GLI STATI UNITI TRA DEBOLEZZA E AMBIGUITÀ da GIUBBE ROSSE e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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GLI STATI UNITI TRA DEBOLEZZA E AMBIGUITÀ da GIUBBE ROSSE e IL MANIFESTO

Gli Stati Uniti tra debolezza e ambiguità

Enrico Tomaselli  21/08/2024

Osservando lo scenario complessivo del confronto che sta opponendo il blocco occidentale al blocco eurasiatico, emergono alcuni elementi di interesse su cui vale la pena soffermare l’attenzione. Sembra poco discutibile che gli Stati Uniti abbiano fatto una precisa scelta strategica, ossia che questo confronto – che sostanzialmente si riduce al rifiuto di accettare l’egemonia statunitense da parte di alcune nazioni – debba essere risolto in modo radicale, attraverso lo strumento della guerra. Di questo, si può trovare abbondante traccia nei documenti ufficiali del Pentagono, e dei vari think tank che contribuiscono variamente a determinare le scelte strategiche degli USA. Ma, una volta fatta questa considerazione, si corre il rischio di farne conseguire una lettura troppo semplicistica, che a sua volta potrebbe far interpretare erroneamente quanto sta accadendo – e quanto potrebbe accadere.

La prima precisazione che si rende necessaria, è che quando si utilizza il termine guerra, si intende soprattutto far riferimento a una modalità di approccio al confronto caratterizzata da una aggressività attiva: il confronto è inteso come conflitto, e questo è ritenuto insanabile, non suscettibile di mediazioni – se non su un piano meramente tattico. Questo approccio prevede la possibilità della guerra guerreggiata (dell’azione bellica vera e propria), ma non la privilegia: il modello preferito è quello della guerra ibrida, condotta cioè attraverso un insieme di azioni ostili, in cui coesistono minacce e blandizie, pressione economica e corruzione, psyops cyberware, diplomazia e – sì – anche azione militare.

Sotto questo profilo, è rilevante anche tenere a mente i precedenti storici. Nella seconda guerra mondiale, che rappresenta il definitivo passaggio degli USA al ruolo di superpotenza mondiale, gli Stati Uniti si batterono sostanzialmente contro due potenze industriali emergenti – Germania e Giappone – che avevano però entrambe una sostanziale carenza nell’accesso alle fonti energetiche e alle materie prime, ed erano comunque inferiori sotto il profilo della capacità produttiva.

Nonostante siano il paese che, dalla sua fondazione, è stato coinvolto nel più elevato numero di guerre, quella è stata l’ultima in cui Washington si sia così profondamente impegnata in prima persona.

Durante il non breve periodo che va sotto la denominazione (non casuale) di Guerra Fredda, gli Stati Uniti – così come l’URSS – si sono ben guardati dall’impegnarsi in una guerra frontale diretta. In un certo senso, è allora che comincia la guerra ibrida est-ovest. La ragione per cui non si è mai arrivati a uno scontro diretto, nonostante molti conflitti indiretti, è molto semplicemente perché prevaleva la consapevolezza di non essere più una potenza soverchiante, al punto di poter ragionevolmente presumere di vincere lo scontro. Ovviamente la disponibilità da ambo le parti di armi nucleari ha avuto in questo il suo peso, ma già all’indomani della WWII la guerra di Corea aveva messo in chiaro come, anche su un piano di guerra convenzionale, gli Stati Uniti non disponessero più di una indiscutibile supremazia militare.

Quel periodo, quindi, è stato freddo poiché non era più possibile assicurarsi la vittoria con le armi.

È importante comprendere il peso che hanno avuto, nel determinare le scelte strategiche statunitensi, i decenni compresi tra il 1945 e il 1991. La grande lezione che ne hanno ricavato gli strateghi geopolitici americani è che, contro potenze di un certo livello, lo scontro frontale militare prospetta un esito pericolosamente incerto, mentre la guerra ibrida ha successo. L’URSS non cadde in seguito a una sconfitta sul campo di battaglia, ma perché non fu in grado di reggere il logoramento prodotto dall’insieme di sollecitazioni cui era sottoposto lo stato sovietico, il partito comunista e l’intera società. A piegarla, è stata la guerra ibrida.

