CARACCIOLO: “HAMAS NON È SOLO TERRORISMO E ISRAELE HA SBAGLIATO RISPOSTA” da IL FATTO e IL MANIFESTO
Lucio Caracciolo: “Hamas non è solo terrorismo e Israele ha sbagliato risposta”
IL DIRETTORE DI LIMES – “Il 7 ottobre è stato usato metodo vile, ma il controllo della sua testa politica è limitato”
SALVATORE CANNAVÒ 10 NOVEMBRE 2023
Lucio Caracciolo ha appena mandato in edicola l’ultimo numero di Limes, “Grande guerra in Terrasanta”, e oggi inaugura il tradizionale Festival della rivista, a Genova, che si intitola “Il fattore italiano nel mondo in guerra”.
Dedicate molto spazio a Hamas: pensa che pagherà un prezzo per questa guerra?
La cosa più importante su Hamas, che svisceriamo nel numero, è che non chiaro cosa ci sia dentro. Il grado di controllo della testa politica appare limitato (e Limes intervista il capo politico Haniyya). Inoltre, a bocce ferme, in campo palestinese si faranno i conti e qualcuno potrà chiedere a Hamas perché ha provocato Israele in una reazione abbastanza probabile. Va anche detto che l’operazione del 7 ottobre non è stata solo delle Brigate al-Qassam, oltre al Jihad islamico ci sono stati anche cani sciolti e probabilmente semplici criminali che hanno approfittato della situazione. L’operazione non è andata esattamente secondo i piani e se fossi un civile palestinese qualche domanda la porrei.
Cosa pensa dell’accusa a Hamas di essere un’organizzazione terrorista?
Il terrorismo è una modalità di guerra particolarmente vile, ma non è un soggetto politico. Tanto che il più noto terrorista palestinese ha avuto un Nobel per la Pace (Arafat). Non c’è una definizione incontrovertibile. Il 7 ottobre, Hamas ha certamente utilizzato un metodo terroristico, ma nel definirlo semplicemente terrorista, come al Qaeda, si perde di vista che è un movimento di massa, che ha vinto le elezioni, che è stato sostenuto prima da Rabin in funzione anti Arafat, e anche da Netanyahu che favoriva il trasferimento di soldi qatarini verso Hamas.
E Netanyahu? Lui pagherà un prezzo?
Se non lo paga adesso non paga più. La mia previsione è che il suo futuro oscilli tra un pensionamento dorato e il carcere. È vero che ci ha abituato a sette vite, ma le ha spese tutte. Un governo futuro non potrà averlo come capo a meno che la guerra non sia eterna.
Paolo Mieli nei dibattiti in tv chiede provocatoriamente: “Cosa avreste fatto al posto di Netanyahu?”.
Si può rispondere tranquillamente: Israele ha fatto quello che quasi tutti si aspettavano. Ma non credo che a mente fredda possa essere considerato utile allo Stato di Israele. La vendetta sproporzionata, che sempre caratterizza Israele, non lo ha favorito. Nel giro di pochi giorni i bombardamenti, nella percezione internazionale, hanno indotto a perdere di vista il massacro del 7 ottobre e a schierarsi con i palestinesi. L’elemento della propaganda è decisivo in un tale contesto, e quindi è stato un errore. Israele sta facendo la guerra che Hamas voleva, asimmetrica in cui i terroristi devono solo perpetuare se stessi. Tu che avresti fatto, chiede Mieli? Rispondo con un paradosso: nulla. Il problema non è vendicarsi, ma proteggere il proprio popolo e, nel caso di Israele, anche quello della diaspora che fa i conti con ondate di antisemitismo o di simpatia per i palestinesi. Se Israele, dopo una pausa di qualche giorno, avesse deciso di non entrare a Gaza, da cui era scappata, ma di chiudere tutte le uscite in maniera seria cominciando a colpire selettivamente i capi di Hamas, anche in Iran nel caso, avrebbe stravinto la guerra di propaganda e salvato molte vite tra gli ostaggi o tra i propri soldati. E avrebbe potuto presentarsi a un futuro tavolo negoziale in una posizione di forza politica e morale.
