha un interesse personale e politico a prolungare la guerra, si è finora rifiutato di presentarne uno; al contrario, ha solo insistito ripetutamente sul fatto che rifiuta sia il mantenimento di un «Hamastan» sia la sua sostituzione con un «Fatahstan» gestito dall’Autorità nazionale palestinese (Anp).

Tuttavia nemmeno Gantz ha un piano praticabile. La sua proposta – sostituire Hamas con un «meccanismo di governance civile internazionale» che includa alcuni elementi palestinesi, pur garantendo a Israele il controllo generale della sicurezza – è così inverosimile che il suo significato pratico è quello di continuare la guerra a tempo indeterminato. In altre parole, esattamente ciò che Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra vogliono.

Lo stesso si può dire del ministro della difesa Yoav Gallant, che era il più stretto alleato di Gantz nel gabinetto di guerra. Gallant avrebbe abbandonato una riunione del gabinetto di sicurezza il mese scorso quando gli altri ministri lo hanno rimproverato per aver chiesto a Netanyahu di escludere un controllo civile o militare prolungato su Gaza. Ma la proposta alternativa del ministro della difesa è essenzialmente la stessa di Gantz: istituire un governo gestito da «entità palestinesi» non appartenenti a Hamas con il sostegno internazionale – cosa che nessun attore palestinese, arabo o internazionale accetterà.

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È vero che Gantz e Gallant hanno anche chiesto a Netanyahu di dare priorità a un accordo con Hamas per riportare a casa gli ostaggi, mentre il primo ministro la sta tirando per le lunghe. Ma anche questo apparente disaccordo crolla: qualsiasi accordo comporterebbe un ritiro significativo, se non completo, di Israele da Gaza e un cessate il fuoco lungo mesi, se non permanente. Uno scenario del genere si tradurrebbe in una di due possibilità: il ritorno all’autorità di Hamas o la reintroduzione dell’Anp, entrambe inaccettabili sia per Gantz e Gallant sia per Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra.

Allora perché la destra israeliana vede le proposte fondamentalmente incoerenti di Gantz e Gallant come una minaccia esistenziale? La risposta va ben oltre il disaccordo sulla questione del «giorno dopo» di Gaza. Ciò che Gantz e Gallant implicitamente riconoscono, e che Netanyahu e i suoi alleati si rifiutano di ammettere, è che la pluridecennale «politica di separazione» di Israele è crollata in seguito agli attacchi del 7 ottobre. Non potendo più mantenere l’illusione che Gaza sia stata separata dalla Cisgiordania e quindi da qualsiasi futura soluzione politica palestinese, i leader israeliani sono in difficoltà.

Dalla separazione all’annessione

La politica di separazione di Israele può essere fatta risalire ai primi anni ’90 quando, sullo sfondo della Prima Intifada e della Guerra del Golfo, il governo iniziò a imporre ai palestinesi un regime di permessi che limitava gli spostamenti tra Cisgiordania e Gaza. Tali restrizioni si sono intensificate durante la Seconda Intifada e hanno raggiunto l’apice dopo il «disimpegno» di Israele da Gaza nel 2005 e della successiva ascesa al potere di Hamas.

La maggior parte degli israeliani ha ritenuto che Israele avesse lasciato Gaza e quindi non avesse più alcuna responsabilità per quanto accadeva nella Striscia. La comunità internazionale ha respinto in larga misura questa posizione e ha continuato a considerare Israele come potenza occupante a Gaza, ma il governo israeliano si è sempre sottratto alle proprie responsabilità nei confronti dei residenti dell’enclave. Al massimo, era disposto a concedere ai palestinesi permessi di viaggio per entrare in Cisgiordania o in Israele per motivi umanitari speciali.