Il post-guerra fredda ha dapprima indotto le leadership statunitensi a credere che ciò significasse la fine della Storia, intesa come conclusione di un’era conflittuale e inizio di un’era di indiscussa egemonia. Anche all’euforia del momento, si dovette l’apertura della stagione della globalizzazione, che doveva rappresentare la divisione capitalistica del lavoro su scala planetaria, appunto all’ombra dell’egemonia americana. Questa illusione, comunque, almeno tra le élite politiche, economiche e militari statunitensi, non è durata a lungo. Infatti è apparso presto chiaro come stessero invece emergendo nuove potenze, inevitabilmente destinate a rifiutare – prima o poi – il ruolo egemonico degli Stati Uniti.

La fine della guerra fredda – e della Storia – aveva intanto prodotto i suoi effetti, spingendo gli Stati Uniti verso il ruolo di poliziotto del mondo. Questo ha avuto un impatto considerevole non solo nella percezione di sé, ma anche nella pianificazione strategica e nell’organizzazione militare. Sostanzialmente, si è consumato il passaggio da una struttura (e una dottrina) pensata in funzione di una ipotetica grande guerra simmetrica, a una in funzione di molte guerre asimmetriche. L’unico retaggio (della WWII) strategico del passato, è stato il permanere – nella dottrina militare – della necessità che le forze armate avessero la capacità di sostenere due conflitti contemporaneamente, in aree diverse – evidente eredità della guerra con la Germania (Europa) e col Giappone (Pacifico).

Di questi aspetti si è molto discusso, anche su queste pagine, pertanto non vale la pena di soffermarcisi più di tanto.

Il passaggio fondamentale, su cui va invece richiamata l’attenzione, è lo scarto che viene a determinarsi tra la riflessione geopolitica e la pianificazione strategica. È come se quest’ultima viaggiasse sulla spinta di quell’euforia di cui si diceva, e si attrezzasse quindi per un mondo sostanzialmente unipolare, in cui il ruolo egemonico statunitense richiedeva alle forze armate di agire da manganello del potere, mentre il pensiero geopolitico si proiettava in avanti, immaginando un futuro ben più instabile e l’emergere di competitors potenzialmente temibili. Si è venuto a determinare, insomma, una sorta di ritardo dello strumento bellico rispetto all’analisi strategica di lungo respiro.

Il risultato di questo gap è che oggi lo strumento militare statunitense (e più in generale dei paesi della NATO, che su quello sono modellati), pur essendo ancora dotato di considerevole potenza, non è però più pienamente adeguato allo scenario del conflitto globale. E, ovviamente, questo deve intendersi con riferimento a più livelli, dalla dottrina all’organizzazione, dall’articolazione strutturale delle forze armate alla tipologia di armamenti, etcetera.

Se, quindi, possiamo dire che l’occidente – forse crogiolandosi in un radicato senso di superiorità – non ha provveduto per tempo ad adeguare il proprio strumento militare alle ambizioni e ai disegni di egemonia globale, i suoi avversari (anche per una serie di ragioni storiche e strutturali, che non è qui il caso di riepilogare) hanno invece iniziato tempestivamente ad attrezzarsi per questa eventualità.

Va qui fatto un momento un breve richiamo a quanto detto precedentemente. Quando nella dottrina strategica statunitense si sottolinea la necessità di essere in grado di fronteggiare due conflitti, in teatri differenti, come già sottolineato fondamentalmente pesa l’esperienza del secondo conflitto mondiale. Si tratta, cioè, non semplicemente di sostenere due teatri di guerra, ma di affrontare due guerre. Detto altrimenti, gli Stati Uniti devono essere in grado di condurre due guerre contemporaneamente, contro due nemici che (come Germania e Giappone) possono anche essere alleati, ma che agiscono sostanzialmente in modo indipendente, e senza possibilità di aiutarsi reciprocamente.

