IL CORTO CIRCUITO DELLA DEMOCRAZIA IN ISRAELE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL CORTO CIRCUITO DELLA DEMOCRAZIA IN ISRAELE da IL MANIFESTO e IL FATTO

Il cortocircuito della democrazia in Israele

IL BUIO DI GAZA. Una democrazia non può praticare una punizione collettiva, una democrazia deve agire, anche di fronte a dei crimini come quelli compiuti il 7 ottobre contro i civili israeliani, con coerenza rispetto a se stessa: deve rispettare i diritti e i limiti che la distinguono da un mero assetto di dominio e sopraffazione

Alessandra Algostino  31/10/2023

Il buio calato su Gaza è l’ultimo cortocircuito della democrazia in Israele: i bombardamenti che hanno raso al suolo le città, i volti persi dei bambini coperti di polvere, un assedio disumano con la privazione di acqua, cibo, medicine e elettricità, l’invasione di terra in un silenzio che nega comunicazioni e informazioni e che non possiamo immaginare che spettrale e colmo di angoscia. Come accostare il termine democrazia a tutto questo?

Una democrazia non può praticare una punizione collettiva, una democrazia deve agire, anche di fronte a dei crimini come quelli compiuti il 7 ottobre contro i civili israeliani, con coerenza rispetto a se stessa: deve rispettare i diritti e i limiti che la distinguono da un mero assetto di dominio e sopraffazione. Come scrisse il Presidente della Corte Suprema israeliana, Aharon Barak, la democrazia deve «affrontare la lotta con una mano legata dietro la schiena».

Il genocidio di Gaza (come negare che si tratti di atti «commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», come recita la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948?) avvolge Israele in una spirale di violenza difficile da arrestare, anche se il pensiero ora non è alla qualità della democrazia israeliana dei prossimi anni ma alle vite negate e oppresse dei palestinesi.

Il primo cortocircuito della democrazia in Israele è nella tensione presente nella Dichiarazione di Indipendenza, laddove lo Stato è definito «ebraico e democratico»; un’affermazione affinata in senso identitario ed escludente con la legge fondamentale del 2018, Israele, lo Stato-nazione del popolo ebraico, che insiste sul rafforzamento dell’«insediamento ebraico» e afferma che «l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale dello Stato d’Israele appartiene solamente al popolo ebraico». Una democrazia etnica e identitaria che si fonda sulla distinzione e l’espulsione dell’altro (il nemico) è una contraddizione in termini laddove la democrazia ha nei suoi geni l’uguaglianza e il pluralismo.

Il secondo cortocircuito è nella negazione dell’essenza della democrazia, l’uguaglianza. In Israele e nei territori occupati vigono regimi differenti, che concretizzano la definizione di apartheid come di colonialismo (da ultimo, cfr. Amnesty International, Israel’s Apartheid against Palestinians, 2022), sia in relazione alla legislazione e giurisdizione sia nelle discriminazioni in materia di diritti (dagli espropri ed assegnazioni delle terre alla libertà di circolazione al riconoscimento della cittadinanza all’allocazione delle risorse per servizi e diritti sociali alle privazioni arbitrarie della libertà personale). E poi, come può definirsi democratico un sistema che esercita poteri di governo senza riconoscimento di diritto di voto ai governati (come è per i 5.5 milioni di persone, su 14.5 milioni, che risiedono nei territori occupati)?

Il terzo cortocircuito è reso dall’assenza del concetto di limite. Non vengono riconosciuti limiti per quanto riguarda il territorio (occupazioni, insediamenti, frammentazione delle terre palestinesi, il muro in Cisgiordania dichiarato illecito dalla Corte Internazionale di Giustizia); non è rispettato il limite del diritto internazionale (come con chiarezza argomentato da Latino e Baccelli su queste pagine); debole è il limite al potere della maggioranza (un contesto nel quale il potere giudiziario è un rilevante contrappeso, non a caso difeso da partecipate mobilitazioni contro la volontà riformatrice e accentratrice di Netanyahu); la logica dell’emergenza è utilizzata senza soluzione di continuità per legittimare la violazione dei limiti di uno stato democratico. Sono elementi che convergono emblematicamente nell’assenza di una costituzione (la cui ragione è la limitazione del potere): Israele non ha una costituzione ma solo alcune Leggi fondamentali (Basic Laws).