Quando Netanyahu è tornato alla presidenza nel 2009, ha lavorato per consolidare la politica di separazione. Ha ampliato la frattura tra Gaza e Cisgiordania incanalando fondi al governo di Hamas nella Striscia, sulla base della convinzione che dividere i palestinesi geograficamente e politicamente avrebbe limitato la possibilità di uno Stato palestinese indipendente.

Questo, a sua volta, ha spianato la strada a Israele per annettere parte o addirittura tutta la Cisgiordania. Quando nel 2021 è stato chiesto a Yoram Ettinger, «esperto» di demografia della destra israeliana, come avrebbe gestito il fatto che tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo c’è all’incirca lo stesso numero di ebrei e palestinesi, ha spiegato che «Gaza non è in gioco e non è rilevante… L’area in discussione è Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr)».

David Friedman, l’ambasciatore statunitense favorevole all’annessione nominato da Donald Trump, ha convenuto che dopo il ritiro da Gaza solo la questione della Cisgiordania rimaneva rilevante. «L’evacuazione [degli israeliani] da Gaza ha avuto un effetto salutare: ha tolto 2 milioni di arabi dall’equazione demografica», ha dichiarato nel 2016. Eliminando Gaza dalla conversazione, ha spiegato l’ex ambasciatore, Israele potrebbe mantenere una maggioranza ebraica anche se annettesse la Cisgiordania e concedesse la cittadinanza ai suoi residenti palestinesi.

Un vuoto di potere strategico

Una delle ragioni dichiarate da Hamas per l’attacco del 7 ottobre era infrangere l’illusione che Gaza sia un’entità separata e riportare la Striscia e l’intera causa palestinese alla storia. In questo è indubbiamente riuscito.

Tuttavia, anche dopo il 7 ottobre, Israele ha continuato in larga misura a ignorare il legame tra Gaza e Cisgiordania, nonché la sua centralità nella lotta palestinese nel suo complesso. Israele si è sempre rifiutato di articolare un piano coerente per il «giorno dopo» perché per farlo deve necessariamente affrontare lo status della Striscia nel più ampio contesto israelo-palestinese. Qualsiasi discussione di questo tipo mina alla base la politica di separazione accuratamente coltivata da Israele.

Oltre alla sua totale brutalità, l’attuale assalto di Israele a Gaza si differenzia in modo importante dalle guerre precedenti. Mai prima d’ora Israele aveva permesso che un territorio sotto il suo controllo militare rimanesse sostanzialmente senza governo. Quando l’esercito israeliano occupò per la prima volta la Cisgiordania e Gaza nel 1967, istituì immediatamente un governo militare che si assunse la responsabilità dell’amministrazione civile delle vite dei residenti occupati. Quando ha occupato il Libano meridionale nel 1982, non ha smantellato il governo libanese esistente; dopo aver istituito una «zona di sicurezza» nel 1985, Israele ha affidato la responsabilità degli affari civili a una milizia locale.

Ciò è in netto contrasto con l’attuale operazione. Nonostante il fatto che Israele controlli effettivamente gran parte di Gaza, Israele tratta i 2,3 milioni di residenti di Gaza come se vivessero nel vuoto.

Per ovvie ragioni, Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha governato la Striscia per 16 anni, ma non considera l’Anp, che amministra parti della Cisgiordania, come un’alternativa adeguata. Uno scenario del genere minerebbe completamente la politica di separazione di Israele: la stessa entità palestinese governerebbe entrambi i Territori occupati e Israele si troverebbe ad affrontare maggiori pressioni per negoziare la creazione di uno Stato palestinese.

Finché esisterà il vuoto di potere a Gaza, la destra potrà ottenere ciò che vuole: la guerra potrà continuare, Netanyahu potrà prolungare la sua permanenza in carica e non ci sarà alcuna possibilità reale di aprire i negoziati di pace, che anche gli statunitensi sembrano ora desiderosi di riavviare. La destra messianico-nazionalista vuole mantenere questo limbo anche perché apre alla possibilità della cosiddetta «migrazione volontaria» dei palestinesi da Gaza, desiderio ultimo del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, o all’«annientamento totale» dei centri abitati di Gaza, ‘obiettivo del ministro delle finanze Bezalel Smotrich. Entrambi credono che gli insediamenti israeliani dai tetti rossi si trovino oltre questo periodo di limbo.

