I CROCIATI EUROPEI CENSORI DEI SOCIAL da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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I CROCIATI EUROPEI CENSORI DEI SOCIAL da IL FATTO e IL MANIFESTO

I crociati europei censori dei social

La guerra della verità – Pioggia di accuse sulla decisione di Zuckerbergdi ridurre i controlli sui social di sua proprietà. Ma le “Congregazioni di fact-checking” scoprono sì notizie false, però ne producono anche

 Barbara Spinelli  10 Gennaio 2025

Si sono subito levate grida di sdegno, martedì scorso nei media scritti e parlati, quando Mark Zuckerberg ha annunciato la fine, nello spazio Usa, della collaborazione di Meta con siti di fact checking esterni, incaricati di verificare i contenuti Facebook, Instagram e Thread (la verifica/censura resta per reati specifici).

La mossa è stata immediatamente bollata come omaggio servile al Presidente eletto Trump e a Elon Musk, che impossessandosi di Twitter e ribattezzandolo X ha eliminato i verificatori/censori terzi.
L’argomentazione di Zuckerberg in favore della libertà di espressione e contro le censure eccessive praticate nell’Unione europea andrebbe meditata con cura, e invece è giudicata eretica. Ecco “riaperta la porta alle bugie messe sistematicamente in circolazione (…) per compromettere il processo democratico”, si legge su Repubblica. Ecco che “Mark s’inginocchia” davanti a Trump. Facebook e Instagram adotteranno il metodo delle community notes sperimentato con successo da Musk per X: saranno gli utenti, con una complessa procedura collaborativa, a aggiungere contestualizzazioni e precisazioni quando ritengono scorretto un post.

Gli utenti non sono i poveri imbecilli descritti da chi nella stampa scritta o parlata si ritiene maestro di pensiero, castigatore non criticabile, geneticamente veritiero. La diffamazione dei social si è fatta così enorme, a cominciare dai tempi del Covid, che prima o poi doveva venire qualcuno e chiedere: ma chi controlla i controllori? Che bisogno c’è di una Congregazione del Sant’Uffizio che concede imprimatur preventivi e davanti a cui occorre inginocchiarsi, con la scusa che gli utenti cadrebbero così facilmente in tentazione? Gli utenti sono appaiati agli elettori: se non votano come vogliamo noi, devono avere un baco nel cervello.
La battaglia dei verificatori contro la disinformazione ha i suoi siti internet, e i suoi sponsor e finanziatori. Bbc Verify, a esempio, ha rapporti stretti con l’Istituto di Studi Strategici della Nato e non solo verifica ma fa propaganda e censura. Chiunque critichi la politica occidentale sulla guerra in Ucraina o sullo sterminio perpetrato da Israele a Gaza diventa bersaglio delle campagne contro la disinformazione. I verificatori sono numerosi ovunque.

Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito di fact checking fondato da Enrico Mentana nel 2018. È stato anche il più controverso, nella guerra di Ucraina. È noto per aver più volte diramato false notizie diffuse dai fedeli di Zelensky e per aver demonizzato Putin, ignorando le preoccupazioni del Cremlino fin dai primi allargamenti a Est della Nato. Le Congregazioni di fact checking scoprono certo notizie false, ma ne producono anche in proprio, come quando accusano giornalisti indipendenti, professori universitari e intellettuali di essere di volta in volta filo-putiniani o antisemiti.
Si può supporre che non mancherà la consueta presa di posizione del Parlamento europeo, su queste vicende: per condannare l’allineamento di Zuckerberg a Musk e Trump, per sottolineare ancora una volta – come in varie risoluzioni sulla libertà dei media – il divario di qualità, correttezza, affidabilità che separerebbe il selvaticissimo e pericoloso mondo dei social dalla stampa scritta e parlata, dipinta come immacolato rifugio del giornalismo sano, adulto, controllato magari da proprietari perniciosi ma pur sempre superiore moralmente al nefasto social network.

