FINE DEL TABÙ, ORA IL MONDO DEVE AGIRE da IL MANIFESTO
«Uno stato unico esiste già ed è un regime di apartheid»
ISRAELE/PALESTINA. Intervista al giurista palestinese Nimer Sultany: «Inutile punire i singoli coloni: la Corte dice che il problema è istituzionale e la soluzione è il ritiro. Non è solo un’occupazione: con insediamenti e confische che spingono via i palestinesi, si è di fronte a un colonialismo d’insediamento che mira a sostituire i nativi»
Chiara Cruciati 21/07/2024
Dello storico parere dato il 19 luglio dalla Corte internazionale di Giustizia in merito all’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza abbiamo parlato con Nimer Sultany, giurista palestinese e docente di diritto all’Università Soas di Londra.
L’elemento che più colpisce l’immaginario collettivo è l’accusa a Israele di aver instaurato un regime di apartheid.
Si tratta della prima decisione di una corte internazionale sulle pratiche e le politiche israeliane discriminatorie contro i palestinesi a causa della loro origine. La Corte parla di discriminazione sistemica e sistematica che differenza i palestinesi dagli ebrei israeliani, riconoscendo ai primi uno status inferiore. Secondo la Corte, tale discriminazione sistemica avviene in un contesto di ampie violazioni dei diritti umani e della Convenzione per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, in particolare l’articolo 3 che proibisce l’apartheid. Nel parere la Corte, seppur dettagli tali pratiche, non elabora la questione dell’apartheid. Ma quattro giudici, compreso il presidente, lo fanno nelle dichiarazioni separate pubblicate insieme alla decisione. Spiegano perché Israele sta violando il divieto di apartheid. Dopo i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, un simile parere sostiene il crescente consenso internazionale intorno alla definizione e mina il discorso israeliano e occidentale secondo cui Israele è una democrazia che rispetta il diritto internazionale.
Tra i crimini di annessione di fatto e apartheid esiste un legame diretto?
Una delle ragioni principali del consenso sull’esistenza di un regime di apartheid è il collegamento con l’occupazione. Per il diritto internazionale un’occupazione dovrebbe essere temporanea e in risposta a una necessità militare. La Corte giunge alla conclusione che, date le dichiarazioni israeliane e le politiche e la legislazione del paese, Israele ha annesso ampie parti dei territori occupati. Annessione significa che Israele acquisisce territorio con la forza, una violazione del diritto internazionale. Ma significa anche che Israele ha integrato i Territori occupati nel proprio regime legale, politico ed economico. La soluzione a due stati viene minata: se annessione significa uno stato unico, allora significa anche un trattamento discriminatorio all’interno dello stesso sistema. Ovvero, apartheid. Segregazione e diseguaglianza all’interno di un’unica entità.
A proposito di due stati, da decenni la narrativa prevalente a Occidente è che una soluzione politica sia ottenibile solo tramite un negoziato. La Corte al contrario chiede il ritiro immediato di Israele.
La Corte è molto chiara nel distruggere uno degli ingannevoli argomenti dei governi occidentali che sostengono Israele. Un esempio è la richiesta della Gran Bretagna alla Corte penale internazionale per impedire l’emissione dei mandati d’arresto contro i leader israeliani. Tali argomenti usano la farsa del piano di pace per impedire alle istituzioni legali di ritenere Israele responsabile. Ma la Corte dice: il processo di pace non può essere svuotato di standard legali e un accordo tra occupante e occupato non rende la legge irrilevante. La narrativa legale nel parere del tribunale sulle violazioni israeliane è importante perché l’annessione illegittima mina l’idea stessa di un processo di pace che conduca a due stati.
Tra gli elementi più significativi del parere, c’è l’equiparazione tra colonie e insediamenti: la Corte stabilisce che la colonizzazione, comunque sia compiuta, da individui singoli o dalle autorità, è una politica di Stato. Perché è importante sottolinearlo?
La Corte ha mostrato la debolezza del tentativo occidentale di separare tra i coloni e il regime israeliano che li sostiene. I governi occidentali hanno tentato di punire violazioni individuali, singoli coloni, singole unità dell’esercito, per assolvere il regime politico israeliano. La Corte mostra invece che il problema è istituzionale, strutturale, sistemico e che l’unico modo per proteggere i diritti umani è smantellare le colonie e il regime discriminatorio che le sostiene e le protegge. Il numero crescente di colonie e coloni, le demolizioni di case palestinesi, la confisca di terre, la violenza dei coloni e dell’esercito esistono da tempo, non è qualcosa di effimero ma di istituzionale. La Corte ha messo in imbarazzo i governi occidentali che ricorrono a misure insignificanti e minime, come le singole sanzioni.
Tale sistematicità fa sì che non si debba parlare “solo” di occupazione militare ma di colonialismo d’insediamento?
