ECCO LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ: IL PRECARIATO DIVENTA À-LA-CARTE da IL FATTO e 18BRUMAIOBLOG
Ecco la riforma dell’università: il precariato diventa à-la-carte
ATENEI – Nel 2025 scade l’assegno di ricerca (senza tasse, né diritti): Bernini crea sei contratti flessibili, uno pure per gli studenti
LEONARDO BISON 8 LUGLIO 2024
La nuova, l’ennesima, riforma dell’Università è ormai alle viste. Sarà in due parti. Nei primi giorni di giugno infatti, mentre ancora i rettori parlavano di come sgomberare le Università dalle occupazioni, il Consiglio dei ministri approvava un disegno di legge (Semplificazioni) che contiene una delega al governo per adottare “decreti legislativi per il riordino e il riassetto delle disposizioni legislative in materia di formazione superiore e ricerca”. Delega ampia, dal riordino di organizzazione e governance al reclutamento, agli assetti istituzionali: “Una razionalizzazione delle misure esistenti (nell’ambito, di una semplificazione del corpus normativo in materia di università), non riforme o revisioni” secondo il Mur, contattato.
Oltre alla delega, però, pochi giorni fa c’è stata la nomina per decreto della ministra Anna Maria Bernini di un gruppo di lavoro che si occupi di analizzare “adeguati interventi di revisione dell’ordinamento della formazione superiore” nonché “di razionalizzare l’offerta formativa”: guidato da Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere del Sera, conta 5 membri totali, dal pedagogo (critico di Don Milani) dell’Università di Bergamo Adolfo Scotto Di Luzio ad Alberto Mingardi dell’iperliberista Istituto Bruno Leoni, docente allo Iulm.
E ancora: sempre all’inizio di giugno sono arrivate anche le anticipazioni dei risultati del lavoro di un’altra commissione ministeriale, anch’essa nominata da Bernini, alla fine del 2023. Risultati che invece si attendevano da mesi: riguardano la riforma del cosiddetto “pre-ruolo”, di quel mondo tra il dottorato e l’assunzione stabile come docente che in Italia è fatto di precariato, salari bassi e contratti senza paragoni in Europa.
Una delega così ampia “ha colto di sorpresa tutti”, spiega Rosa Fioravante, segretaria nazionale dell’Adi-Associazione Dottorandi Italiani, persino “il Consiglio universitario nazionale e neppure la Conferenza dei Rettori (Crui) è stata formalmente consultata”. La delega, comunque, è appena arrivata alla Camera, quella – attesa – del pre-ruolo seguirà in poche settimane. Se, però, sulla revisione della governance universitaria i dettagli languono, sulla riforma del precariato universitario sono molti di più: per questo volantinaggi e assemblee negli atenei stanno crescendo in queste ultime settimane, nonostante la stagione.
Le premesse. Nel 2022 il governo Conte ha creato il “contratto di ricerca”, cioè un contratto di lavoro normale, con ferie e contributi, simile a quello dei ricercatori europei, andando a cancellare l’“assegno di ricerca”, un unicum, contratto esentasse senza diritti, diffusissimo negli Atenei italiani. Il periodo di transizione, di proroga in proroga, però ha paradossalmente fatto esplodere i vecchi assegni, più convenienti: gli assegnisti di ricerca nel 2021 erano 15 mila, oggi oltre 20 mila, i ricercatori tipo A (Rtd-a) nel 2021 erano poco più di 5.000, ora oltre 9.000.
La ministra Bernini alle Camere, il 27 giugno, ha assicurato che non ci sarà più alcuna proroga per gli assegni di ricerca dopo il dicembre 2024. La commissione preposta, nominata come detto a fine 2023, era guidata dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta e, tra gli altri, comprendeva l’ex rettore dell’Università di Messina Salvatore Cuzzocrea (che aveva dato le dimissioni poche settimane prima da suo ruolo, per una storia di rimborsi): nei giorni scorsi ha elaborato le linee guida che costituiranno la base del disegno di legge che, in tempi rapidi, dovrebbe arrivare alle Camere. Parola d’ordine: flessibilità. La commissione propone di passare dall’unico contratto di ricerca attuale, istituito nel 2022 ma poco applicato, a sei diversi contratti.