Sono anni che tale divario viene denunciato, non sempre a sproposito. Ma andrebbe detto che la disinformazione non è nata con l’avvento dei social. La stampa scritta, e la radio e televisione, sono stati e sono tutt’ora i massimi divulgatori di notizie distorte e di omissioni, di autocensura e censura, specie in tempi di tensioni internazionali e di guerre.
Tanto per limitarci al secondo dopoguerra, basti ricordare la maniera in cui fu narrato e continua a esser narrato l’intervento nucleare statunitense a Nagasaki e Hiroshima – non come crimine contro l’umanità, ma come conclusione tecnicamente accelerata della guerra contro il Giappone. O la maniera in cui fu raccontata la guerra di Corea, fra il 1950 e il 1953 in piena era maccartista: come giusta lotta contro il comunismo nordcoreano e mondiale, e non come eccidio delle popolazioni civili (2,5 milioni di morti) e torture di nordcoreani nelle carceri del Sud.

Molti decenni dopo si seppe che il comandante in capo delle truppe occidentali, generale Douglas MacArthur, aveva ripetutamente chiesto al Presidente Truman l’uso dell’atomica in Corea del Nord (anche l’atomica nord-coreana ha una sua genealogia). Solo pochi si ersero allora contro un conflitto che aprì la strada a tutte le successive guerre fatte per cambiare regimi, e esportare democrazia e “valori occidentali”. Tra i rari protestatari ci furono artisti come Picasso e il regista Samuel Fuller, e giornalisti come Robert Miller, Wilfred Burchett e Alan Winnington. La guerra di Corea è tra le più dimenticate, non in Oriente ma di certo negli Stati Uniti e ai vertici dell’Onu, manomessa da Washington.
Dopo di allora tutte le guerre occidentali hanno visto la stampa mainstream, detta anche legacy media, allinearsi alla propaganda Usa e diffondere fake news a palate, anche se non mancarono – specie in Vietnam – reporter che tennero viva la memoria delle crudeltà e inanità cui assistettero. Sono tutte guerre perse dagli occidentali: in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia, Yemen, ecc.

Oggi la situazione è diversa e peggiore. I grandi giornali e le principali reti Tv non hanno più soldi per pagare inviati di guerra come ai tempi del Vietnam. A ciò si aggiunga, non meno grave, l’impossibilità di raccogliere notizie su tutti gli Stati combattenti. Difficile sapere quel che si pensa e si dice in Russia sul conflitto in Ucraina e a Kursk, dopo l’oscuramento in Europa delle Tv russe. Impossibile scrivere reportage su Gaza perché l’ingresso dei giornalisti nella Striscia è proibito da Israele, che anche in questo caso viola il diritto internazionale. Ogni servizio Tv su Gaza e Cisgiordania dovrebbe ricordare il divieto, e ringraziare i giornalisti palestinesi e Al Jazeera per i loro reportage e per i pericoli mortali che corrono (più di 220 uccisi a Gaza). Se si vogliono notizie è solo ai social che ci si può rivolgere: in particolare a Telegram, per quanto riguarda sia l’Ucraina sia Gaza e Cisgiordania. E anche quando i media tradizionali hanno notizie più approfondite, meno rozze, c’è un muro che ostacola l’accesso online, un paywall: è il prezzo proibitivo dell’abbonamento annuale.
A questo punto si capisce come mai i media tradizionali siano i primi a esercitare pressioni perché resti in piedi, almeno in Europa e in Italia, il fact checking che Elon Musk e Mark Zuckerberg hanno abolito (tranne per specifici reati). Ne va della sopravvivenza dell’establishment giornalistico, e del suo bisogno di proteggersi dalla marea spesso indistinta, ma gratuita, dei social.