Due visioni per Gaza

L’esercito, tuttavia, sembra stanco di questo vuoto. Per i militari, il vuoto promette solo combattimenti senza fine e senza obiettivi raggiungibili, l’esaurimento dei soldati e dei riservisti e un crescente confronto con gli americani, con i quali l’establishment della difesa israeliana ha un rapporto particolarmente stretto. L’invasione di Rafah non ha fatto altro che aumentare il malcontento dell’esercito.

L’acquisizione da parte di Israele del valico di Rafah con l’Egitto ha ulteriormente minato l’idea che Israele non abbia alcuna responsabilità per ciò che accade a Gaza. Gallant ha correttamente riconosciuto che il controllo del valico di Rafah e del corridoio Philadelpi ha avvicinato Israele all’istituzione di un governo militare nella Striscia: senza volerlo, e certamente senza ammetterlo, Israele sembra sul punto di governare Gaza come governa la Cisgiordania.

Gantz e Gallant hanno reagito a questa situazione in modo simile. Entrambi sono in stretto contatto con gli Stati uniti e sono anche più esposti alle pressioni delle famiglie degli ostaggi, il cui sostegno continua a crescere nell’opinione pubblica israeliana. Entrambi capiscono bene che il continuo rifiuto di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich di discutere del day after impedisce qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e li condanna a una morte lenta e certa nei tunnel di Hamas.

Le proposte di Gallant e Gantz per un governo palestinese non sono serie e non possono essere accettate da nessun organismo palestinese, arabo o internazionale che si rispetti. Ma sono sufficienti a sfidare le preferenze di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir per un limbo eterno, a provocare la loro empia rabbia e a minare la stabilità del governo.

Le dichiarazioni di Gantz e Gallant esprimono anche un’ammissione inconscia del fatto che Israele si trova al momento di fronte a due sole possibilità reali. La prima è un accordo che riconosca Gaza come parte integrante di qualsiasi entità politica palestinese, il che comporterebbe il ritorno dell’Anp e l’istituzione di un governo palestinese unito. L’alternativa è una guerra di logoramento, che la destra messianica spera si concluda con l’espulsione o l’annientamento dei palestinesi, ma che più probabilmente si concluderà come la Prima guerra del Libano: il ritiro di Israele sotto una pesante pressione militare e il radicamento di un’abile guerriglia al confine con Israele.

La protesta degli studenti riscopre l’etica politica

ACAMPADE NEI CAMPUS. Pensano politicamente quando immaginano pratiche di risposta ai bisogni collettivi di partecipazione e riconoscimento. O quando difendono valori, che dovrebbero essere condivisi. Propongono una politicità differente: una potente dimensione etica si riscontra oggi nel sostegno alla causa dei palestinesi, massacrati, affamati e umiliati

Gianfranco Ragona  11/07/2024

Molte università nel mondo sono occupate da studentesse e studenti che lottano per la Palestina: ottengono talvolta qualche risultato, non raramente incontrano repressione e condanna. Un caso recente di stigmatizzazione ha riguardato l’Università di Torino, assumendo subito una portata più ampia di quella locale, perché ha svelato un problema generale, ossia l’esistenza di una vera e propria frattura tra corpo docente e corpo studentesco fondata su divergenti concezioni del rapporto tra Università e società e quindi su concezioni della politica molto diverse tra loro.

Il fatto: alcuni docenti» torinesi hanno spedito a La Stampa di Torino una «lettera anonima» in cui esprimerebbero lo scandalo per l’occupazione di alcune sedi universitarie, denunciando di essere costretti al silenzio perché «terrorizzati» da studenti e studentesse. Avrebbero addirittura timori per la propria incolumità fisica (La Stampa, 3 giugno 2024).