Il “contratto di ricerca” appunto, a tempo determinato, che può durare da 2 a 6 anni; il contratto post-doc, praticamente identico al precedente ma di durata più breve (da 1 a 3 anni); l’assistente alla ricerca “junior” e quello “senior”, figure molto nebulose, che non è chiaro, dal testo diffuso, se si configureranno come lavoro dipendente; il “professore aggiunto”, professore a tempo determinato con cui contrattare individualmente la retribuzione; e infine il “contratto di collaborazione per studenti” che permetterà di pagare (poco) studenti anche per fare ricerca.
Insomma, il passaggio da 1 figura precaria a 6, che ha allarmato chi si batte per la fine del precariato universitario. “Si rischia di ripartire dal 2010, dalla crescita del precariato, da lavoratori che non sono lavoratori, non pagano le tasse, hanno contratti individuali, non hanno forme di rappresentanza”, spiega Luca Sacchi dell’Flc Cgil. Il sindacato aveva chiesto per anni una revisione dei contratti precari (erano 3 diversi dal 2010) per uniformarli a normali contratti di lavoro, modifica ottenuta nel 2022. Ma “dentro gli atenei c’è stata moltissima resistenza. Ora si arriva a questa proposta, con figure precarie à-la-carte. Invece che togliere questo mondo di mezzo, si moltiplica e divide, tra l’altro lasciando mano libera ai singoli atenei”.
Il problema è antico e le visioni, all’interno degli Atenei, divergono, ma al centro di tutto c’è la convenienza economica: un “contratto di ricerca”, a parità di salario per il ricercatore, costa all’istituzione circa 38 mila euro, un “assegno di ricerca”, esentasse, 25 mila. Per questo dal 2022 gli assegni hanno continuato a proliferare grazie alla deroga che scade a fine anno: spendendo 75mila euro invece di due collaboratori se ne pagano tre. Il ministero dell’Università e della Ricerca spiega al Fatto che “la filosofia che ispira l’intervento legislativo è quella della cassetta degli attrezzi: strumenti diversi per esigenze diverse. Saranno le Università, in considerazione della propria autonomia, a valutare quali elementi utilizzare. Il contratto di ricerca rimarrà valido, gli Atenei saranno liberi di farne uso”. Il presidente della commissione Ferruccio Resta, contattato per un commento sulla ratio del provvedimento, non ha dato riscontro.
Resta il fatto innegabile che poter pagare meno il lavoro è una possibilità assai attrattiva per molti Atenei e per molti docenti, anche per non perdere collaboratori: all’orizzonte c’è infatti la fine dei fondi del Pnrr (che hanno consentito assunzioni – precarie e non – come mai in anni recenti) e un paventato, ancorché finora mai confermato dal ministero, ingente taglio delle risorse del Fondo di finanziamento ordinario delle università.
Se gli Atenei fischiettano, sono ricercatori e dottorandi che stanno contestando la riforma, anche per un fatto statistico per così dire: i precari, tra fondi post pandemici e Piano di ripresa, sono oggi il 45% degli assunti nelle Università, 35mila persone. Una campagna lanciata alla fine di giugno parla del “90%” di espulsi dal sistema: “Il 90% di chi ha fatto dottorato, assegno, ricercatore, viene espulso dall’accademia. Il 10% che ce la fa si fa mantenere, va in terapia, rimanda la vita”.
Rosa Fioravante di Adi, al suo secondo assegno di ricerca, spiega l’altissimo livello di stress di questi precari, impossibilitati ad avere un alloggio consono o immaginare una famiglia: “I docenti delle commissioni che oggi ci spiegano come la flessibilità sia necessaria, avevano un contratto a tempo indeterminato a 30 anni”. La mobilitazione è tutta da costruire, e le assemblee si susseguono. Il Mur da parte sua sottolinea che il ddl punterà ad allinearsi agli altri Paesi Ue, definendo un percorso “che non lasci nell’incertezza i ricercatori e che aumenti le tutele con il prosieguo della carriera”.
