COSA SI AGITA DIETRO LA NOSTRA SOCIETÀ “IRRAZIONALE” da IL MANIFESTO e MACHINA
Quel lato oscuro delle metropoli
GEOGRAFIE. L’ultima edizione degli «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli racconta «La città invisibile»
Maurizio Giufrè 07/07/2024
La lettura dell’ultima edizione degli «Annali» della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dal titolo: La città invisibile / Quello che non vediamo sta cambiando le metropoli (pp. 400, euro 50), ci occupa in un momento critico per Milano, colpita per i suoi recenti progetti urbanistici messi sotto inchiesta della magistratura per le norme e le procedure adottate. La riflessione teorica si lega ai fatti della cronaca e ci si domanda se non ricadano nell’«invisibile» anche quei processi controllati dagli amministratori comunali, a beneficio di professionisti e imprese, che hanno prodotto la forma più insensata di urbanistica che si sia mai vista.
L’«invisibilità» riguarda tutti da vicino ma, come ricorda Alessandro Balducci, curatore dei saggi dell’«Annale», rinvia a una variegata quantità di temi, molto complessi, che rientrano, secondo la definizione che ne diede Henri Lefebvre, nella planetary urbanisation: il «processo di urbanizzazione planetaria, estesa o concentrata, fatta di esplosione e implosioni» che nelle forme della mega-city fissa le proprietà della realtà post-metropolitana, dagli esiti spaziali ancora incerti per le dinamiche economiche, politiche e sociali che vi si presentano.
AD ANALIZZARE con cura ciò che accade con ripetitive similitudini nelle diversi parti del mondo, ci si accorge che per comprendere la città non sono più sufficienti gli strumenti di analisi di un tempo, quando questa era considerata un unico organismo con caratteri specifici inseriti in un contesto definito. Le relazioni, in particolare di natura immateriale, che connettono la pluralità degli eventi che si presentano nella città, non hanno più dinamiche lineari e immaginabili.
Ogni tentativo di governare con metodi razionali e ottimizzatori i problemi urbani si è dimostrato inefficace nei confronti dell’«eterogeneità, l’innovazione, e la competizione – che come hanno scritto Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, nel loro saggio Il fenomeno urbano e la complessità (2019) – sono riconosciute essere le chiavi per la vitalità e la vivibilità della città».
Nelle difficoltà di pianificare l’entità complessa della città, inserita ormai in un sistema transnazionale di città-rete, un ruolo dominante lo assume l’economia finanziaria alla quale ubbidiscono le politiche urbanistiche.
Il contributo di Mike Raco e Tuna Tasan-Kok riguardo le «(in)visibili ambiguità» delle riforme urbanistiche pilotate dalle multinazionali del mercato immobiliare, evidenzia come queste abbiano approfittato della crisi del welfare state, per determinare la configurazione degli attuali ambienti urbani. Dai reciproci osservatori universitari di Londra e Amsterdam, i due studiosi spiegano come l’interdipendenza tra le istituzioni pubbliche e il mercato non consente di superare le ingiustizie generate da pratiche di policy-making egemonizzate dagli attori del reale estate alleati degli investitori finanziari.
CREDERE A UN MODELLO di pianificazione che sia esente da «ambiguità» è, quindi, un’«illusione ideologica». Vale la compiacenza con la quale le amministrazioni pubbliche deregolamentano l’uso dei suoli e la zonizzazione delle aree, legittimano normative a beneficio solo di alcuni gruppi sociali, allocano i rischi privilegiando l’investitore immobiliare, del quale ne incorporano le modalità lavorative e ne soddisfano i tempi di attuazione dei progetti fondati sugli alti profitti in grado di generare. In particolare, consentono il patchwork spaziale con il quale si distribuiscono disordinati nella città i diversi interventi immobiliari.
L’instabilità causata dalla «tensione strutturale» che la crescente dipendenza dal mercato esercita pone una domanda: come si proteggono gli interessi pubblici, ovvero quelli dei cittadini? Nonostante sia scontato che nella flessibilità del mercato anche i cittadini e le comunità urbane trovano spazio con i loro progetti collettivi, tra autocostruzione e cooperazione, si è così certi, come sostengono nelle conclusioni Raco e Tasan-Kok, che «questi esercizi cambieranno lo sviluppo delle città e creeranno connessioni sociali più visibili»?
Come illustra Agostino Petrillo, nelle periferie, dove in maggior misura troviamo abitanti che esprimono le loro «forze positive ed energie», perdura l’invisibilità di chi è «svantaggiato»: prodotto di «trascuratezza colpevole» e di «disattenzione quasi involontaria».SULLA SCORTA della sociologia di Pierre Bourdieu e la tradizione fenomenologica di Merleau-Ponty, Petrillo spiega che nelle varie classi sociali si sedimenta una diversa «coscienza della condizione», la quale, in chi è in difficoltà, si manifesta nella remissiva consapevolezza della distanza che lo separa da chi è fuori lo «spazio periferico», per cui l’«invisibilizzazione», oltre che essere sinonimo di emarginazione, diventa spesso «autoesclusione».
