GLI USA, LE MULTINAZIONALI E I BAVAGLI ANTIPALESTINESI da IL MANIFESTO
Gli Usa, le multinazionali e i bavagli anti-palestinesi
CLARA MATTEI 18 LUGLIO 2024
Ci sono immagini che nessuna parola può sostituire. Ciascuno di noi le può facilmente “consumare” sui social media: un bambino di sei anni ridotto a scheletro, morto di denutrizione. Un padre che piange straziato con il suo bambino ricoperto di sangue e morto tra le braccia. Teste di bambini schiacciate dalle macerie. Il film documentario The Night Won’t End appena rilasciato da Al Jazeera immortala la vita quotidiana di tre famiglie palestinesi negli scorsi 10 mesi e fa impazzire di disperazione. La rivista medica britannica, The Lancet, ha appena rilasciato una “stima conservativa” di oltre 186.000 morti a Gaza. Si tratta dell’8% della sua popolazione prebellica.
Il bilancio delle vittime è destinato a impennarsi dato il livello apocalittico di distruzione: ospedali in macerie, frutteti e campi ridotti in polvere, risorse idriche contaminate, spazzatura e detriti mescolati in una striscia di terra iper-inquinata in cui la vita umana sta diventando impossibile. Senza contare i 20mila orfani che si aggirano tra le rovine e mezzo milione di persone scientemente lasciate morire di fame tramite i blocchi degli aiuti umanitari. Le torture inferte ai detenuti delle carceri israeliane sono immortalate da diversi video girati dagli stessi soldati dell’Idf, mentre Israele continua a bombardare le scuole dell’Onu (Unrwa) che accolgono i rifugiati, 70% delle quali sono state distrutte, sei solo negli ultimi dieci giorni, uccidendo centinaia di bambini.
Il caso palestinese mette a nudo la verità del nostro sistema socio-economico, nei suoi molteplici aspetti. Innanzitutto lo svuotamento di senso del concetto di democrazia: emerge la faccia di un sistema oligarchico e autoritario in cui l’élite utilizza tutti i suoi patetici strumenti per occultare i processi in atto e operare uno scollamento semantico. Gli Stati Uniti, come forza trainante del capitalismo avanzato, rappresentano il caso più eclatante. Se, mesi fa, la Cnn aveva già licenziato tutti i suoi conduttori arabi, sospetti di portare troppa attenzione al caso, il New York Times – come tutte le grosse testate – riduce il massacro in corso a una nota a piè di pagina. Lo scorso mese il Congresso americano ha persino approvato una norma che vieta al Dipartimento di Stato di citare le statistiche sui decessi fornite dal Ministero della Salute di Gaza. Rashida Tlaib, unica rappresentate palestinese al Congresso, ha così commentato: “Stiamo osservando il governo di apartheid israeliano compiere un genocidio a Gaza in tempo reale e questa norma è un tentativo di nasconderlo”. L’establishment statunitense si libera in tutti i modi di possibili voci critiche. Emblematico il caso del rappresentante di sinistra Jamaal Bowman: l’American Israel Public Affairs Committee ha speso quasi 15 milioni di dollari per farlo capitolare nelle primarie democratiche. Gli Usa rappresentano un ulteriore trend globale. Mentre al loro interno i livelli di emarginazione sociale e povertà crescono esponenzialmente, incarnati dalla crisi dei senza tetto che raggiunge dimensioni sconcertanti (100 mila soltanto nella città di New York, 30mila dei quali bambini), le tasse che pagano sproporzionatamente le famiglie delle classi lavoratrici non vanno alla spesa sociale. Il debito pubblico cresce per incrementare le ricchezze dei grandi shareholder, con elargizioni pubbliche ai privati, specialmente del settore militar-industriale. Soltanto negli ultimi 10 mesi il Congresso ha approvato 12,5 miliardi di dollari in aiuti militari. “L’assistenza” militare si traduce direttamente in crescita economica e business garantito per la fitta rete di più di 50 multinazionali che partecipano alla strage di Gaza. Da General Motors a Ghost Robotics fino a Google e altre AI companies che forniscono gli algoritmi della morte (si pensi alle rivelazioni sui sistemi “The Gospel”, “Lavender” e “Where is Daddy”).
Come racconta lo studioso Andreas Malm, il militarismo strutturale al capitalismo sostiene la sua sete estrattiva. A novembre, quando la maggior parte del nord di Gaza era stata ridotta in macerie, Chevron ha ripreso le operazioni nel giacimento di gas Tamar (sulle coste di Gaza). Il giorno dopo l’inizio dell’invasione terrestre di Gaza, lo Stato di Israele ha concesso 12 licenze per l’esplorazione di nuovi giacimenti di gas: una delle società che le ha ottenute è stata BP. Sin dall’inizio questo massacro è apparso come uno “sforzo transnazionale” dei Paesi capitalisti dell’Occidente. “Le nazioni industrializzate timorose del caos globale stanno inviando un messaggio minaccioso al sud del mondo e a chiunque pensi alla rivolta: vi uccideremo senza riserve e nessuno ci fermerà. Un giorno saremo tutti palestinesi” è l’inquietante analisi del giornalista americano Chris Hedges.