Ingerenze delle piattaforme, «le regole Ue ci sono, ora serve la volontà politica»

Giù la Musk Intervista all’esperta Iva Nenadic: «Quello che sta facendo Musk rappresenta un precedente preoccupante per l’integrità della competizione elettorale, in Germania e non solo»

Andrea Valdambrini  10/01/2025

«Le grandi compagnie tecnologiche si stanno opponendo alle regole Ue. Si tratta di un segnale importante: per la Commissione è ora di dare applicazione alle norme che sono state adottate recentemente». Iva Nenadic è esperta di strumenti regolatori delle piattaforme online e delle conseguenze per la democrazia presso il Centre for Media Pluralism and Freedom dello European University Institute (Eui) di Firenze.

Professoressa, la Commissione Ue ha fatto sapere di aver seguito con attenzione il livestream della leader AfD Alice Weidel su X. Però non abbiamo ancora capito se Musk viola le norme europee, in particolare il Digital service act (Dsa)?
C’è una discussione in corso, ma di sicuro siamo di fronte a uno «stress test», che permetterà di capire a che livello funziona la cassetta degli attrezzi europea per il digitale. Siamo anche certamente ad una svolta. Finora le piattaforme online erano state classificate legalmente in una categoria differente rispetto ai media tradizionali. Le regole permettevano alle piattaforme di non essere direttamente responsabili dei contenuti postati. Però con questa mossa, Musk rivela una volta per tutte come X sia cambiato.

Cosa intende precisamente?
Che ora è direttamente il social di proprietà Musk a rendere possibile uno spazio per il dibattito politico, a cui viene anche fornita, in qualche modo, una cornice editoriale. Direi quindi che siamo di fronte a una nuova era per la comprensione concettuale e legale di quello che sono le piattaforme digitali. E del ruolo che possono giocare nelle elezioni.

Qual è l’aspetto nuovo che cambia il paradigma?
Un conto è che AfD posta sul social i suoi contenuti, sempre al netto delle eventuali violazioni delle regole, come ad esempio in caso di hate speech. Un altro è che Musk in prima persona e in quanto proprietario della piattaforma fornisce intenzionalmente tempo e spazio a un partito politico. Si comporta quindi in un certo senso come editore di un media tradizionale, ma alla sua trasmissione non vengono applicate le regole di bilanciamento politico, equilibrio e parità di condizioni che le testate giornalistiche sono tenute a rispettare in un contesto democratico. Insomma, quello che sta facendo Musk rappresenta un precedente preoccupante per l’integrità della competizione elettorale, in Germania e non solo.

Alla base, le regole europee cosa prevedono?
Il Dsa è un tentativo di rendere le piattaforme più trasparenti e responsabili rispetto al diffondersi della disinformazione. Alle piattaforme viene richiesto di valutare con sistematicità il rischio di abusi, così come di mettere in campo pratiche di moderazione dei contenuti. Se poi quando l’uso dei social comporta implicazioni negative sui diritti fondamentali e sulla democrazia, sta alle piattaforme indentificarne i pericoli e agire di conseguenza.

L’Ue ha aperto da tempo una procedura contro X, eppure non è arrivata a conclusione né sono stati finora presi provvedimenti. Le regole messe in campo da Bruxelles sono efficaci?
Guardiamo come è nato il Dsa. L’Ue ha puntato inizialmente sulla buona volontà delle piattaforme, credendo nella bontà dello spirito cooperativo. Eppure appena Musk ha acquistato Twitter trasformandolo in X è subito uscito dal codice volontario di autoregolamentazione. È stato il primo campanello d’allarme che la buona volontà delle piattaforme non basta. E pochi giorni fa si è visto un altro segnale grave, con l’annuncio di Mark Zuckerberg che rinuncia al fact-checking (al momento solo negli Usa). Le regole ci sono, ma in fin dei conti dipende tutto dalla volontà politica di metterle in atto.

Ora Facebook abolisce il fact-checking con cui ha massacrato i social

daniele luttazzi  10 Gennaio 2025

E ora, per la serie “Cucurrucucù paloma”, la posta della settimana.
Caro Daniele, Zuckerberg ha tolto il fact-checking da Facebook. Bene, no? (Andrea G.)