In tempi dove l’idea della fine della periferia nutre il pensiero mainstream di architetti e urbanisti, rendere visibili proprio le periferie, con i loro intrecci sociali, antropologici e spaziali, è un compito non più differibile.
CHE LA QUESTIONE sia il superamento della dicotomia tra «Città degli inclusi» e della «Città degli esclusi» è ciò che auspica Paolo Perulli. Ricomporre per lui i conflitti tra «neoplebi», «classi creative» e «élite», affinché si attui la «convivenza pacifica», potrebbe rappresentare l’ultima utopia da realizzare.
Sotto le fattezze di eco-city o green-city si concentra una grande folla di sostenitori: tutti stakeholder votati al «bene pubblico»? Qualche dubbio sorge se non si affronta il nodo di come si possono modificare radicalmente gli odierni assetti politici dominanti, insofferenti a qualsiasi processo d’inclusione e di sostenibilità, come hanno dimostrato le recenti conferenze mondiali sul clima.
Il cambiamento del clima è un’altra invisibilità che per decenni è stata «alleata di chi – scrive Roberto Mezzalana – per difendere i propri interessi negava l’esistenza stessa del fenomeno e seminava dubbi sulle sue basi scientifiche».
LA STRUTTURA URBANISTICA delle città incide sensibilmente nelle emissioni di gas serra e dove non sono previste strategie di resilienza e più marcate sono le disuguaglianze sociali, gli eventi climatici estremi sono una tragedia che colpisce in prevalenza i ceti più poveri: si è visto con l’uragano Katrina nel 2005 e in altri numerosi casi.
In merito ai modelli di governance delle comunità urbane e ai processi decisionali che li caratterizzano, il racconto di Pierre Filion sulla linea metropolitana leggera a Waterloo (Canada) è indicativo di quanto approssimativi siano i criteri adottati dai governanti per decidere. La scelta di questo tipo di infrastruttura si fondava sulla volontà di contrastare l’uso dell’automobile e rivitalizzare le aree da essa attraversate, ma una volta in esercizio risultò un fallimento che causò solo l’aumento dei costi delle abitazioni per le fasce più deboli. È questo un caso-studio che mostra quanti errori a volte contiene la pianificazione che segmenta la realtà in aspetti visibili e invisibili invece di considerarla nella sua totalità.
Gli «Annali» dedicano una speciale attenzione ovviamente anche alla portata della digitalizzazione nelle modificazioni urbane. Il tema è trattato da Giovanni Azzone, che spiega come le infrastrutture digitali definiscono i luoghi dell’insediamento di aziende e imprese configurando «ecosistemi competitivi».
Piercesare Secchi riflette sulle potenzialità che hanno i big data e algoritmi generati dalle comunità urbane che combinati con l’Intelligenza artificiale, potranno essere «strumenti attuatori di politiche di precisione», transitando da ciò che oggi sanno solo descriverci alle possibilità di «costruire previsioni».
Infine, Mara Ferreri, illustra come le piattaforme digitali hanno «normalizzato» la vita nelle città nelle pervasive pratiche del loro impiego al punto da doverle considerare uno «strumento di opacizzazione dell’urbano» se solo, ad esempio, si analizza come Airbnb ha imposto le sue regole nel mercato degli affitti.
C’è ancora molto da comprendere sui fenomeni urbani nelle loro complesse configurazioni materiali e immateriali. Dalla lettura degli «Annali» scaturisce che non sono concesse scorciatoie per raccontare la città, considerando quanto vi è ancora di nascosto al nostro sguardo.
Cosa si agita dietro la nostra società «irrazionale»
Enzo Scandurra 12 gennaio 2022
Questo testo di Enzo Scandurra è stato presentato al seminario dello scorso 7 dicembre dal titolo Sul territorio: la crescente tensione tra legalità, libertà e giustizia sociale organizzato dal Dottorato in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica, curriculum Tecnica Urbanistica (Sapienza Università di Roma). Al seminario Scandurra era stato invitato in quanto curatore, con Ilaria Agostini, della sezione «disurbanità» di Machina.