Per questo, il pensiero strategico americano ha sempre puntato, sin dai tempi della guerra fredda, a dividere il fronte nemico, e in particolare Russia e Cina.

L’idea strategica, infatti, sarebbe idealmente quella di affrontare separatamente (e possibilmente uno dopo l’altro) i paesi ostili. Ma la politica geopolitica degli Stati Uniti ha prodotto invece un secondo gap; non solo si ritrova con uno strumento bellico pensato e organizzato per le guerre asimmetriche – mentre si trova di fronte alla prospettiva di guerre simmetriche – ma invece di dividere i nemici li ha spinti a rinsaldare fortemente i legami reciproci, in una misura senza precedenti. Con il risultato che rischia seriamente di trovarsi di fronte a una guerra multifronte su più teatri, ma contro un nemico ben coordinato, e in grado di fornirsi appoggio reciproco a ogni livello.

Per quanto all’interno delle élite statunitensi, come naturale riflesso del più ampio declino imperiale, non sia così raro trovare personaggi di scarsa o mediocre levatura (altrimenti non avrebbero commesso tali madornali errori), bisogna considerare che nell’ambito collettivo dell’apparato poltico-economico-militare c’è consapevolezza di questa condizione di difficoltà.

Ne consegue quindi che, pur in presenza di una propensione ad adottare lo schema della guerra come chiave di volta dell’azione volta a preservare il potere egemonico, e forse anche in presenza di una pulsione a metterlo rapidamente in atto, una basilare valutazione costi/benefici suggerisce un’azione più graduale.

In questa fase, nonostante una costante esibizione di forza, questa ha soprattutto un valore deterrente, e serve a guadagnare tempo. A ben vedere, infatti, l’azione politica statunitense è focalizzata sull’impedire qualsiasi pericolosa escalation, rispetto alla già tesa situazione internazionale.

Dal punto di vista degli USA, questi oggi si trovano dinanzi a tre scenari diversi, in tre diversi teatri.

In Europa, l’operazione di scagliare l’Ucraina contro la Russia, con il duplice intento di logorarla e recidere i legami tra questa e i paesi europei, ha ottenuto successo solo su quest’ultimo versante, mentre Mosca sta efficacemente usando la guerra per rafforzarsi a ogni livello.

In Estremo Oriente, l’operazione di contenimento della Cina – immaginata essenzialmente come la creazione di una cintura di paesi capaci di limitarne l’agibilità nel Pacifico – è ancora in una fase iniziale, e comunque deve fare i conti con una crescita (anche militare) di Pechino, infinitamente superiore alle possibilità a medio termine degli USA.

In Medio Oriente, infine, si trova impelagato in una situazione indesiderata, in cui non può sganciarsi (per ragioni sia interne che strategiche) dall’ultimo alleato rimastogli nella regione, ma non può nemmeno farsi trascinare da questo in un pericoloso conflitto.

Sul teatro europeo, il conflitto tra Russia e NATO (che tale è, ormai spudoratamente) è comunque mantenuto uno o due gradini sotto la soglia dello scontro aperto. Per Washington, a questo punto si tratta di completare l’avviata operazione di sganciamento, mantenendo però il controllo del conflitto, per poi valutare – in base all’evolversi della situazione – se lasciare che vada a esaurirsi, dopo averlo trascinato il più a lungo possibile, o se gettare nella mischia gli eserciti europei (o una parte di essi), rilanciando e puntando a un incancrenirsi del conflitto stesso.

Fondamentalmente, molto dipenderà anche da quanto gli USA siano disposti a bruciare le colonie alleate della NATO (di cui non può però fare a meno, in una prospettiva di scontro globale).

