IL LAVORO DEVE CO-GOVERNARE L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE da IL MANIFESTO
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IL LAVORO DEVE CO-GOVERNARE L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE da IL MANIFESTO

Il lavoro deve co-governare l’intelligenza artificiale

Per un’agenda progressista sull’AI Servono meccanismi di redistribuzione: salari equi, riduzione d’orario, e “percorsi” che permettano ai lavoratori di beneficiare, e non subire, l’innovazione

Valeria Pulignano  28/10/2025

Il dibattito sull’intelligenza artificiale si muove attorno a un falso dilemma: l’AI sostituirà il lavoro umano o lo potenzierà? Ma questa contrapposizione è ingannevole. Il punto non è che cosa l’AI può fare, bensì chi decide come viene usata e secondo quali valori.

L’AI può migliorare il lavoro, ma solo se è orientata al servizio delle persone, non dell’efficienza cieca. Nei servizi di cura, un algoritmo può aiutare a gestire orari e turni, ma non può sostituire l’empatia. Nella scuola, le piattaforme di apprendimento personalizzato possono affiancare gli insegnanti, ma non possono replicarne la capacità di comprendere, di guidare. Quando la tecnologia è progettata senza una visione umana, le relazioni si riducono a transazioni, e il lavoro a mera esecuzione.

Anche quando non sostituisce direttamente i posti di lavoro, l’AI li riconfigura. Frammenta le mansioni, ridefinisce le responsabilità, intensifica il controllo. Non assistiamo a una disoccupazione di massa, ma a una nuova forma di disciplina digitale, dove l’innovazione diventa il pretesto per spingere i lavoratori a fare di più con meno tutele.

In teoria, l’AI dovrebbe aumentare la produttività e liberare tempo dal lavoro. Ma a chi va questo tempo guadagnato? Diventa tempo per vivere meglio o solo un modo per estrarre più valore dal lavoro?

Senza interventi mirati, i benefici dell’AI vengono catturati dalle grandi corporations e quindi da chi detiene il capitale tecnologico, mentre i costi ricadono sui lavoratori.

Le ricerche sul cambiamento tecnologico lo confermano. L’automazione può cancellare milioni di posti di lavoro – come mostra il caso Amazon, che negli Stati Uniti prevede un taglio di un milione e mezzo di occupati sostituiti da sistemi di intelligenza artificiale – ma può anche trasformare il lavoro in forme sempre più precarie, frammentate, e sorvegliate. La promessa di efficienza si traduce in una compressione del tempo e della dignità. Non è la macchina il problema, ma chi la governa e chi ne raccoglie i profitti.

Un’agenda progressista sull’AI deve prevedere meccanismi di redistribuzione attraverso salari equi, riduzione dell’orario, e misure di benessere e strategie di riconversione: formazione, riqualificazione, percorsi di transizione che permettano ai lavoratori di beneficiare, e non subire, l’innovazione.

L’AI non è un destino. È il risultato di scelte politiche e sociali. Eppure, i lavoratori vengono trattati come destinatari passivi di tecnologie calate dall’alto. Questo approccio va rovesciato.

I lavoratori possiedono saperi esperienziali fondamentali per progettare sistemi tecnologici che funzionino davvero. Per questo, la democrazia industriale deve estendersi alla sfera digitale: contrattazione, codeterminazione, e dialogo sociale devono includere le decisioni sull’uso dell’AI.

Come gli operai del Novecento hanno contribuito a innovare la produzione, così oggi infermieri, insegnanti, e lavoratori dentro e fuori le piattaforme digitali devono poter partecipare alla progettazione degli strumenti digitali che plasmano il loro lavoro.

Nei settori a forte componente umana, come cura, istruzione, cultura, l’automazione non pone solo un rischio economico, ma etico ed esistenziale. Sostituire l’intuizione, l’empatia o il giudizio morale con algoritmi significa svuotare il lavoro del suo senso più profondo.

Il rischio è che il lavoro venga trascinato in una nuova “competizione tecnologica” dove i lavoratori sono ridotti a spettatore. Per evitarlo, il lavoro deve passare dalla resistenza alla co-governance della tecnologia. Ciò implica: istituire sedi di partecipazione dei lavoratori alle decisioni tecnologiche, dalle imprese ai settori fino al livello nazionale; rafforzare l’organizzazione collettiva per riequilibrare il potere tra capitale e lavoro digitale; includere i lavoratori nei processi decisionali che riguardano la gestione algoritmica; fissare standard etici e di trasparenza per garantire che l’AI serva obiettivi sociali, non solo economici.

La co-governance non è un freno all’innovazione, ma la condizione per orientarla al bene comune. L’alternativa è una transizione tecnologica che approfondisce le disuguaglianze e svuota la cittadinanza del lavoro.

L’intelligenza artificiale sta riscrivendo il mondo del lavoro. Ma il suo esito non è predeterminato. Dipende da chi tiene la penna. Il lavoro deve tornare a essere autore del proprio futuro, non personaggio di una narrazione scritta da altri. Democratizzare la tecnologia significa decidere collettivamente che tipo di progresso vogliamo: uno che erode il senso del lavoro o uno che lo rinnova, mettendo al centro dignità, creatività e solidarietà. Il compito non è fermare l’innovazione, ma governarla insieme. Solo così l’AI potrà servire le persone, e non sostituirle.

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