GUERRA E DAZI: CI RIMETTE SOLO L’EUROPA, NON TRUMP da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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GUERRA E DAZI: CI RIMETTE SOLO L’EUROPA, NON TRUMP da IL FATTO e IL MANIFESTO

Guerre e dazi: ci rimette solo l’Europa, non Trump

Elena Basile  13 Aprile 2025

Non siamo economisti. Il raziocinio tuttavia non ci manca. La divergenza tra interessi economici dell’Europa e degli Stati Uniti è una vecchia storia per tutti gli addetti ai lavori. È divenuta una realtà ben visibile all’opinione pubblica con Biden e la guerra in Ucraina. Il risultato economico del conflitto infatti è stato la fine del modello di crescita tedesco ed europeo in vigore dagli anni 80 basato su esportazione di tecnologie in Russia in cambio di gas a basso prezzo. La Germania da motore è divenuta malata d’Europa. L’economia degli Usa è cresciuta avvantaggiandosi della vendita di armi all’Europa (+600%) dal marzo del 2022 e del gas americano quattro volte più caro di quello russo. Il programma straordinario di aiuti di Stato alle imprese realizzato da Biden ha stravolto le regole della concorrenza schiacciando gli interessi europei. La fine della globalizzazione è stata già decretata da Biden con l’auspicato decoupling (“disaccoppiamento”) dalla Cina e con l’idiozia del friendly shoring (“rilocalizzazione di alcune produzioni in Paesi amici”) irrealizzabile perché le catene dell’approvvigionamento non sono integrate in Occidente.

Ai tempi di Biden, tuttavia, nessuno sembrava osservare quanto Washington e Bruxelles avessero percorsi e obiettivi economici differenti. Si subiva l’alleato in allegria. Con Trump, che è a mio avviso il volto più ignobile e onesto dell’impero, tutti si strappano i capelli. Di fatto le sanzioni alla Russia hanno implicato un danno al Pil europeo dell’1,5%, mentre i dazi di Trump (per ora sospesi) lo restringerebbero di circa lo 0,5%.

Siamo abituati inoltre a vedere una discrepanza tra Borsa ed economia reale. L’Europa in recessione durante il Covid era accompagnata da una Borsa florida e in ascesa. Per il 95% della popolazione le perdite virtuali della Borsa non significano impoverimento. I giornalisti enfatizzano il disastro per l’economia europea come se il trickle down, lo “sgocciolamento di ricchezza” dalle classi abbienti verso gli strati più poveri della popolazione, non fosse una teoria la cui inefficacia analitica non fosse stata abbondantemente provata. E perdite in Borsa delle classi abbienti non si trasferiscono necessariamente sulle classi lavoratrici. Il riarmo solleverà le sorti della grande industria tedesca ed europea, ma non avrà risultati positivi per la maggioranza della popolazione che ha bisogno di scuole e sanità, di politica industriale che porti occupazione per i figli, di infrastrutture, di lotta al disastro climatico e di pace, di commercio.

L’economia di un impero in ascesa è per antonomasia aperta, è un’economia forte che sfida la concorrenza. Trump registra il declino americano con dazi protezionistici che aggraveranno la mancanza di competitività. L’obiettivo di far tornare le imprese straniere negli Stati Uniti, in modo da non essere tassate, sembrerebbe ingenuo. La delocalizzazione è dovuta alla possibilità di produrre in parti del mondo al di fuori dell’Occidente con costi inferiori che non saranno facilmente cancellati dai dazi. La Cina oggetto degli strali trumpiani ha molte carte da giocare. Può diversificare il mercato facilmente grazie alla cooperazione con i Brics. Non dimentichiamo che le catene di rifornimento in Cina e in Asia sono integrate a differenza di quanto accade da noi. Inoltre Pechino può restringere l’esportazione di terre rare e materiali essenziali al capitalismo statunitense. Non è detto che Europa e Cina, messe alle strette, non trovino modi per riprendere a cooperare economicamente. Di fatto Trump aveva un solo modo per trionfare: tagliare il debito dovuto alle spese militari realizzando la pace in Ucraina. Mai si è vista la potenza egemone nella Nato non imporre la sua linea agli Stati vassalli. Vero è che il potere radicato degli apparati di intelligence e del Pentagono si è trasferito in Europa. D’altra parte il presidente Usa potrebbe decidere di lasciare soli gli alleati nel conflitto con la Russia: i Macron, gli Starmer e i Merz alla fine capitolerebbero. Washington è invece ondivaga, opta per delegare la guerra e incamerare introiti per la vendita delle armi. Il re è nudo. Lo abbiamo visto nel surreale scontro tra Zelensky e Trump. Come ho già avuto modo di scrivere, Nixon e Bush, ma anche Clinton e Obama, tra i sorrisi diplomatici, avrebbero già provveduto a defenestrare un politico dipendente e irrispettoso come l’ucraino. In Medio Oriente, Trump fa peggio. Permette a Israele di abbandonare unilateralmente il cessate il fuoco e bombarda lo Yemen, che si oppone alla ripresa dello sterminio di Gaza. È vero che Trump alla Casa Bianca ha maltrattato anche Netanyahu, ma segnali atroci fanno supporre che verrà incontro all’oscena richiesta della lobby di Israele di bombardare l’Iran. Altro che pace e diminuzione delle spese militari. L’impero ha un’oggettiva continuità. Del resto come credere in un Trump statista? Lo avete ascoltato per un secondo? Non c’è il genio dietro l’attore. Trump è ciò che mostra.