I LETTORI sono portati a credere effettivamente che ci siano stati casi di minacce e violenze fisiche ai danni di docenti. Invece non si hanno notizie di questo tipo. Neanche una. Anzi, nelle diverse assemblee e riunioni tra studenti, docenti e personale tecnico le discussioni sono state aperte: vi hanno preso parte anche quanti chiedevano il ridimensionamento dell’occupazione, nonché i critici di quelle iniziative pubbliche che hanno suscitato tante polemiche. Da questi incontri nessuno è uscito «impaurito», «minacciato» e «offeso».

Dire il falso, per di più in forma anonima, è molto grave: significa contribuire al declino della politica come partecipazione vitale e arricchente, proponendo implicitamente un’altra visione della politica, chiusa e velenosa.

Detto ciò, bisogna ammettere che tra il mondo studentesco in mobilitazione, il corpo docente e il governo degli atenei, pare essersi aperto un baratro difficile da colmare perché affonda le radici in processi di lunga lena e profondi che riguardano appunto la crisi della politica, o finanche il suo tramonto, ovvero la depoliticizzazione.

Da decenni la politica subisce la riduzione alla sua dimensione di governo, con lo svuotamento di potere delle assemblee, dal parlamento ai consigli circoscrizionali, dai consigli di dipartimento ai senati accademici: si va spegnendo la politica intesa come visione, mediazione, rappresentanza, che nell’università era anche rappresentanza diretta, con pratiche di autogoverno che raramente si vedevano in altre istituzioni, pur tra forti contraddizioni e il permanere di un concezione quasi feudale del potere.

LA RIFORMA Gelmini del 2010 ha imposto un più forte governo dei rettori, dei direttori, delle fondazioni bancarie, con la fattiva collaborazione delle imprese private. Studentesse e studenti sono stati ridotti a materie prime oggetto di un processo di produzione di laureati, da plasmare, addestrare, addomesticare per il mercato.

Si tratta quindi di studenti e studentesse depoliticizzati? Per un verso sì, date queste premesse: sono spinti a uno studio rapido e performativo, raramente si socializzano alla politica tradizionalmente intesa dentro le università, e neanche al di fuori, nelle strutture di partito o di quel poco che ne rimane.

Eppure, pensano politicamente quando immaginano pratiche di risposta ai bisogni collettivi di formazione, di partecipazione, di riconoscimento. O quando difendono valori, che dovrebbero essere condivisi, contestando la presenza umiliante per la stessa democrazia di forze discriminatorie, razziste, omofobe e fasciste all’interno delle sedi universitarie. Ricevono spesso risposte paternalistiche, oppure ostili e finanche violente da parte di quelle istituzioni di cui si chiede a gran voce il rispetto.

In realtà, propongono una politicità differente e dai tratti inediti: una potente dimensione etica si riscontra oggi nel sostegno alla causa dei palestinesi, massacrati, affamati, scacciati e umiliati dall’esercito di uno Stato che è oggetto di richiami severissimi da parte di istituzioni e tribunali internazionali.

DA SOLA l’etica non trasforma e non rinnova nulla, ma senza di essa la politica si riduce a gestione burocratica, mera amministrazione dell’esistente. Oggi questo tipo di politica rischia di essere complice dell’orrendo massacro di un intero popolo.

Studenti e studentesse gridano a gran voce: «Restiamo umani!». E mentre nelle auliche stanze si nicchia o si balbetta, un gruppo di anonimi docenti torinesi, rappresentanti di un ceto accademico autoreferenziale e miope, rispolvera i disonorevoli espedienti di una politica pericolosa, da cui è bene prendere le più ampie distanze, ovunque e senza esitazioni.

*Docente di Storia del pensiero politico all’Università di Torino

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