Infine, il quarto cortocircuito, la guerra. La guerra è violenza, distruzione e sopraffazione, sempre; la guerra condotta contro Gaza (quanto sta accadendo è una guerra contro gli abitanti di Gaza non solo contro Hamas) è una violenza cieca ad ogni rispetto dell’umano. La violenza bellica, la sua disumanizzazione, l’arruolamento e la repressione di ogni dissidenza, si riverberano, offuscandole anche sulle democrazie più solide: laddove la democrazia sia già minata, o, più correttamente, negata, da ossimori come democrazia identitaria, etnica, coloniale, resta il buio, il buio che avvolge Gaza. La speranza è che, come tante voci si sono levate in Israele a difendere la democrazia contro la riforma giudiziaria, così si levino a chiedere un immediato cessate il fuoco e la fine di violente politiche coloniali.

Israele e Gaza, un “altro lato” è possibile?

Antonio Padellaro  31 OTTOBRE 2023

Non so voi, ma con l’orrore che ci toglie continuamente la parola – il popolo di Gaza bombardato e affamato nella morsa dall’esercito israeliano, la ragazza Shani Louk rapita e decapitata dai mostri sul parapendio, il video delle donne ostaggio di Hamas che gridano a Netanyahu ‘è tutta colpa tua, ora facci liberare’ – siamo continuamente alla ricerca di una parola che ci riscatti dall’estorsione emotiva scatenata dalle opposte piazze. Di quelli che ci gettano in faccia il dolore che non provano. Di quelli che ci impediscono di esporre un pensiero di pace indicandoci come gli utili idioti al servizio dell’antisemitismo. Di quelli che sventolano bandiere palestinesi e stracciano quelle con la Stella di David e non sentono ragioni nel buio della ragione. Penso di averla trovata la parola che può, senza essere intimiditi o ricattati, farci vedere “l’altro lato” (Carlo Rovelli). È nell’intervista al La Stampa dell’ex capo dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, quando Ami Ayalon sostiene che “Hamas è anche un’ideologia e non si sconfigge solo con la forza militare”. Perché, dice, “noi avremo la nostra sicurezza quando i palestinesi avranno speranza”. Perché, aggiunge, “lei non può dissuadere qualcuno dal fare qualcosa se questo non ha paura”. Il fatto che ad affermare ciò sia un ebreo, uno che ha ucciso molti nemici (“ma non ne vado orgoglioso”) potrebbe essere una piccola luce in una democrazia dove sono in tanti a pensarla come lui, ma non fanno ancora sentire alta e forte la propria voce. Una luce a patto che Israele si liberasse di un sistema di potere impregnato di corruzione e fondato sull’occupazione senza fine. Infatti, “il nodo fondamentale da spezzare è il reciproco sostegno tra due fondamentalismi religiosi, quello che ispira l’ultra destra israeliana e quello dello jihadismo arabo”, teso alla cancellazione dell’“entità sionista” (Achille Occhetto su Repubblica). Forse il progetto, troppo spesso tradito e rinnegato, dei due popoli e dei due Stati, oggi impossibile, potrebbe nascere sulle macerie di chi da una parte e dall’altra lucra sulla sofferenza. Anche vendendo armi. P.s. SulCorriere, Rovelli ci invita a rileggere i versi di Bob Dylan in Masters of War. Abbiamo scelto questi: “Voi armate i grilletti perché gli altri sparino, poi vi sedete e guardate”.

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