I bulldozer israeliani sulle case palestinesi
GUERRA DI RETROVIA. Il Comune di Gerusalemme ordina di distruggere abitazioni ad al-Walaja, oltre il muro. E anche al di qua: Silwan nel mirino
Michele Giorgio, AL WALAJA 18-07-2024
Al Walaja non sarà il «villaggio più bello della Palestina» come vuole un antico detto di queste parti ma certo è un luogo molto piacevole. Segnato nei registri ottomani già dal 1600, situato nelle valli tra Gerusalemme e Betlemme, punteggiato dagli alberi di olivo e predisposto per le coltivazioni, Al Walaja potrebbe donare ai suoi tremila abitanti una esistenza tranquilla. «Invece la nostra vita è un inferno» dice al manifesto Khader Araj il sindaco. «Siamo soffocati dalle carte – ci spiega – quelle dei ricorsi che continuiamo a presentare (alle corti israeliane) per tutelare, senza successo, le nostre case dalle demolizioni. Dal 1° gennaio le ruspe israeliane hanno demolito 12 abitazioni, le ultime appena tre giorni fa». Lunedì il lungo braccio di un bulldozer ha ridotto in macerie cinque case, una della famiglia Abu Rizek e quattro della Abu Tin. «Erano state costruite senza il permesso edilizio, ma gli israeliani non ci autorizzano mai a edificare nuove case e i nostri figli come possono crearsi un futuro. Intorno a noi vediamo crescere le colonie di Gilo e Har Gilo (illegali per la legge internazionale), costruite sulle nostre terre e quelle di Beit Jala e Sharafat».
L’INFERNO di Al Walaja ha due origini: la guerra del 1967 e gli accordi di Oslo. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, il villaggio come tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est fu posto sotto occupazione militare. Israele ridisegnò i confini municipali di Gerusalemme, annettendosi metà della terra di Al Walaja sulla Linea verde dell’armistizio. Per decine di famiglie fu la rovina economica. Perduti i terreni agricoli, molti smisero di fare i contadini per diventare manovali pagati a giornata. Dopo gli accordi di Oslo II nel 1995, il 2,6% del territorio di Al Walaja venne classificato come Area B della Cisgiordania, amministrato civilmente dai palestinesi ma sotto il controllo di sicurezza di Israele, mentre il restante 97,4% rientrò nella Area C, il 60% della Cisgiordania sotto il controllo totale delle autorità militari israeliane. Successivamente il Muro di separazione alzato da Israele tra Cisgiordania e Gerusalemme isolò il villaggio, lasciando ai suoi abitanti un solo punto di entrata e uscita e grandi difficoltà nell’ottenere i permessi per raggiungere le terre coltivate dall’altra parte della barriera. Nel 2019, un contadino fu multato per aver raccolto le olive nelle sue terre dichiarate «parco naturale» della colonia di Gilo. E mentre Al Walaja vede demolite le sue case dal comune di Gerusalemme, i suoi abitanti restano residenti della Cisgiordania, non autorizzati a entrare nella Città santa.
«I TERRENI di queste ultime demolizioni fanno parte del distretto di Betlemme, ma per Israele appartengono a Gerusalemme», dice Amr un attivista locale. «Fanno pressione su di noi – aggiunge – vogliono costringerci a lasciare il villaggio e le terre che ci restano. In questo modo potranno espandere le colonie che ci circondano». Dal 2010 a oggi ad Al Walaja sono state demolite un centinaio di case e strutture varie, oltre a ricoveri per gli animali. Nel resto della Cisgiordania non è andata meglio. Nei primi sei mesi dell’anno, sono stati distrutti 318 edifici palestinesi. «Gli israeliani non ci consegnano il piano regolatore per Al Walaja. Vogliono solo cacciarci via dalla terra in cui viviamo da secoli. 30 case rischiano di essere distrutte molto presto», dice il sindaco Khader Araj.
NON SOLO a ridosso di Gerusalemme est, anche nel centro della zona araba della città, a ridosso delle antiche mura, si vive nell’ansia di demolizioni ed espulsioni. A Batn al Hawa, un’area nel quartiere di Silwan, 20 edifici rischiano di diventare in ogni momento cumuli di pietre e detriti o di passare agli originari «proprietari israeliani». Una famiglia palestinese, la Ghaith, nella sua casa dal 1979, nei giorni scorsi ha perduto l’ultimo ricorso davanti alle corti israeliane. Secondo i giudici l’abitazione un centinaio di anni fa – quindi prima della fondazione dello Stato di Israele – apparteneva a una famiglia ebraica. I Ghaith temono di dover abbandonare subito la casa e presto potrebbe toccare a altre due famiglie. 700 palestinesi di Batn al Hawa rischiano di essere cacciati via. La questione si trascina da anni a Silwan, una delle zone di Gerusalemme est a più alta penetrazione dei coloni perché ritenuta dagli archeologi biblici l’area in cui sorgeva la cittadella di Re Davide.
MOTORE della conquista israeliana di Silwan è l’organizzazione di estrema destra religiosa Ateret Cohanim, che afferma di lavorare «da oltre 40 anni per ripristinare la vita ebraica nel cuore dell’antica Gerusalemme». Il gruppo sostiene che gran parte di Batn al Hawa si troverebbe sul sito di un villaggio costruito da un trust filantropico sotto il dominio ottomano alla fine del XIX secolo per ospitare ebrei yemeniti evacuati dai britannici negli anni ‘30. Una legge del 1970 consente agli ebrei il diritto di reclamare proprietà a Gerusalemme est. Non è così per i residenti palestinesi con le proprietà arabe confiscate dallo Stato di Israele dopo il 1948. Già 41 famiglie di coloni israeliani vivono a Batn al Hawa.
IL PALESTINESE Anwar Rajabi scuote la testa. «Tirano fuori tutte queste storie ma noi viviamo in questa casa da 60 anni – commenta – e abbiamo il diritto di rimanerci».
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