Né con il liberismo né col protezionismo: un «social standard»

Oltre i dazi Moriremo liberisti o protezionisti? Stando all’agenda politica, sono queste le uniche corde alle quali possiamo oggi scegliere di impiccarci

Emiliano Brancaccio  13/04/2025

Moriremo liberisti o protezionisti? Stando all’agenda politica, sono queste le uniche corde alle quali possiamo oggi scegliere di impiccarci. Dilemma lugubre quanto beffardo: liberismo e protezionismo sono infatti due estremi del medesimo laccio capitalista, inestricabilmente annodati l’uno all’altro.

Le recenti mosse di Donald Trump lo dimostrano. Il presidente americano agita l’arma dei dazi, poi la rimette in tasca, quindi la punta di nuovo sul mondo. E in questa giostra di annunci e smentite, al limite dell’aggiotaggio, offre magnifiche occasioni di guadagno per i suoi grandi elettori, gli speculatori di Wall Street, che in pochi giorni hanno potuto comprare a poco e vendere a tanto.

Barriere sempre più alte all’esterno e mercato di liberi filibustieri all’interno: due espressioni della medesima frenesia capitalista.

Ma anche dalle nostre parti non mancano prove di un analogo intreccio. Basti notare il modo in cui il governo sta preparando la visita di Giorgia Meloni a Washington. A quanto pare, la premier si presenterà al tavolo trumpiano con due punti in agenda. Da un lato, plaudire ai dazi americani contro il comune nemico cinese. Dall’altro lato, convincere l’Unione europea a rinunciare alle già risibili tasse pagate dalle multinazionali Usa nel continente, e a cancellare le norme che frenano l’importazione di merci americane di scarsa qualità, spesso dannose per la salute e per l’ambiente.

Protezionismo e liberismo, ancora una volta annodati nel medesimo fazzoletto.

Ma il modo più chiaro per comprendere che la disputa tra protezionismo e liberismo è fuorviante, consiste nel notare che in realtà l’uno è storicamente concatenato all’altro. Il globalismo senza regole degli anni passati ha generato enormi squilibri commerciali, che sono oggi ben visibili nel debito record degli Stati uniti verso il resto del mondo.

La svolta protezionista dell’America non è altro che l’estremo tentativo di rimediare a questa sua crisi debitoria. L’implicazione è chiara: il liberismo non può essere la soluzione contro il protezionismo poiché è parte del problema che lo ha generato.

Diventa a questo punto evidente l’inconsistenza del dibattito tra alfieri delle barriere agli scambi e paladini della libertà dei commerci. Protezionismo e liberismo sono solo due facce del capitale, disperate e feroci, alle prese con la grande crisi dell’ordine mondiale a guida americana.

Per chi intenda rappresentare le istanze del lavoro, dell’ambiente e della salute collettiva, il problema che allora si pone è cercare una bussola alternativa di navigazione nella tremenda tempesta globale in atto.

Una possibile soluzione consiste nel rilancio del cosiddetto social standard per la regolazione dei movimenti internazionali di merci e di capitali. L’idea non è nuova. Si tratta di una sintesi aggiornata di proposte avanzate dall’Ilo (l’agenzia dell’Onu per lavoro e politiche sociali), regole presenti nei Trattati Ue e clausole contenute nello statuto del Fondo monetario internazionale, che già in passato ha ricevuto l’attenzione del parlamento europeo.

Il nucleo dello standard consiste in una limitazione dei commerci con quei paesi che attuino politiche di competizione al ribasso sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui regimi di tutela ambientale e sanitaria, rispetto a un comune obiettivo di riferimento e alla posizione da cui partono. Così congegnato, il meccanismo può sanzionare non solo la Cina che reprime i sindacati indipendenti o la Romania che taglia il welfare per sussidiare gli investimenti delle multinazionali, ma anche la Germania che comprime il salario per unità prodotta, gli Stati uniti che abbattono i vincoli ambientali alla produzione o l’Italia che demolisce il diritto del lavoro.

A ben vedere, il social standard rappresenta una soluzione esattamente opposta all’agenda con cui Meloni e gli altri esponenti delle destre di governo in Europa vorrebbero inaugurare la trattativa con Trump. Per questi, lo squilibrio internazionale va affrontato con una sciagurata miscela di protezionismo liberista: un dumping a tutto campo che non risolverà la crisi mondiale e aggraverà le condizioni del lavoro, della salute e dell’ambiente.

Il mix Trump-Meloni è già sul tavolo. Sarebbe ora di unire le forze intorno a una proposta alternativa.

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