È vero che c’è una nuova stagione di iniziativa degli Stati arabi?
Non mi pare. Il Qatar gioca sempre su tutti i tavoli. Essendo un giacimento con uno Stato sopra si tiene buoni tutti. Parla con Usa, Russia, israeliani e palestinesi, cercando di comparsi la tranquillità. Doha sembra un centro congressi negoziale a livello mondiale, un hub di mediazione, ma non una potenza politica. La potenza classica dell’area è l’Egitto, ma è in seria difficoltà e teme l’afflusso di migliaia di palestinesi tra cui molti Fratelli Musulmani, nemici di Al Sisi. La Turchia dopo aver incontrato Netanyahu e aver stabilito rapporti sotto banco con Israele è diventato lo sponsor dei “terroristi” liberatori di Hamas, cercando di presentarsi come il leader islamico che copre tutto lo spettro del mondo musulmano. L’Iran da una parte ha sponsorizzato Hamas, ma non vuole arrivare allo scontro con gli Usa perché subirebbe gravi perdite. Non si intravede un attore e la guerra durerà abbastanza con un riposizionamento di tutti quanti e con nessuna speranza immediata di un accordo tra israeliani e palestinesi.
Il New York Times si domanda se gli Usa possono concentrarsi sulla Cina mentre devono gestire due guerre contemporaneamente. Che risponde?
No, non ce la farà. Nel numero di Limes spieghiamo che ci sono contatti notevoli tra Usa e Russia e anche con la Cina, per stabilire regole d’ingaggio che evitino ai conflitti in corso di sfociare in una guerra più ampia che gli Usa, con la perdita di identità, non può gestire.
E l’Italia
Non può fare molto. Il fatto che si impegni sul fronte umanitario è importante, non è solo un atto simbolico, non dimentichiamo che abbiamo un migliaio di soldati lungo la frontiera Libano.
Netanyahu l’americano
USA/ISRAELE. Parte rilevante della sua biografia è legata agli Usa. Mai un leader israeliano ha interagito personalmente come lui con gli ambienti politici, culturali ed economici statunitensi
Guido Moltedo 10/11/2023
Benjamin «Bibi» Netanyahu, ormai uno zombie politico nel suo paese, si muove con ostentata determinazione come comandante-in-capo di una guerra sporca, ben sostenuto da quegli ambienti americani con cui ha da tempo solidi rapporti personali, nel Partito repubblicano e nelle organizzazioni ebraiche a esso contigue. Le recenti dichiarazioni di molti esponenti di primo piano del Grand Old Party fanno raggelare, sono inni alla distruzione di Gaza, fino alla cancellazione del popolo palestinese. E nella recente conferenza annuale della Republican Jewish Coalition, la grande star era Donald Trump, osannato quando ha affermato che, fosse stato lui il presidente, «non avreste avuto l’Ucraina, non avreste avuto Israele attaccato», impegnandosi, se rieletto, «a difendere il nostro amico e alleato lo stato d’Israele come mai nessuno prima».
In prima fila ad applaudirlo, stucchevolmente omaggiata da Trump, Miriam Adelson, padrona di casa nel suo Hotel Venetian, copia della città dei Dogi, dove si è tenuta la conferenza. Tra le persone più ricche del mondo, la vedova di Sheldon Adelson, israeliana, è una mega-donor del Partito repubblicano e lo è stata di Trump e di Bibi nelle loro campagne elettorali.