Lo studente/cliente anche come risposta al calo demografico
Olympe de Gouges 7 luglio 2024
Il Sole 24 ore di oggi dedica un articolo alla città di Gent. Pur non aspirando a diventare ministro della cultura, ammetto che sul principio non avevo capito di che città si trattasse. Poi, leggendo, scopro che si tratta della città belga che nel XV secolo era seconda per popolazione solo a Parigi, e soprattutto dando un’occhiata alle foto che corredano l’articolo, capisco si tratti della città di Gand, la città che diede i natali a Carlo V. Scarsa elasticità mentale la mia e a nulla vale il fatto che in ogni manuale e libro di storia che mi è capitato tra le mani il nome della città è sempre con la grafia francese: Gand.
Anche per Wikipedia il nome è Gand, salvo poi, di quando in quando, trascrivere il nome in fiammingo, Gent per l’appunto (non per Treccani). Non si finisce mai d’imparare, soprattutto di domenica.
Ad ogni modo il punto è un altro: «Di notte, al chiaro di luna, la città rivela l’ennesimo volto segreto, grazie a una sofisticata illuminazione frutto del lavoro di talentuosi light designer. Il migliore? L’italiano Alberto Garutti, che ha realizzato in pieno centro un sistema di lampioni collegato ai reparti maternità della città. Quando nasce un bambino, la mamma schiaccia un bottone e una nuova luce si accende tra le strade di Gent».
Se nelle città italiane, specie alcune, si adottasse la geniale idea di Garutti per l’illuminazione pubblica, ci sarebbe presto il rischio di rimanere al buio. Non per insufficiente alimentazione elettrica, ma a causa del crollo demografico. Come ci ricorda lo stesso quotidiano di Confindustria, in 20 anni l’Italia ha perso 3 milioni di 18-34enni. Non solo, il 35% degli under 30 è pronto a lasciare l’Italia per avere salari più alti (sondaggio Ipsos).
Sui motivi di questo stato di cose ci sono in campo diverse opinioni, alcune sostenute anche da studi e statistiche. Sostanzialmente in quasi tutti i casi si tratta di bugie (specie a riguardo dei bassi salari). Degli esempi? Gian Carlo Blangiar, prof. emerito di demografia e già presidente dell’Istat: «[…] nel 2008 sono nati 577mila bambini e bambine, che tra un paio d’anni dovranno decidere il percorso di studi universitari, lo scorso anno ne sono nati 379mila […]».
Di là dei numeri, che non sono contestabili, Blangiar, con un curriculum di dieci pagine, vive in un mondo poco frequentato dai comuni mortali. Non di meno, Carlo Marroni, che scrive l’articolo e riporta le parole di Blangiar, scrive: «Il tema demografico oggi va a sbattere con un sistema scolastico disegnato da Giovanni Gentile e di fatto in 100 anni poco o nulla è cambiato».
Mi pare evidente che questi esperti non siano mai entrati in una famiglia normale, cioè in una famiglia media italiana. Sentire Francesco Billari, rettore dell’università Bocconi (privata) e prof. di demografia: «Data la penuria di capitale umano non possiamo più permetterci di lasciare, come succede oggi, metà degli studenti essenzialmente indietro, con cicatrici di basse competenze che si porteranno dietro per sempre».
La penuria di “capitale umano”. Sempre lì vanno a parare, l’idea fissa che tutto e tutti siano “capitale”. E dunque l’obiettivo sarà quello di migliorare la scuola pubblica, con più investimenti e una migliore selezione (questa sì) del corpo docente (meglio formato e retribuito)?
Non proprio: l’obiettivo della scuola, chiosa l’articolista citando l’illustre rettore, «da tempo non è più la selezione ma l’inclusione». Puntano a una scuola elitaria, una cultura ricca e varia immediatamente spendibile a scopo produttivo, che favorisca gli studenti più “meritevoli” nella loro personale scalata sociale, magari con corsi privati di auto- motivazione su come imparare a sgomitare nella competizione con il prossimo.
Insomma una scuola strettamente premiale e fortemente individualistica, d’impronta “americana”, “cinese”, “giapponese”, magari una scuola dove lo studente è un cliente. Non certo una scuola come bene comune, che considera quest’ultimo come lo stato di equilibrio dinamico automaticamente risultante dalla corretta competizione tra gli individui.
Questa gente invece ci racconta la solita storia di una società vista da vincenti, e importa nulla se nel mondo non possono esserci, evidentemente, milioni di storie come la loro.
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