La Corte fa riferimento all’autodeterminazione palestinese e alla sua negazione da parte di Israele, citando la risoluzione 1514 del 1960 dell’Assemblea generale dell’Onu sul colonialismo. Uno dei giudici ha aggiunto che non si tratta di un’occupazione ma di un dominio coloniale. E questa è la definizione di colonialismo: un dominio straniero che nega ai nativi il diritto a governarsi. Se a questo si aggiungono le politiche coloniali, come le confische e le colonie che spingono via i palestinesi, allora si è davanti a un colonialismo d’insediamento, un colonialismo che mira a sostituire i nativi con i coloni. Il culmine di questa logica di eliminazione dei nativi è il genocidio in corso a Gaza.
Quali sono le conseguenze del parere per Israele?
L’effetto principale di tale decisione è che mostra al di là di ogni dubbio che Israele è uno stato paria che si comporta come un bullo al di sopra della legge. La Corte mostra che Israele viola tutte le regole fondamentali del diritto internazionale. Se i governi occidentali continueranno a sostenere Israele dopo la sentenza della Corte internazionale sul rischio di genocidio a Gaza, dopo la richiesta della procura della Corte penale di mandati d’arresto e dopo questo parere che accusa Israele di annessione e apartheid, significa che questi governi tradiscono la loro stessa retorica sui diritti umani e su un mondo basato su regole condivise. È una finzione. Questo parere può avere effetti immediati.
Fine del tabù, ora il mondo deve agire
INGIUSTIZIE. La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo
Riccardo Noury 21/07/2024
Due giorni fa la Corte internazionale di giustizia, la cui opinione era stata sollecitata alla fine del 2022 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è arrivata a una conclusione che non poteva essere più forte e chiara: l’occupazione e l’annessione da parte di Israele dei territori palestinesi sono illegali e le leggi e prassi discriminatorie israeliane contro i palestinesi violano il divieto di segregazione razziale e di apartheid. Si tratta di una rivincita storica per i diritti dei palestinesi, vittime di decenni di crudeltà e di sistematiche violazioni dei diritti umani derivanti dall’illegale occupazione israeliana.
L’occupazione è un elemento fondamentale del sistema di apartheid con cui Israele domina e opprime i palestinesi e che è causa di sofferenze di massa: i palestinesi assistono quotidianamente alla demolizione delle loro case e all’esproprio delle loro terre per la costruzione e l’espansione degli insediamenti e subiscono soffocanti restrizioni che interferiscono in ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalla separazione dei nuclei familiari alla limitazione della libertà di movimento fino al diniego dell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse naturali.
Dall’autorevolezza dell’opinione della Corte dovrebbero derivare (uso il condizionale, data l’immediata reazione di Israele: nulla di sorprendente, considerando la totale mancata applicazione delle misure cautelari ordinate dalla stessa Corte per evitare il genocidio a Gaza) il ritiro dai Territori palestinesi occupati, Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est; la fine del dominio su ogni aspetto della vita dei palestinesi; la cessione del controllo delle frontiere, delle risorse naturali, dello spazio aereo e delle acque territoriali dei territori occupati; la fine del blocco illegale di Gaza e il diritto dei palestinesi di muoversi liberamente tra Gaza e la Cisgiordania.
Starà allora agli stati, soprattutto a quelli alleati di Israele, intraprendere rapidamente azioni inequivoche per assicurare che Israele ponga fine all’occupazione, a partire dall’immediato stop all’espansione degli insediamenti e all’annessione di territori palestinesi e dallo smantellamento del brutale sistema di apartheid contro i palestinesi. Ricordiamo bene le conseguenze della mancata azione della comunità internazionale rispetto all’opinione della Corte nel 2004 sulla costruzione del muro di separazione all’interno dei Territori occupati: Israele venne incoraggiato a sfidare il diritto internazionale e a rafforzare la sua impunità. Non dev’esserci una seconda volta.
Merita soffermarsi, infine, sulla menzione da parte dei giudici della Corte della parola apartheid: cioè di quel sistema israeliano di oppressione e dominazione ai danni dei palestinesi, tenuto in piedi e rafforzato dalla frammentazione territoriale, dalla segregazione e dal controllo, dalla confisca di terreni e proprietà e dalla negazione, tra gli altri, dei diritti economici e sociali.
L’opinione della Corte è il sigillo giuridico ai rapporti di organizzazioni non governative internazionali quali Human Rights Watch e Amnesty International e dei gruppi israeliani per i diritti umani come Yesh Din e B’Tselem. A un paese avviato verso un sistema di apartheid in passato si erano riferiti, preoccupati, gli ex primi ministri Olmert e Barak, l’ex direttore dello Shin Bet Amihai Ayalon, l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair e l’ex ambasciatore israeliano in Sudafrica Alon Liel, probabilmente la persona che più sapeva di cosa si stesse parlando.
La parola apartheid non è un tabù: non lo è certo in Israele, mentre paradossalmente per molti versi lo è in Italia, dove la sua pronuncia è equiparata a un’espressione di antisemitismo.
Nel frattempo, nel mondo, di quella parola viene sollecitato un uso ancora più ampio. Amnesty ha chiesto che tra i più gravi crimini di diritto internazionale, dunque come crimine contro l’umanità, sia riconosciuto e inserito quello di apartheid di genere, dando seguito alle richieste che si levano da anni, ben a ragione, dalle attiviste per i diritti delle donne in Afghanistan e Iran.
*portavoce di Amnesty International Italia
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