PORTARE LA DEMOCRAZIA SENZA ARMI=ONU da IL MANIFESTO
La disfatta afghana svela la cecità dell’Europa
Forse è prematuro tracciare linee di demarcazione fra una epoca storica e un’altra, come ha scritto Bernard Guetta secondo cui come il XX secolo iniziò a Sarajevo alla fine del giugno del 1914, così il XXI secolo sarebbe nato a Kabul nel luglio di quest’anno. Ma certamente il rovinoso ritiro degli americani dall’Afghanistan cambia gran parte degli assetti politico economici mondiali. In sostanza gli Usa sono fuori dall’Oceano indiano e dall’Asia. Lo confermano, per contrasto, le aspre parole con cui Kelly Craft, in una importante conferenza internazionale, ha ribadito la continuità tra Trump e Biden nella difesa di Taiwan dalle ambizioni cinesi, invitando però i taiwanesi a fare come Israele, cioè ad armarsi di tutto punto e a non affidare la loro salvezza solo all’aiuto altrui.
L’ennesima batosta militare e politica degli Usa dimostra che se la potenza atlantica può iniziare conflitti armati le è sempre più difficile (o impossibile) risolverli in breve tempo e quindi supportarli in termini di costi economici e umani (i propri s’intende). Il sostegno a simili avventure da parte delle giovani generazioni è sempre più flebile, come ci fa capire e sentire persino la più recente letteratura americana, come ad esempio l’opera prima di Stephen Marley «Ohio». La questione non sta dunque nelle diverse interpretazioni tra Trump e Biden del principio America first, che pure sono evidentissime specie in politica economica, quanto nel rendersi sempre più evidente il declino del sogno e del secolo americano. La rovinosa conclusione della lunghissima avventura yankee in Afghanistan sottolinea e accelera bruscamente un processo aperto già da tempo, quello della transizione egemonica mondiale da ovest ad est. L’indiscutibile primato militare degli Usa non può fermare questo processo storico, a meno di non pensare ad atti distruttivi per l’intero pianeta, quale potrebbe essere un conflitto nucleare a tutto campo. Che questo radicale mutamento negli equilibri mondiali avvenga in modo sostanzialmente pacifico è quindi un imperativo per tutti. O dovrebbe esserlo.
Ed è proprio di fronte a questo quadro che l’Unione europea mostra le sue intrinseche debolezze, le aporie sulle quali si fonda. In questi giorni assistiamo a un coro da parte dei mass media e delle maggiori autorità istituzionali e politiche verso la presunta necessità per la Ue di dotarsi di un proprio sistema di difesa, capace di agire su scala planetaria, un esercito europeo inquadrato in un rigido sistema di alleanza atlantica. Un fosco futuro legato a quel torbido passato che è causa degli attuali guai. In questo quadro la concezione dell’Europa come una fortezza trae ulteriore alimento, ne è prova l’indegna discussione sull’accoglimento o meno dei profughi afghani. Senza immigrazione l’Europa in realtà è destinata ad essere un continente demograficamente in rapido declino, con una popolazione sempre più anziana, difficilmente in grado di grandi performances trasformatrici della realtà.
La Conferenza sul futuro dell’Europa pare quindi aprirsi a fari spenti, anche sul terreno squisitamente economico, il pezzo forte della concezione funzionalista del mainstream europeo. Per l’Europa, la Cina – per estensione e in un prossimo futuro l’Asia – è il partner commerciale più importante. Ma il decantato accordo sugli investimenti fra Bruxelles e Pechino raggiunto alla fine del 2020 è stato congelato. Per converso la relazione annuale dell’esecutivo comunitario contro le cosiddette politiche commerciali scorrette di paesi terzi rivela che alla fine dello scorso anno delle 150 misure di protezione commerciale in vigore, 99 erano dirette contro la Cina, 9 contro la Russia, 7 contro l’India e 6 contro gli Stati Uniti. Dombrovskis, il vicepresidente della Commissione europea, ha dichiarato che è fondamentale che le «nostre» aziende possano continuare a essere protette da pratiche sleali. Nello stesso tempo, tornando ai noti casi aperti nel nostro paese, dalla Gkn alla Whirlpool, siamo privi di strumenti efficaci per la difesa dell’occupazione, dopo che le dette imprese hanno goduto di facilitazioni di ogni tipo da parte dello Stato italiano.
In ogni caso appare quanto meno ipocrita che dopo il fiume di liquidità distribuito a banche e imprese a livello europeo nel corso dell’attuale crisi, Bruxelles si lamenti degli aiuti di Stato altrui, si prepari tramite un nuovo regolamento ad ostacolare l’ingresso nella Ue di imprese finanziate da paesi terzi e condizioni l’implementazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza ad una nuova legislazione sulla concorrenza. In questo modo, anziché prepararsi alla nuova situazione, di cui la vicenda afghana è un punto di svolta rilevante, la Ue si accartoccia su se stessa in un atlantismo impresentabile e fuori dal tempo.
