I RISCHI(FINORA CALCOLATI) DELLA GUERRA FREDDA DA il manifesto
II rischi (finora calcolati) della “guerra ombra”
IRAN/USA. Il conflitto si allarga da Gaza al Medio Oriente? In realtà è già qui: Iran, Israele e Stati Uniti da anni combattono una sorta di «guerra ombra», soprattutto dopo che […]
Alberto Negri 31/10/2023
Il conflitto si allarga da Gaza al Medio Oriente? In realtà è già qui: Iran, Israele e Stati Uniti da anni combattono una sorta di «guerra ombra», soprattutto dopo che Trump è uscito dall’accordo sul nucleare iraniano, con un’escalation apparentemente sotto controllo e la complicità dell’accordo tra Putin e Netanyahu, con il quale il Cremlino ha concesso a Israele i raid aerei in Siria su pasdaran e Hezbollah senza mai accennare la minima protesta. L’accordo sembra resistere nonostante la tensione sempre più alta tra Mosca e Tel Aviv che ha appena bombardato postazioni miliari siriane a Deraa. In cambio Israele, il Paese che riceve più aiuti militari dagli Usa, non ha mai fornito, ufficialmente, neppure una pallottola Kiev.
Ma il conflitto di Gaza rende questo fronte, dal Libano alla Siria, all’Iraq, sempre più precario. I jet americani hanno attaccato in Siria gruppi di militanti sostenuti dall’Iran che avevano colpito truppe Usa nel Paese e in Iraq all’indomani degli attentati del 7 ottobre in Israele. Il Pentagono parla di «attacchi di autodifesa» mentre Israele ha continuato a bombardare pasdaran e Hezbollah negli aeroporti di Damasco e Aleppo.
Ma di questi eventi bellici resi possibili per Tel Aviv in base all’intesa tra Israele e il Cremlino, che in Siria ha basi militari aeree e navali importanti, si parla assai poco. Eppure l’accordo funziona ancora nonostante la visita della delegazione di Hamas in Russia. Ecco come vanno le cose in Medio Oriente. Nell’ultima settimana gli americani hanno segnalato un dozzina di attacchi in Iraq e quattro in Siria da parte di gruppi associati all’Iran. Prese di mira la basi di Al-Shaddadi ad Al-Hasakah in Siria e di Ain al-Assad nella città irachena di Anbar. Gli americani in Siria controllano i pozzi petroliferi della provincia di Deir Ezzor mentre in Iraq la Federal Reserve Usa incassa ancora le entrate del greggio iracheno che poi a suo piacimento redistribuisce alle autorità di Baghdad. Dettagli, non così minimali, per capire la situazione mediorientale a 20 anni dall’invasione americana dell’Iraq e a 12 anni dopo la rivolta contro Assad in Siria.
Vale forse la pena ricordare che l’Italia è presente in Iraq nell’ambito di due missioni contro l’Isis. La prima è l’operazione Prima Parthica, la coalizione internazionale anti-Califfato, la seconda è la missione Nato con compiti di addestramento degli iracheni. Se a questo si aggiunge la presenza di oltre 1.100 soldati italiani nell’Unifil sulla linea Blu libanese si capisce che il teatro di guerra per noi non è così remoto.
Finora nessuno dei protagonisti ha voluto che la «guerra ombra» diventasse un conflitto aperto. Secondo il New York Times gli Usa con l’attacco in Siria hanno mandato due messaggi. Il primo è che se l’escalation continua Washington potrebbe entrare in un conflitto aperto con Teheran, che finora ha accuratamente evitato. Il secondo è che se gli attacchi più plateali si fermano i due fronti torneranno alla «guerra ombra» che ha caratterizzato le loro relazioni in questi anni.
