DAI PADRI FONDATORI A TRUMP, PASSANDO PER OBAMA: LA LINEA DI SANGUE DEL “DESTINO MANIFESSTO” da ANTIDIPLOMATICO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
18905
post-template-default,single,single-post,postid-18905,single-format-standard,cookies-not-set,stockholm-core-2.4.5,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-9.12,ajax_fade,page_not_loaded,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-7.9,vc_responsive

DAI PADRI FONDATORI A TRUMP, PASSANDO PER OBAMA: LA LINEA DI SANGUE DEL “DESTINO MANIFESSTO” da ANTIDIPLOMATICO

Dai Padri fondatori a Trump, passando per Obama: la linea di sangue del “Destino Manifesto”

 Diego Angelo Bertozzi  28/01/2025

Il discorso di insediamento del nuovo presidente statunitense Donald Trump ha destato scalpore sulla stampa e tra gli opinionisti italiani per alcuni passaggi che, a quanto si sottolinea, costituirebbero uno spartiacque nella storia di Washington. Senza dubbio alcuni ordini esecutivi presidenziali (fine della moratoria sulla pena di morte federale nei casi di omicidio di agenti delle forze dell’ordine commessi da immigrati illegali, trasferimento forzato di immigrati irregolari) mostrano una svolta che possiamo definire “razziale” e suprematista, ma se ci soffermiamo su quanto affermato nel discorso, possiamo concludere, con buona pace di chi si scandalizza in questi giorni, che ci troviamo in piena continuità con un’ideologia che affonda le radici nelle origini della repubblica a stelle e strisce.

Prendiamo ora alcuni dei passaggi del discorso/manifesto trumpiano: “Le nostre libertà e il glorioso destino della nostra nazione non saranno più negati”; “E perseguiremo il nostro destino manifesto tra le stelle, inviando astronauti per piantare le stelle e strisce sul pianeta Marte”; “Il mio messaggio agli americani è che oggi è giunto il momento per noi di agire di nuovo con il coraggio, il vigore e la vitalità della più grande civiltà della storia”; e infine: “Non c’è nazione come la nostra. […] Lo spirito della frontiera è scolpito nei nostri cuori. La chiamata della prossima grande avventura risuona nelle nostre anime”.

Risultano evidenti le tematiche – veri e propri topoi dello spirito americano – di un destino da realizzare, perennemente in fieri, e della nazione, unica nella storia, che è stata eletta e che si pone, di fronte alle altre, in una posizione di astorica superiorità. A questo punto è interessante annotare alcuni passaggi del discorso di insediamento del 2008 di Barack Obama, ritenuto come contraltare radicale dell’attuale occupante della Casa Bianca: “[…] le nostre storie sono singolari, ma il nostro destino è condiviso e una nuova alba della leadership americana è a portata di mano. […] A a tutti coloro che si sono chiesti se il faro dell’America arde ancora così luminoso: stasera abbiamo dimostrata che la vera forza della nostra nazione […] deriva dal potere duraturo dei nostri ideale […]”.

Certo, mentre le espressioni di Trump sono in gran parte sussumibili nel concetto di “isolazionismo”, quelle di Obama mostrano un respiro più universale e inclusivo (ma mai multipolare). Tuttavia entrambi i discorsi agganciano indissolubilmente gli Stati Uniti a un destino da realizzare, al quale non ci si può sottrarre, non trascurandone – pur con accentuazioni diverse – la dimensione religiosa e provvidenziale (il Dio che salva dall’attentato per Trump, è quello che guida e benedice gli Usa per Obama e Biden).  A questo proposito è interessante riportare una parte del discorso che Obama tenne di fronte all’Assemblea generale ONU nell’ottobre del 2013: “Il pericolo per il mondo è che gli Stati Uniti […] possano disimpegnarsi creando un vuoto di leadership che nessuna altra nazione è pronta a riempire. […] Ma io credo che l’America è eccezionale in parte perché abbiamo dimostrato, attraverso sacrifici di sangue ed economici, di perseguire non solo il nostro interesse nazionale, ma l’interesse di tutti”. Prima di lui un altro celebrato presidente democratico, Bill Clinton, ribadì nel gennaio 1993 il senso di una “missione senza tempo” che toccava agli Stati Uniti parlando di una “sacra responsabilità” nei confronti del mondo intero.

