CROGIOLARSI NELL’APOLOGIA DEL SOTTOSVILUPPO da IL MANIFESTO
L’apologia del sottosviluppo
GOVERNO ED ECONOMIA. La scienza economica ci dice che quando un paese parte da prestazioni così smaccatamente più penose degli altri, dovrebbe anche disporre di margini di miglioramento maggiori, che solitamente si manifestano in tassi di crescita più elevati che altrove. Ebbene, per adesso questo fenomeno in Italia non si è affatto verificato
Emiliano Brancaccio 03/12/2023
L’occasione, per lei, giunge dai dati Istat sugli occupati: nell’ultimo anno si registra un incremento occupazionale di quasi mezzo milione di unità. Il governo interpreta la notizia come fosse una prova empirica del suo eccelso operato. Per i media prevalenti anche la più elementare delle verifiche sembra una perdita di tempo: meglio plaudire più presto e più forte degli altri.
Eppure, qualche precisazione bisognerà pur farla.
Il primo chiarimento necessario è che, con la sola eccezione dell’anno orribile della pandemia, in Italia incrementi non dissimili dell’occupazione si sono verificati sotto tutti i governi dopo quello di Monti, con un record post-pandemico nei mesi a cavallo tra gli esecutivi Conte e Draghi. Se poi si vuol proprio giocare a chi si prende i meriti, allora bisogna tener conto del fatto che l’occupazione risponde alle politiche di governo sempre con un certo ritardo, che la letteratura scientifica solitamente stima di circa un anno. Per quanto possa suscitarle fastidio, ciò significa che in queste ore Meloni si sta al massimo vantando di una dinamica le cui origini risalgono ai mesi di Draghi, così come Draghi si rallegrava di una crescita eventualmente imputabile alle politiche di Conte, e così via a ritroso.
Ma l’aspetto forse più increscioso, per i candidi di palazzo Chigi, è il confronto con il resto d’Europa. L’Italia registra infatti la più bassa percentuale di occupati in rapporto alla forza lavoro disponibile: appena il 65%, ben nove punti sotto la media europea. Si tratta forse del record negativo maggiormente caratteristico delle specifiche arretratezze dell’economia italiana, essendo determinato soprattutto dalla bassissima quota di occupazione femminile: al di sotto di quella maschile di 15 punti percentuali, il divario più ampio di tutta l’Ue, persino oltre quello di Romania o Grecia. Se esiste un segno incontrovertibile di persistenza nel nostro paese delle tipiche anticaglie del capitalismo patriarcale, è esattamente questo.
Ora, la scienza economica ci dice che quando un paese parte da prestazioni così smaccatamente più penose degli altri, dovrebbe anche disporre di margini di miglioramento maggiori, che solitamente si manifestano in tassi di crescita più elevati che altrove. Ebbene, per adesso questo fenomeno in Italia non si è affatto verificato, tantomeno sotto Meloni. Basti notare che nell’ultimo anno l’occupazione in Italia è cresciuta meno della media europea. Con un effetto sul tasso di occupazione, specialmente femminile, che non è minimamente in grado di compensare l’enorme ritardo rispetto agli altri paesi dell’Unione.
La situazione di arretratezza del capitalismo italiano, del resto, è testimoniata anche da altri dati, che un tempo si sarebbero definiti «di struttura». Un esempio di queste ore è l’annuncio dei quasi tremila licenziamenti di Alitalia. Spente ormai da tempo le abbaglianti luci berlusconiane sugli «imprenditori coraggiosi» che avrebbero dovuto preservarne l’italianità, la ex compagnia di bandiera è ormai ridotta a un osso spolpato.
Mentre Francia e Germania governavano con risolutezza i processi di centralizzazione del settore, l’Italia del trasporto aereo è all’ultimo atto di una commedia dell’anti-politica industriale tutta scritta seguendo il rassegnato precetto di Guido Carli: il governo dell’economia è una roba complessa che possono permettersi solo le nazioni avanzate, mentre ai paesi arretrati tocca solo di abbracciare la croce del libero mercato e sperare che gli vada bene.
Al di là delle fanfare panglossiane della destra di governo, a noi non sta andando affatto bene. Al punto che anche parlare di declino sembra un eufemismo. La verità è che i capitani del capitalismo italiano e i loro fedeli servitori al governo sembrano ormai capaci di una cosa soltanto: crogiolarsi in un’apologia del sottosviluppo.
Censis, le metafore del presente: sonnambulo è il sistema, non chi gli resiste
L’ANALISI. Nel 57esimo rapporto del Censis gli italiani sono rappresentati come un popolo addormentato. impaurito. Apocalissi e profezie dal tracollo economico a un conflitto mondiale. Paure e ansie per la denatalità, l’invecchiamento. Il problema della passività politica. Ma le metafore possono sfuggire di mano e cambiare di senso
Roberto Ciccarelli 02/12/2023
Per il Censis gli «italiani» vivrebbero come “sonnambuli”. Lo sostiene nel 57esimo rapporto, presentato ieri a Roma. Il «sonnambulismo diffuso», è, ad avviso del Censis, un “sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”.