Per quanto riguarda il teatro del Pacifico, a parte i tempi necessari per mettere a punto questa super-NATO orientale, prima che si possa considerare l’ipotesi di un passaggio alla guerra calda è prioritario isolare la Cina, in un modo o in un altro, dal continente eurasiatico. Finché Pechino sarà in grado di approvvigionarsi e alimentare il suo apparato industriale, non c’è spazio per null’altro che l’attuale guerra ibrida. I tempi per portare a termine questi compiti non sono brevi, e oltretutto il passaggio a una fase successiva richiede uno sforzo straordinario per l’ammodernamento dell’U.S. Navy – cosa tutt’altro che semplice, anche senza tener conto del fatto che la cantieristica cinese produce tre/quattro volte le navi di quella statunitense.

Il teatro mediorientale, infine, è il più pericoloso. Intanto, non è certo tra quelli che Washington reputa prioritari, e l’eventualità di trovarsi coinvolti in un conflitto regionale è vista come il fumo negli occhi. E ciò per almeno tre ottime ragioni.

Scatenerebbe una reazione a catena che, attraverso l’inevitabile blocco dello stretto di Hormuz da parte dell’Iran, farebbe esplodere i prezzi del petrolio, innescando una crisi mondiale. Comunque vada un eventuale guerra, il rischio che Israele (ultimo alleato sicuro rimasto nella regione) ne esca con le ossa rotte, è elevatissimo. La presenza della Russia sul terreno, i numerosi paesi coinvolti, e l’interesse strategico di Mosca a impedire una sconfitta dell’Iran, rendono possibile che si arrivi allo scontro diretto.

In conclusione, si potrebbe dire che gli Stati Uniti sono oggi in una condizione di instabilità, caratterizzata da due fattori contrastanti: per un verso, l’esigenza di affrontare e risolvere la questione della minaccia alla propria egemonia prima che gli avversari siano troppo forti per poterlo fare, e dall’altro la consapevolezza che allo stato attuale non è in condizioni di poter tentare una mossa risolutiva.

Questa è una condizione di debolezza, che a sua volta produce una certa ambiguità nella strategia statunitense, che ricorda sempre più un vecchio leone, che ruggisce più forte per intimorire i giovani leoni, ma che sa di non essere in grado di affrontarli.

Per il momento, questi sembrano più propensi a infischiarsene, e ad aspettare che la natura e il tempo facciano il loro lavoro.

La questione è quanto a lungo potrà essere rinviata la resa dei conti.

L’eredità di Biden: le armi nucleari Usa puntano su Pechino

Corsa al riarmo. Il New York Times rivela il piano top secret di Washington: Mosca è solo uno «tsunami», la Cina è «il cambiamento climatico». La Casa bianca, preoccupata dagli accordi cinesi con Putin e Kim Jong-Un, giustifica così il riarmo di Xi

Lorenzo Lamperti, TAIPEI  22/08/2024

È talmente riservato che non ne esistono nemmeno copie digitali. Circola solo in cartaceo, sulla scrivania di pochi eletti tra funzionari della sicurezza nazionale e comandanti del Pentagono. Eppure esiste, tanto che presto potrebbe essere notificato al Congresso, prima che Joe Biden lasci la Casa bianca. Il documento si chiama «Nuclear Employment Guidance» e della sua esistenza ne dà conto il New York Times.

Si tratta di un piano strategico che sarebbe stato approvato dal presidente lo scorso marzo. Obiettivo? Riorientare per la prima volta la strategia di deterrenza nucleare americana per concentrarsi sulla rapida espansione dell’arsenale della Cina. Nelle scorse settimane, alcuni funzionari hanno fatto brevi riferimenti al piano, che mira anche a preparare gli Stati uniti a rispondere a una possibile sfida nucleare lanciata in modo coordinato da Cina, Russia e Corea del nord.