La Guida suprema Alì Khamenei vuole evitare una guerra allargata contro gli Usa ma pretende che Washington freni Israele ed eviti la completa distruzione di Hamas. In questo caso, nota l’esperto Trita Parsi, alcuni attori ragionali si sentirebbero costretti a intervenire: improbabile, dal loro punto di vista, che Israele mobiliti 350mila soldati soltanto per dare la caccia a Hamas. Allo stesso tempo Teheran vuole preservare la carta Hezbollah che con il suo arsenale missilistico può colpire le città israeliane e serve da deterrente a un eventuale attacco di Tel Aviv ai suoi impianti nucleari. La Cina, che acquista la maggior parte del petrolio iraniano, potrebbe anche dare una mano a frenare l’escalation. L’Iran, il cui principale bersaglio sono le monarchie del Golfo e il Patto di Abramo con Israele, ha già colto due risultati: il deragliamento dei negoziati tra Israele e Arabia saudita e l’allineamento, pur parziale, di Mosca e Pechino alle posizioni di Teheran sulla questione palestinese.
In realtà, nota Foreign Affairs, gli argomenti logici a favore del contenimento dello scontro sono diventati meno solidi dopo la guerra di Gaza. Tutti gli alleati degli americani si sono schierati se non con Hamas, come la Turchia del Sultano della Nato Erdogan, almeno con i palestinesi: nessuno dei leader regionali, anche di Paesi che hanno fatto la pace con Israele come Egitto e Giordania, può andare contro le piazze arabe nonostante per loro Hamas, forza popolare e islamista, rappresenti una minaccia. Gli Usa lo sanno perfettamente e finora hanno evitato di accusare direttamente l’Iran per l’attacco del 7 ottobre, come pure gli iraniani hanno negato un loro coinvolgimento pur elogiando pubblicamente il massacro. Teheran ha in mano con Hezbollah (il cui leader Nasrallah parlerà venerdì) la chiave di un possibile conflitto a Nord di Israele dalla portata devastante come ha dimostrato quello del 2006. Durante la «guerra ombra» tra Iran, Israele e Usa i contendenti sono riusciti a mantenere il controllo, nonostante momenti di picco come l’assassinio da parte degli americani del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad il 3 gennaio 2020. Allora la reazione degli iraniani fu moderata. Oggi l’idea che il nemico possa essere gestito o contenuto è meno convincente. Il conflitto finora è stato arginato perché in Israele, Iran e a Washington hanno prevalso calcoli strategici razionali. Ma domani le cose potrebbero cambiare e di molto.
L’alternativa palestinese non salirà mai sui carri armati di Netanyahu
ISRAELE/PALESTINA. Com’è possibile la pace se i coloni – 700 mila – non vengono costretti da Israele a lasciare la Cisgiordania e a rientrare nelle «frontiere» della linea di armistizio delle guerre precedenti?
Eric Salerno 31/10/2023
Il presidente Usa Joe Biden ha sottolineato la scorsa settimana che il conflitto nella Striscia di Gaza de ve finire con «due Stati per due popoli». Raggiungere questo obiettivo, ha detto con apparente convinzione, richiede «uno sforzo concentrato da parte di tutte le parti – israeliani, palestinesi, partner regionali, leader globali – per metterci sulla strada verso la pace». I leader europei gli hanno fatto eco. Arabi, quasi tutti, pure. Per una parte degli israeliani, anche quelli che, come il premier Netanyahu, da sempre hanno osteggiato con determinazione l’idea di condividere la Palestina mandataria, l’esortazione del capo della Casa bianca è apparsa, improvvisamente e a sorpresa, come l’unica possibile.
Qualcuno, assicurano dal Dipartimento di Stato, elencherà le tappe del processo da avviare «appena finiscono i combattimenti». Che, aggiungono, cominceranno «sul serio» solo quando gli ostaggi saranno rilasciati da Hamas e dalle altre organizzazioni militanti palestinesi nella striscia.
Il presidente americano e gli altri leader sembrano dimenticare come dal 1993 a oggi Stati Uniti e Europa siano stati quasi assenti quando avrebbero potuto, dovuto, portare avanti con la forza economica e politica di cui disponevano, l’accordo firmato sul prato della Casa Bianca. Viste le divisioni e incertezze che regnano tra i membri del blocco Nato, è difficile pensare che si concentreranno per tentare di chiudere il conflitto più lungo della nostra epoca.