Interventi militari e diritti umani, esportare la democrazia non si può
Opinioni . Il disastro afghano dice: le guerre «umanitarie» non esistono. Pace e diritti si salvaguardano con una lotta per la solidarietà dell’Onu e degli Stati. L’esempio è Emergency
Il tragico epilogo dell’occupazione militare in Afghanistan dovrebbe aver almeno spazzato via il grande inganno: non esistono «guerre umanitarie». Al limite può essere invocato il diritto di resistenza contro il tiranno ovvero contro l’invasore, ma l’uso della forza comporta sempre azioni contro l’umanità. Non si tratta di essere pacifisti, ma solo di essere contrari alla guerra. Lo ha detto Gino Strada, lo ha stabilito la nostra costituzione.
La spietatezza di tutte le guerre fa venir meno anche l’altro argomento retorico utilizzato per giustificare gli interventi armati contro i paesi asiatici considerati nemici dell’occidente: la necessità di esportare la democrazia. Pretesa politicamente ambigua e storicamente ingenua.
Ciò non vuole dire però che dobbiamo rimanere impotenti di fronte alla violazione dei diritti e delle libertà democratiche. È ancora una volta la nostra costituzione che ci chiarisce i termini del problema. In essa si legge che non si può esportare la democrazia, ma si devono salvaguardare i diritti fondamentali della persona. Da un lato, il ripudio della guerra, che avrebbe dovuto impedire il coinvolgimento del nostro paese in conflitti armati o operazioni di occupazione militare in territori stranieri (l’Afghanistan, ma non solo), dall’altro, il diritto d’asilo, che dovrebbe essere assicurato a tutti coloro a cui è impedito l’effettivo esercizio delle liberà democratiche garantite dalla nostra costituzione.
Invece di seguire questa via maestra – pacifismo e solidarietà tra i popoli- tutte le maggioranze che si sono succedute negli ultimi trent’anni hanno preferito accogliere le diverse priorità imposte dalle politiche internazionali. A quel punto i diritti umani sono diventati un mero pretesto per interventi che si sono rivelati vere e proprie «guerre di conquista», come dimostra inequivocabilmente il diverso atteggiamento assunto dalle stesse potenze occidentali nei confronti dei paesi asiatici alleati, per i quali si applica rigorosamente il principio di non ingerenza negli affari interni.
D’altronde tutto ciò non può stupire: l’ordinamento internazionale è storicamente – oltre che soggettivamente – dominato dalle logiche di potenza degli Stati nazione, fallito ogni tentativo di limitarne la forza in ragione di principi umanitari. Ora la drammatica conclusione della missione afgana dovrebbe farci aprire gli occhi.
Ma dovrebbe anche farci interrogare su come si possa in concreto riuscire a preservare la pace assieme ai diritti umani. Alcune iniziative ci indicano chiaramente la rotta: Emergency, in primo luogo, ma anche tutti quegli interventi ufficiali di Stati o delle organizzazioni internazionali, a partire da quelli delle Nazioni unite, finalizzati a garantire quei diritti che spettano a ciascun individuo in quanto essere umano. Ecco, è la cooperazione che dovrebbe ora prendere il sopravvento.
Sento già l’obiezione di molti, che non nego abbia un suo fondamento. Puntare tutto e solo sulle organizzazioni che operano sul piano sovranazionale – private o governative che siano – senza poter contare sulla deterrenza dell’uso della forza degli Stati finirebbe per lasciare troppo spazio all’arroganza dei sovrani del mondo, restii a piegarsi alle ragioni dei diritti umani e che, anzi, edificano il loro potere assoluto proprio sulla violazione di questi. In sostanza un’accusa di irenismo che non può essere elusa. Ma proprio questo giusto richiamo al realismo dei rapporti di forza induce ad una ulteriore e decisiva considerazione. Puntare sulle organizzazioni internazionali non vuol dire delegare ad esse la garanzia dei diritti e l’effettività del loro rispetto nelle varie parti del mondo. Tutt’altro.
Vuol dire chiamare i popoli a lottare per essi. Vuol dire richiamare, ex parte populi, anche gli Stati alle proprie responsabilità politiche e sociali, per far valere oltre alle ragioni dell’economia anche quelle dei diritti. D’altronde la storia anche questo ci ha insegnato: i diritti non vengono mai regalati, ma devono essere sempre conquistati dai diretti interessati.
È vero, lasciare solo alle organizzazioni umanitarie il compito di garanti dei diritti delle persone concrete vorrebbe dire – bene che vada – limitarsi alla testimonianza, se non condannare l’azione a favore dei diritti ad un fallimento annunciato. Se non sapremo dunque innescare un processo politico agguerrito e diffuso in grado di lottare per i diritti inviolabili delle persone, non saranno gli Stati nazione ad assicurare le libertà democratiche in nessuna parte del mondo. Neppure a casa propria, se è vero che lo sdegno che si è levato in questi giorni nell’intero occidente per le gravi violazioni in Afghanistan, si accompagna al timore delle nuove migrazioni e a misure di contenimento o di rifiuto dell’accoglienza dei profughi.
Nel nostro paese la costituzione ci impone di accogliere i rifugiati (art. 10) e ci ricorda che i diritti sono inviolabili solo se si accompagnano ai doveri inderogabili di solidarietà che riguardano l’intera collettività (art. 2). Un invito all’impegno nel far valere i proprio diritti assieme a quelli degli altri non tramite le armi, ma in base ad una lotta politica, economica e sociale
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