I LIBERALI E IL DIRITTO DEGLI AMICI: IL CASO DEGLI ATTACCHI ALLA CORTE PENALE da IL MANIFESTO
I liberali e il diritto degli amici: il caso degli attacchi alla Corte penale
Una società internazionale in cui il vizio non rende più omaggio alla virtù, ma anzi si compiace nel rivendicare un privilegio, espone i deboli all’arbitrio dei forti
Mario Ricciardi 23/05/2024
L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù». Questa è forse una delle massime più note di Francois de La Rochefoucauld. Probabilmente, anche chi non ha mai sentito nominare l’autore, un aristocratico francese vissuto nel XVII secolo, è familiare con una delle diverse versioni in cui la massima è stata tramandata, fino a diventare parte del repertorio di quel cinismo da salotto di cui si alimenta da qualche secolo un certo tipo di istintivo conservatorismo. Nella sua lettura superficiale, la massima sembra esprimere in effetti una visione pessimista dell’uomo, creatura guidata solo dall’interesse, incapace di impegni che non siano motivati dall’egoismo.
C’è tuttavia, un’altra massima, molto meno nota, che suggerisce un’interpretazione meno banale della formula usata da de La Rochefoucauld: «Per la maggior parte degli uomini l’amore per la giustizia è soltanto paura di subire l’ingiustizia». Un pensiero tutt’altro che cinico, in quanto non nega affatto che si possa distinguere il giusto e l’ingiusto, ma sottolinea che è la vulnerabilità alle ingiustizie che ci rende particolarmente sensibili all’esigenza di difendere la giustizia.
Peraltro, questa seconda massima descrive molto bene la situazione in cui la maggioranza delle persone si trovava nella società di ancien régime. Una società in cui la diseguaglianza dei diritti – in presenza di un sistema giuridico che tutelava il privilegio – rendeva i molti esposti all’arbitrio dei pochi.
La grande conquista della rivoluzione francese, consolidata dal costituzionalismo liberale, fu proprio di sostituire un sistema fondato sulla tutela del privilegio con uno che sanciva l’eguaglianza di ciascuno di fronte alla legge. Questa uguaglianza legale, tuttavia, come Marx mise in luce nei suoi scritti giovanili, rimuove il privilegio legale, ma non quello che si basa sulle disparità di potere, che in una società capitalista si riconducono – direttamente o indirettamente – alle diseguaglianze di reddito e ricchezza.
In questa prospettiva, che conserva tutta la sua attualità, nonostante i cambiamenti intercorsi negli ultimi secoli nei modi di produrre e consumare, l’ipocrisia cui alludeva de La Rochefoucauld rimane necessaria in quanto sostiene un atteggiamento di rispetto per la giustizia senza il quale i rapporti tra le persone diventerebbero soltanto il risultato del gioco degli interessi e dei poteri.
Coltivare il rispetto della giustizia, pur nella consapevolezza che in molti casi esso non è la motivazione determinante dell’azione, è un modo per ribadire che c’è uno scarto tra il dovere e l’inclinazione (per riprendere le espressioni usate, a questo proposito, da Kant). Chi presta omaggio alla virtù, anche se non lo fa necessariamente in ossequio al senso del dovere, assume in questo modo un impegno pubblico, al quale non è facile sottrarsi del tutto in una società democratica, in cui le azioni di ciascuno, anche di chi si trova in una posizione di potere, sono esposte al giudizio e alla critica di tutti.
Quello che sta accadendo in queste ore, mentre assistiamo al triste spettacolo di liberali che si compiacciono nel negare la giustizia – affermando che il diritto penale internazionale vale per i nemici, ma non per gli amici – è l’espressione di una visione nichilista della società internazionale che corre il rischio di erodere i presupposti su cui è stato edificato un sistema di diritti umani fragile e imperfetto, ma senza dubbio migliore, dal punto di vista morale, rispetto a quello vigente prima della istituzione della Corte penale internazionale.
Una società internazionale in cui il vizio non rende più omaggio alla virtù, ma anzi si compiace nel rivendicare un privilegio (come fa Netanyahu quando dice che Israele non è tenuto a rispettare le regole che dovrebbero valere per chiunque), espone i deboli all’arbitrio da parte dei forti, e trasmette a tutti il messaggio che l’unico modo per assicurarsi, se non il rispetto, almeno il timore altrui, e attraverso l’uso di una forza altrettanto devastante.
Per le grandi potenze, questo si traduce in una licenza nell’uso indiscriminato della guerra per perseguire i propri interessi, per i deboli nella necessità di usare gli strumenti non convenzionali che hanno a disposizione. Con la scusa di combattere il terrorismo, si corre il rischio concreto di alimentarlo.