Netanyahu si sta muovendo, nella sua conduzione della guerra, avendo in mente un cambio politico al vertice americano, nella prospettiva del ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca, e si adopera per favorirlo come può, anche contando sulle crescenti incertezze nello stesso campo democratico sull’opportunità di ricandidare Biden. Che infatti tratta come un presidente azzoppato. Biden, da parte sua, da politico navigato, allo scoppio della crisi, aveva provato a giocare d’anticipo, volando in Israele, come volesse «commissariare» Netanyahu e scongiurare lo scenario di guerra a oltranza che poi invece si è prodotto e nel quale il leader israeliano si trova a perfetto agio, costringendo via via l’alleato americano ad acconciarsi al fatto compiuto, anche se in apparenza riluttante.
Netanyahu è il primo premier israeliano nato (1949) in Israele dopo la costituzione dello stato ebraico. Ma è anche il primo premier culturalmente “all American”. Parte rilevante della sua biografia s’intreccia con gli Stati Uniti. Mai un leader israeliano aveva avuto una altrettanto notevole capacità di interagire personalmente con gli ambienti politici, culturali ed economici americani. Il rapporto con l’America inizia presto. Dopo l’infanzia e la prima giovinezza a Gerusalemme, nel 1963 va oltre oceano. La sua famiglia vive in Pennsylvania, a Cheltenham Township, un sobborgo di Filadelfia, dove Bibi frequenta il liceo locale. Degli anni di Filadelfia, gli resta lo spiccato accento della città.
Dopo il servizio militare tornerà negli Usa, a Boston, per studiare architettura al Massachusetts Institute of Technology. Studia anche a Harvard. In quegli anni cambia nome, si fa chiamare Benjiamin Ben Nitai (in riferimento al monte Nitai), una decisione che gli sarà fatta pesare come sintomo di una mancanza di attaccamento e lealtà all’identità israeliana. In un’intervista chiarirà di averlo fatto perché il suo cognome era di difficile pronuncia per gli americani.
Nel 1976 comincia a lavorare nel settore privato, a Boston, dove la sua vita s’incrocia con quella di Mitt Romney, e cominceranno un’amicizia e un sodalizio robusto che durerà nel tempo. Rientrato in Israele, Netanyahu è poi di nuovo negli Usa nel 1982. Ha trentatré anni ed è già un alto dirigente politico. In queste vesti torna in America numero due dell’ambasciata a Washington. Due anni dopo il balzo a New York, dove assume la guida dell’ambasciata alle Nazioni Unite, fino al 1988. Poi il ritorno in patria e la carriera politica che lo porta ai vertici del paese.
Ci arriva anche grazie a una campagna elettorale in puro stile americano, quando vince le elezioni, nel 1996, contro Shimon Peres, grazie alla strategia di Arthur Finklestein, un political operative repubblicano che ha avuto tra i suoi “clienti” anche Ronald Reagan.
Proprio il suo essere un “insider” della politica americana lo renderà una sorta di oppositore interno a Obama (e quindi del vice, Biden). Nelle presidenziali del 2012, l’antica amicizia con Mitt Romney si trasforma in un plateale asse politico teso a impedire la rielezione di Obama. Mai prima un capo di stato estero, sia pure il massimo alleato e amico degli Usa, aveva preso parte attivamente alla campagna presidenziale americana schierandosi con uno dei contendenti, sfidante del presidente in. carica. Identica “sceneggiatura” con Trump, contestato dai liberal ebrei americani, ma suo solido alleato nel piano che sfocerà nel Patto d’Abramo, con i sauditi, peraltro una delle cause dell’attuale conflitto.
L’«assunto» fondamentale su cui poggiava storicamente la relazione speciale tra America e Israele – innanzitutto dal punto di vista della comunità ebraica statunitense – voleva che il sostegno a Israele fosse una questione rigorosamente bipartisan nella politica americana, non di un partito, men che mai di un partito contro l’altro. Così era stato fino all’apparizione sulla scena di Bibi, che. ormai il più longevo politicamente dei premier israeliani, è riuscito nell’impresa di rimodellare quel rapporto in funzione degli interessi dei conservatori – e oggi dei suprematisti – in America e in Israele.
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