Destino manifesto, Dio e provvidenza ci riportano alle origini degli Stati Uniti. Nel suo discorso, in occasione dell’inizio del secondo mandato, il presidente Jefferson riprese il tema biblico del popolo eletto e della provvidenza per proiettarlo sugli americani condotti in una terra ricca e a disposizione (sorta di nuovo Eden). Il Nuovo Mondo, come sottolinea lo storico Anders Stephanson, “non era assolutamente un semplice avamposto della civiltà europea, bensì un sacro terreno di prova di rilevanza mondiale” dove ogni attività diventava “parte di una guerra santa contro Satana e gli infedeli” e tutto ciò che era esterno alla comunità di destino “era profano, e il profano era ciò che doveva essere vinto, conquistato e distrutto, territorio da assoggettare”. La vittoria, ogni vittoria, portava su di sé il segno della benevola provvidenza. La nascente democrazia jeffersoniana carica il progetto americano di una valenza morale universale, facendo degli Stati Uniti l’incarnazione degli interessi di tutta l’umanità: gli Stati Uniti “sono veramente una nazione eletta e il popolo specificatamente eletto dalla provvidenza a realizzare una missione storica” amava ripetere il presidente Jefferson. È il nazionalismo di un impero della libertà, incaricato di una missione che non può che vedere in ogni ostacolo un nemico irriducibile la cui impurità va rimossa o eliminata.

L’espressione “Destino manifesto”, indissolubilmente legata al tema dell’eccezionalismo – compare nel 1845 per opera del giornalista John O’Sullivan per giustificare l’annessione del Texas (e l’aggressione al Messico) come continuazione della rivoluzione americana e dei suoi ideali, proprio quando al nuovo Stato dell’Unione non veniva impedito di introdurre la schiavitù. A nessuno poteva essere concesso il diritto di opporsi a quel “destino manifesto che ci porta a espanderci e popolare il continente che la Provvidenza ci ha assegnato per il libero sviluppo di milioni di individui che ogni anno vi si moltiplicano”. Un libero sviluppo che, come sappiamo, non coinvolge le popolazioni native (nel 1831 la Corte suprema definisce i Cherokee come “nazione interna, subordinata” mentre lo scrittore Franz Baum descrive i “pellerossa” alla stregua di “cagnacci che guaiscono e leccano le mani che li percuotono”) e gli schiavi. A fine Ottocento il pastore e scrittore Josiah Strong pubblica un libro di successo dal titolo “Our Country” nel quale la razza anglosassone è indicata avere “un rapporto speciale con il futuro del mondo” e “destinata da Dio ad essere […] la custode dei suoi fratelli”.  In una storia che si configura come scontro tra razze, quella anglosassone è destinata alla vittoria perché dotata di “incomparabile energia”, “portavoce della più ampia libertà”, tanto da poter “imporre le sue istituzioni all’umanità” come risultato dell’ “estinzione delle razze inferiori” grazie ad una “soluzione finale e definitiva voluta da Dio” che ha il volto della deportazione e dell’assimilazione forzata. All’indomani della vittoria sulla Spagna (1898) e della conquista delle Filippine, così si esprime il presidente McKinley:  “Non potevamo abbandonarli alla loro sorte (sono incapaci di governarsi da soli): ci sarebbe stata rapidamente l’anarchia e la situazione sarebbe stata peggiore che sotto l’autorità spagnola. Non ci restava dunque altro che prenderle e educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli. In breve, con l’aiuto di Dio, a fare del meglio per loro che sono nostri simili, per i quali Cristo è egualmente morto”.

Ma che succede all’interno mentre il “Destino manifesto” e l’eccezionalismo sorreggono una politica estera esplicitamente imperialista? I neri se non subiscono uno sterminio pianificato, sono vittime, a pochi anni dall’abolizione della schiavitù, di un vigoroso processo di de-emancipazione. Sul finire dell’Ottocento in diversi Stati del Sud l’adozione di rigide procedure per l’esercizio del diritto di voto (tra queste un’imposta e un esame di cultura generale) ne negano de facto l’esercizio alla popolazione nera, mentre si diffondono a macchia d’olio (Florida, Texas, Mississippi, Alabama, Arkansas, Georgia, Louisiana..) le leggi sulla segregazione. Il mito della “supremazia bianca” alimenta le prime sanguinarie spedizioni contro le comunità nera e l’odiosa pratica dei pubblici linciaggi. Conclude lo storico Maldwyn A. Jones: “privati del diritto di voto, senza tutela legale, rigidamente segregati, costantemente sotto la minaccia della violenza individuale o collettiva dei bianchi, considerati come bestie secondo un’opinione diffusasi in tutto il Sud con la discriminazione razziale, i negri furono dunque una minoranza pesantemente oppressa”.

Questo breve viaggio storico mostra come i temi del destino manifesto, dell’eccezionalismo e della missione protetta da Dio non possano essere disgiunti – sia che vengano esplicitati senza remore da Trump o ammorbiditi e universalizzati da Obama – dal cuore nero della violenza imperiale e della sottomissione dei popoli che si oppongono al disegno divino, così come da una supremazia che ha sposato persino il discorso “razziale”.

 Diego Bertozzi

Laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano e in Filosofia e Scienze filosofiche all’Università degli Studi di Verona, si occupa da tempo di storia del movimento operaio e di Cina. Ha pubblicato per Diarkos  “La nuova via della seta. Il mondo che cambia e il ruolo dell’Italia nella Belt and Road Initiative” (2019)

No Comments

Post a Comment

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.