Difendere la Corte penale internazionale dagli attacchi cui è sottoposta in diversi paesi non è soltanto una battaglia in difesa dei diritti dei palestinesi, ma anche un impegno a preservare quella fragile e preziosa civiltà giuridica che tutela i diritti di tutti, perché se si spegne la fiaccola della giustizia è la forza che trionfa.
La società israeliana fa i conti con i mandati di arresto
CAPO D’ACCUSA. Sempre più sfumata la distinzione fra cittadini di Israele e ebrei
Sarah Parenzo, TEL AVIV 23/05/2024
La richiesta di emettere un mandato di arresto nei confronti di Benyamin Netanyahu e di Yoav Gallant effettuata dal procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, costituisce un’ulteriore macchia dolorosa che intacca l’immagine dello stato di Israele agli occhi del mondo.
SE ANCHE mettiamo da parte le possibili implicazioni giuridiche e i risvolti pratici, è indubbio che nell’immaginario collettivo tali affermazioni si aggiungono all’accusa di genocidio formulata dalla Corte internazionale di giustizia contro Israele lo scorso gennaio, a conferma del fatto che stiamo inevitabilmente entrando in una nuova era nella quale lo stato ebraico cessa di godere di immunità agli occhi degli organismi di diritto internazionale. Come nel caso dell’accusa di genocidio, anche l’equiparazione di Netanyahu e Gallant ai leader di Hamas sono state accolte in Israele con sdegno e condannate come inaccettabili anche dai membri dell’opposizione. Bisogna rivolgere lo sguardo agli esponenti della sinistra radicale per leggere delle reazioni forse più razionali, ma non per questo meno dolorose. Benché passando in rassegna il documento emerga che i capi d’accusa riferiti a Hamas siano molto diversi da quelli attribuiti agli esponenti del governo israeliano, non è una novità che parlare di crimini di guerra o crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei palestinesi per il mainstream israeliano continui ad essere un tabù, in particolare dopo il 7 ottobre.
SE DUNQUE l’obiettivo degli organismi di diritto internazionale è quello di ristabilire l’uguaglianza nei confronti delle nazioni, impedendo discriminazioni o favoritismi, nell’ottica del breve periodo il rischio è che questo tipo di pronunce sortiscano l’effetto contrario, ricompattando la popolazione ebraica e favorendo nuovamente gli interessi di Netanyahu. Per scrollarsi di dosso e delegittimare tutte le accuse rivoltegli, il primo ministro israeliano anche questa volta si è servito dell’argomentazione dell’antisemitismo strumentalizzandolo come arma per riguadagnare consensi. Del resto l’isolamento degli israeliani, che si sentono sempre più in difficoltà di fronte all’opinione pubblica internazionale, è amplificato proprio dalla crescente percezione che la distinzione fra gli esponenti del governo e cittadini israeliani, e soprattutto tra israeliani ed ebrei, sia sempre più sfumata, come dimostra l’ultimo grave episodio di razzismo all’Università di Firenze. Anche senza bisogno di vedersi disegnare una stella di David sulla porta, israeliani ed ebrei di tutto il mondo, attivisti per i diritti umani inclusi, dopo il 7 ottobre hanno compreso di essere stati ufficialmente detronizzarti dal ruolo di vittima che il dramma della Shoah gli aveva conferito agli occhi del mondo.
TUTTAVIA l’immediato schieramento di Stati uniti e Germania a favore di Israele, così come le ipocrisie e i legittimi timori delle istituzioni occidentali, che hanno tutto l’interesse a salvaguardare l’equilibrio della regione mediorientale, dimostrano che l’operazione di elevare i palestinesi a ruolo ufficiale di vittime ha dei costi difficili da sostenere fuori dalle manifestazioni studentesche e di piazza.
Sembrerebbe più corretto affermare che questa fase del conflitto si sta distinguendo sempre di più dal punto di vista semantico. La comunicazione, che vede Israele sempre in svantaggio rispetto a Hamas, dimostra che le parole hanno un peso e sono armi altrettanto affiliate. Questo vale per i social, per i cartelli usati nelle proteste e, a maggior ragione, per queste dichiarazioni drammatiche sul genocidio e sui crimini di guerra che, a prescindere dall’esito finale delle procedure giuridiche, rischiano di risuonare per decenni a spese di Israele. Il prossimo governo israeliano avrà un bel lavoro da fare per riabilitare l’immagine del paese, ricostruirlo e ridare una speranza alla popolazione. C’è da chiedersi se la sinistra israeliana liberale saprà eventualmente cogliere la sfida, mettendo finalmente la questione palestinese e la fine dell’occupazione al vertice dell’agenda politica.
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