La genesi non dichiarata di una simile metafora scivolosa, usata per descrivere una condizione psicologica estesa alla totalità della popolazione, è la trilogia di Hermann Broch: I sonnambuli, ambientata nel 1888 con la parte dedicata a «Pasenow o il romanticismo», segue il 1903 con «Esch o l’anarchia», e si arriva al 1918 con «Hugenau o il realismo». Scritto nel 1930 per raccontare la «degradazione dei valori» alla quale era arrivata la Germania, il romanzo ha raccontato come quell’Europa sia scivolata verso il crollo finale della sua cultura e della sua ragion d’essere. Il crollo, allora, è coinciso con il nazismo.
Leggendo il rapporto del Censis, non pare che «gli effetti funesti» possano coincidere con il ritorno nazismo nell’Europa del XXI secolo. Ma, a rigore di metafora, l’esito non andrebbe escluso. Se i sonnambuli di allora sono caduti in quel baratro, lo stesso potrebbe capitare ai loro cugini. Il Censis non si sofferma su tale possibilità. A rigor di metafora le destre al governo o che avanzano preparerebbero una simile catastrofe. Forse, ci si sarà detti, con gli eredi del Movimento sociale italiano al governo, non è il caso di portare alle estreme conseguenze il ragionamento. Le analogie sono cattive consigliere. Come le metafore dalle quali nascono. Possono prendere una direzione apocalittica, sfuggire di mano e confondere la comprensione della storia.
Il «sonnambulismo» è una di queste, spiega il presente attraverso la sensazione di sentirsi sul bordo della catastrofe sociale come nella Repubblica di Weimar. Oppure alla fine della civiltà europea, liberale, alla «fine del mondo o alla «fine della storia».
Una delle catastrofi che il Censis vede in arrivo è quella di un tracollo economico causato dalla diminuzione d i più di 2 milioni e mezzo di d onne «in età feconda» nel 2050. Sempre in quell’anno, considerato l’ora X in cui i sonnambuli subiranno gli «effetti funesti» del loro sonno sociale, avrà perso «4,5 milioni di residenti, come se le due più grandi città, Roma e Milano, scomparissero nel nulla». E sempre nel 2050 dovrebbe diminuire la fascia di popolazione in età lavorativa che si ridurrà di quasi 8 milioni di persone. Questo significa che cresceranno le spese del sistema sanitario e quelle della previdenza.
Nel rapporto c’è spazio per le profezie sulla guerra mondiale. Davanti a una simile ipotesi, cresciuta con la moltiplicazione degi conflitti negli ultimi due anni (quelli rappresentati 24 ore su 24 dall’info-crazia, non tutte le altre guerre), il Censis ritiene che «la metà degli italiani teme che l’Italia non sarebbe in grado di difendersi militarmente nel caso di un attacco da parte di un paese nemico». Non è chiaro da chi sia rappresentata la «metà degli italiani». «Altri italiani» potrebbero ritenere che partecipare al clima bellicista moltiplicato dalla società dello spettacolo non aiuti a rispettare una convinzione diffusa che si rispecchia nell’articolo 11 della Costituzione dove si «ripudia la guerra». Perché, allora, non un’indagine a partire da questa idea diffusa?
È interessante un’altra osservazione impressionistica presente nel rapporto secondo la quale «la soddisfazione professionale non è più al primo posto: per quasi nove occupati su dieci mettere il lavoro al centro della vita è un errore». Il problema è che non sappiamo di chi parliamo: del facchino e del rider? O del professionista che può permettersi di saltare un giro o dedicarsi ai propri interessi personali? I sonnambuli, tra loro, non sono tutti uguali. E chi deve lavorare per vivere deve rimanere sveglio. Un altro aspetto non considerato della metafora.
L’aspetto più politico del «sonnambulismo» di cui parla il Censis è la condizione diffusa di passività, rassegnazione e impotenza. È comune alle «classi dirigenti» e alla «maggioranza silenziosa». Anche in questo caso la metafora andrebbe portata nella realtà politica. Il sonnambulismo potrebbe essere anche quello del sistema che ha concepito il Pnrr, il piano al quale è collegata la speranza delle classi dirigenti nel «risveglio del paese». Se nel paese prevale il disincanto, allora nemmeno il Pnrr porterà un sussulto in questo sonno fatale. O il «calcolo raziocinante» tra chi traccia «scie» e non fa «sciame» come gli italiani. In questo caso, la metafora funziona: sarebbe il fallimento di un’intera classe politica. E la prova della totale sfiducia nei suoi confronti. Sonnambulo è il sistema, non chi gli resiste.
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