* * *
Il recente 55° Rapporto del Censis ha per titolo La società irrazionale, intendendo con questa espressione «la creazione di un continuum tra i concetti di «pensiero magico, stregonesco, sciamanico» che, benché certamente in relazione tra loro, rispondono ad ambiti culturali profondamente diversi, soprattutto nel loro utilizzo da parte dello psichismo umano» (K. Salinari, su «il manifesto» del 5.12.2021). In sostanza si tratterebbe del rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche, e, aggiunge Papa Francesco, di questa civiltà sviluppata che noi chiamiamo Occidente (discorso del Papa a Lesbo, 5.12.2021). Dunque in sintesi la tesi del Censis è che «la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle stesse promesse razionali». È proprio così? In realtà questa tesi non fa che affermare il trionfo del pensiero economicista, del Pil come unico metro di misura della ragione umana, della scienza come tecné, delle aspettative di ricchezza materiale come realizzazione dell’individualità umana e sociale. Questa la supposta razionalità dell’Occidente. Tutto ciò che è «fuori» da questa «razionalità» è considerato irrazionale, pensiero magico, dunque, regressivo. Ma questa «razionalità» si accompagna sempre con una crescente secolarizzazione della nostra relazione col mondo, che significa distacco dalla natura, sfruttamento delle risorse del pianeta, ecc. Ma non è da questo che si è prodotto il riscaldamento climatico, il degrado della biosfera e, per ultima, la sindemia che attualmente colpisce la specie umana? E infatti, a osservarla bene, questa razionalità si fonda sull’economia, sul Pnrr (fondato sulla scienza), sull’efficacia dei vaccini (sempre scienza), sui diritti universali o sulla più recente «pax draconiana». Ora basterebbe una sia pur minima cultura scientifica per sapere che la scienza non è la verità, che essa avanza per successivi successi e fallimenti (paradigmi) e alla fine altro non è che un «racconto» di come rappresentiamo il mondo e noi stessi. Ma anche l’Occidente ha i suoi presupposti di irrazionale perché alla base di questi visioni c’è, come ricorda De Martino, il distacco dalla natura (la fine del mondo), ovvero afferma De Martino: il senso del numinoso, del sacro, cioè del senso trascendente della vita, che per ognuno è ciò che ci pone in contatto con noi stessi e con il mondo, non certo la razionalità economica, o della tecnè che ha infatti prodotto la maggior parte dei guasti che l’anima del singolo, né quella del Mondo, può più sopportare (K. Salinari, op. cit.). Questi i motivi che spingono le menti deboli a pensare che l’attuale sindemia e magari anche il riscaldamento climatico siano un gran complotto di qualche paese per esercitare quella che è stata chiamata la «dittatura sanitaria». Ancora una volta si dimostra che il pensiero ultra semplificato riscuote maggiore successo del pensiero complesso. Perché questi disastri sono l’esito di uno sguardo antropocentrico e prometeico (la hybris) con il quale l’Occidente in primis ha governato sul mondo. Ricordate la frase di Leopardi: le magnifiche sorti e progressive? O quella in cui il poeta recanatese definiva il suo secolo del progresso con le parole «secol superbo e sciocco»? In altre parole avremmo dovuto ascoltare più che la razionalità economica, della tecnica, ricercata per realizzazione personale attraverso l’accumulo di beni materiali un ascolto più profondo ed autentico dei messaggi che ci arrivano, sempre più drammaticamente, dalla Natura. Forse sarebbe stato questo l’antidoto alla «irrazionalità» dei no vax, dei terrapiattisti e altre cose di questo genere. Dunque non le attese non realizzate della nostra «razionalità» occidentale sono il prodotto della protesta che dilaga nel mondo, quanto piuttosto il rifiuto di questa presunta razionalità che tanto razionale non è. Che c’è di razionale nelle guerre, nel tentare (inutilmente) di esportare la nostra democrazia nei paesi che ancora chiamiamo non sviluppati, nell’accaparramento delle risorse e la distruzione degli ecosistemi di supporto alla vita, nella sempre più ineguale distribuzione della ricchezza, nel vaccinare solo i popoli ricchi, eccetera? L’idea sottostante è che il complottismo è un crampo psichico, mentre è la manifestazione della crisi del «progresso» descritto dal Censis. Il confine tra razionale e irrazionale è deciso da chi ha il potere e usa i complotti. Prendiamo la «teoria del grande rimpiazzamento» causato «dall’arrivo degli immigrati» ai danni «dell’identità» nazionale. È citata dal Censis come prova dell’«irrazionalità» (R. Ciccarelli su «il manifesto» del 3.12.2021). Chi la pratica non è solo un lunatico manipolato. Questa ideologia politica poliforme circola tra le forze politiche al governo, e all’opposizione, nella razionalissima sfera della democrazia parlamentare, la stessa che sostiene «i vaccini efficaci» e «il piano di rilancio finanziato dall’Unione Europea», considerate due «vittorie della ragione». Ma di quale ragione? Quella di chi se la può permettere, i vaccini escludono mezzo mondo e il «Pnrr» è ispirato a orientamenti economici discutibili. Non basta evocare il «reale» per farlo funzionare. Ci penserà la realtà (R. Ciccarelli, op. cit.). In realtà siamo le prime vittime di questo malinteso senso della razionalità che ha scacciato dalla percezione proprio ciò che di poeticamente irrazionale ci circonda e ci anima: è razionale un fiore che si offre al sole e ci regala, dico regala, il suo profumo e la sua bellezza? Siamo razionali quando amiamo? Ma allora perché solo in quel momento ci sentiamo vivi? Domande che non possono essere ridotte in cifre (K. Salinari, op. cit.).
* * *
Enzo Scandurra è urbanista, saggista e scrittore. Ha insegnato per oltre 40 anni Sviluppo sostenibile per l’Ambiente e Il Territorio. Tra i suoi libri: Un paese ci vuole (2007), Ricominciamo dalle periferie (2009), Vite periferiche (2012), Fuori squadra (2017). Per DeriveApprodi Splendori e miserie dell’urbanistica (con Ilaria Agostini, 2018) e Biosfera, l’ambiente che abitiamo (con Ilaria Agostini e Giovanni Attili).
No Comments