Nel suo libro, The Vocabulary of Peace (1995), la scrittrice israeliana Shulamith Hareven sosteneva che gli accordi di Oslo, pur nella pratica fallimentari, hanno portato alla realtà mediorientale, un cambiamento essenziale: «D’ora in poi -scrisse – non è automaticamente ebreo contro arabo e arabo contro ebreo; ci sono gli ebrei e gli arabi che sostengono la pace, e gli ebrei e gli arabi che si oppongono entrambi».
Vero, ma come precisa Mohammed S. Dajani Daoudi direttore del Wasatia Academic Institute di Gerusalemme, «gli accordi di Oslo hanno portato un altro cambiamento essenziale: d’ora in poi, non sono i palestinesi contro gli israeliani e gli israeliani contro i palestinesi, ma sono i palestinesi e gli israeliani massimalisti che credono in uno Stato dal fiume al mare escludendo l’altro; e gli israeliani e i palestinesi moderati, che sostengono la condivisione della terra in una soluzione a due Stati o in una confederazione». Odio, paura, sfiducia, oltre al fanatismo religioso: sono gli elementi comuni, oggi ancora più di ieri, a israeliani e palestinesi. Sono elementi che dovranno essere affrontati con una terapia tutta da individuare. La psichiatria, la psicologia sono indispensabili quanto la diplomazia, l’economia e le buone intenzioni. Per gli ebrei israeliani l’assalto compiuto da Hamas viene paragonato all’Olocausto. Per i palestinesi il bombardamento di Gaza è la loro Nakba, un altro crimine contro l’umanità. E anche se si riuscirà ad avviare un negoziato la paura reciproca sarà un elemento non facile da superare.
Ci sono alcuni momenti di quel settembre del 1993 a Washington che mi rimasero impresse. Si respirava un clima misto di apprensione, felicità e incertezza la mattina sul prato della Casa Bianca quando Rabin, Peres e Arafat si strinsero la mano firmando gli accordi di Oslo. Poche ore dopo nell’ambasciata israeliana nella capitale americana ascoltai un noto giornalista ebreo americano rivolgersi al ministro degli Esteri. «Shimon, come hai fatto a tradirci in questo modo?». Lui, come tanti altri ebrei israeliani e della diaspora erano cresciuti con la convinzione che, un giorno, le frontiere di Israele (ancora oggi mai definite) sarebbero state chiare: da un lato il Mediterraneo, dall’altro il fiume Giordano. Fu per anni la piattaforma del Likud, poi modificata per tattica politica-diplomatica, ed è ancora oggi il progetto della destra sionista che continua, proprio in questi giorni a rafforzare gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, la parte della città che nella mente di tutti i musulmani dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese. Molti palestinesi, anche moderati, si chiedono come può essere possibile una pace vera se i coloni – 700 mila – non vengono costretti da Israele ad abbandonare la Cisgiordania e rientrare nelle frontiere riconosciute e definite dalla linea di armistizio delle guerre precedenti?
Ma torniamo alla psicologia. Due docenti dell’università Bar Ilan, fino a poco tempo fa considerato il più religioso e politicamente estremista ateneo di Israele, con il suo campus in una città-colonia (Cisgiordania occupata), da dove è uscito l’assassino di Itzhak Rabin hanno abbozzato un progetto per oggi e domani. Credibile? Forse, ma di difficile realizzazione. «Gli interessi israeliani sono meglio serviti stabilendo a Gaza un’amministrazione legata all’Anp palestinese insieme a un massiccio programma di ricostruzione sostenuto dagli Stati Uniti e da altri attori internazionali e regionali. La dichiarazione di sostegno di Israele per stabilire un tale regime a Gaza il prima possibile, fornirebbe una direzione politica all’operazione militare e ne migliorerebbe la legittimità internazionale. Sconfiggere Hamas deve in definitiva significare non solo la sua distruzione militare, ma l’empowerment (la valorizzazione) di un’alternativa palestinese moderata».
Non credo che esista un esponente palestinese dell’Anp, anziano o giovane, per quanto pacifista sia disposto oggi o domani a montare su un carro armato con la stella di Davide, entrare a Gaza e governare la striscia o ciò che vi rimane quando saranno terminate le operazioni militari israeliane.
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