Sì e no.
Bene perché il fact-checking di Facebook era certificato dall’Ifcn, ovvero dalla Cia (t.ly/73ZPn), per cui i commenti contrari alla narrazione Usa/Nato sull’Ucraina e Usa/Israele sul genocidio in corso a Gaza subivano
shadowbane sospensione dell’account. Questo fact-checking era l’escamotage con cui Zuckerberg il furbastro aveva cercato di salvare la baracca del suo social nocivo dopo lo scandalo Cambridge Analytica (Facebook, oltre che una piattaforma di sorveglianza che va a braccetto coi servizi segreti Usa, è una piattaforma di estrazione dati che profilando gli utenti permise a certi partiti politici di fare pubblicità mirata: provato il suo contributo alla prima vittoria di Trump e alla Brexit, t.ly/8Rfr7).
Non bene perché Zuckerberg, con Trump di nuovo presidente, toglie quella ridicola foglia di fico adottando la soluzione di Musk su X: lasciare il fact-checking agli utenti. Ma perché gli utenti dovrebbero fare qualcosa che una compagnia da 500 miliardi di dollari si rifiuta di fare? Né l’iniziativa individuale può risolvere gli abusi delle piattaforme. Oggi Zuck torna a usufruire del delizioso menefreghismo che gli rende gaia l’esistenza, e risparmia; ma il
laissez faire dei social si è già dimostrato tossico. Facebook fece da megafono alla teoria complottista del movimento QAnon (3 milioni di seguaci) che accusava di pedofilia alcuni membri del Partito Democratico Usa, indicando un ristorante come sede di rituali satanici: lo staff del ristorante diventò bersaglio di minacce crescenti finché un invasato entrò a sparare con un AR-15. Non c’è il diritto alle fake news, specie se, ideate a scopo di propaganda, istigano la gente a commettere crimini, tipo assalti armati alle istituzioni. Il grottesco attacco al Congresso (cinque morti) fu preceduto dalla campagna online #StopTheSteal : fomentata da Trump con video deliranti di “chiamata alle armi” su Facebook e Twitter, e rilanciata da Fox News, accreditava la falsa tesi trumpiana dei brogli elettorali. Facebook fu anche usata con successo dagli hacker russi che interferirono con le elezioni Usa del 2016 per favorire Trump; e dagli ultranazionalisti di Myanmar, che diffusero fake news e hate speech allo scopo di fomentare le violenze di massa contro i musulmani Rohingya e altre minoranze (
t.ly/Qb5H7). Nel dicembre 2018, 29 associazioni per la difesa dei diritti civili chiesero le dimissioni di Zuckerberg e un cambiamento delle pratiche di Facebook dopo l’inchiesta del
New York Times su come Facebook, quando emersero le sue responsabilità nella propaganda virale di odio contro minoranze vulnerabili, cercò di screditare i propri critici assoldando un’azienda di Pr che li bollasse come agenti di George Soros (
t.ly/7_6R3). Facebook, con atti, omissioni, connivenze e bugie, contribuisce a indebolire la democrazia (Solon, 2018). Va ricordato che i social non hanno come scopo la cultura, ma lo sfruttamento economico, come il vecchio capitalismo di cui sono la continuazione (Srnicek, 2017); che i loro algoritmi favoriscono contenuti violenti, razzisti e misogini; che il capitalismo si serve volentieri dei nazifascisti per conculcare chi lo ostacola; che il nazifascismo, una volta al potere, cancella la democrazia; e che il capitalismo è antidemocratico e inarrestabile, se le leggi non gli impongono paletti e doveri. In democrazia, per dire, gli editori hanno il dovere di controllare la veridicità delle notizie prima di diffonderle. Per tutti questi motivi è ingenuo lasciare la regolamentazione dell’attività degli Zuckerberg all’arbitrio interessato degli Zuckerberg. Quanto a me, non vedo l’ora di vedere Gas!, il musical Disney tratto dal diario di Silvia Plath.

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