UNO SCENARIO che fino a qualche tempo fa era ritenuto pressoché impossibile, ma che ora Washington starebbe iniziando a prendere in considerazione, soprattutto dopo l’accordo di mutua difesa siglato a giugno da Vladimir Putin e Kim Jong-un a Pyongyang.

L’ipotesi che la Corea del nord abbandoni la strada dello sviluppo nucleare appare più che mai lontana, tanto che il suo arsenale si starebbe già avvicinando a quelli di Pakistan e Israele. C’è anche chi teme un possibile nuovo test nucleare a cavallo delle elezioni americane. Per Kim sarebbe un modo per guadagnare una posizione più favorevole in vista di un eventuale negoziato, che qualcuno si immagina possa riaprirsi nel caso di un ritorno di Donald Trump.

Ma al centro delle attenzioni di Washington c’è sempre la Cina, che nel gergo degli apparati di sicurezza statunitense viene identificata ormai come «cambiamento climatico», mentre la Russia viene derubricata a «tsunami». Secondo le stime del Bulletin of Atomic Scientists del 2024, Pechino disporrebbe attualmente di circa 500 testate nucleari. Siamo ben lontani dalle 3.700 testate e dagli 800 lanciatori degli Usa, ma il tasso di crescita cinese si è fatto molto rapido.

Secondo immagini satellitari, negli ultimi anni sarebbero aumentati i silos destinati a conservare le armi, spesso nelle zone desertiche del vasto entroterra occidentale. Se la Cina dovesse mantenere questo ritmo, a Washington sono convinti che potrebbe avere già mille testate entro il 2030 e 1500 entro il 2035.

LA NOTIZIA della strategia nucleare segreta approvata da Biden arriva in un momento delicato dei rapporti bilaterali. A luglio, Pechino ha sospeso il dialogo con Washington sul controllo delle armi nucleari, come ritorsione per le ripetute vendite di armi americane a Taiwan.

Le tensioni sono in aumento anche sul mar Cinese meridionale, in particolare sulle dispute territoriali con le Filippine, legate a Washington da un’alleanza militare. Ieri la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning ha dichiarato che la Cina «è seriamente preoccupata» per le indiscrezioni del Nyt. «La teoria della minaccia nucleare cinese è solo una scusa per sottrarsi alle responsabilità del disarmo, espandere il proprio arsenale e cercare enormi vantaggi strategici», ha accusato Mao.

Pechino persegue una «politica di non primo uso di armi nucleari», ma rivendica il diritto di accrescere la propria deterrenza per ridurre il gap con l’ampiezza dell’arsenale di Usa e Russia. Il rafforzamento delle proprie scorte non sembra fin qui essere stato toccato dai recenti scandali che hanno toccato le forze missilistiche dell’Esercito popolare di liberazione, la divisione che ha in carico la gestione dei missili, compresi quelli con testata nucleare.

Negli scorsi mesi sono stati rimossi i vertici, contestualmente all’espulsione dell’ex ministro della difesa Li Shangfu. Mentre al terzo plenum del Partito comunista di luglio, contro tutte le previsioni, il suo successore Dong Jun non è entrato (come invece ci si aspettava) nella Commissione militare centrale presieduta da Xi Jinping. Una scelta che può avere vari livelli di lettura, ma che lascia intendere che il controllo del segretario generale e presidente sia uscito rafforzato.

IL NUOVO documento americano verrà con ogni probabilità usato dalla Cina per rafforzare la giustificazione dell’ampliamento del proprio arsenale. Da anni Pechino critica i vari accordi militari degli Usa in Asia-Pacifico, a partire dalla piattaforma Aukus che doterà l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare.

Passando per l’ampliamento del cosiddetto «ombrello nucleare» a protezione della Corea del sud e dai legami militari sempre più stretti fra Usa e Giappone. Sentirsi, o quantomeno descriversi, nel mirino darà presumibilmente linfa al potenziamento della sua strategia di deterrenza. Sperando che i due rivali si ricordino di accompagnarla a qualche rassicurazione.

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