BOOM DEL LAVORO, STORIA DI UN’ILLUSIONE VENDUTA AD ATREJU da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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BOOM DEL LAVORO, STORIA DI UN’ILLUSIONE VENDUTA AD ATREJU da IL MANIFESTO e IL FATTO

Boom del lavoro, storia di un’illusione venduta ad Atreju

La storia Oggi inizia la settimana di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia al Circo Massimo a Roma. Meloni celebrerà anche l’aumento dell’occupazione e i successi del suo governo. Lo ha fatto già ieri partendo da un’analisi della Cgia. Ma il Pil cala e la produzione industriale crolla. Analisi di un caso che ha una lunga storia politica in Italia 

Roberto Ciccarelli  08/12/2024

Due anni di governo Meloni hanno bisogno del Circo Massimo per contenere l’entusiasmo oceanico dei «Fratelli d’Italia» per il record registrato nei dati sull’occupazione. Nel catino gigantesco che si apre nel cuore di Roma un tempo c’erano le bighe e da qualche tempo si tengono i concerti e le celebrazioni dei governi in carica. Qui, oggi, si apre la nuova edizione di Atreju, la storica festa del partito di Giorgia Meloni.

IL TONO CHE ACCOMPAGNERÀ la kermesse nel corso della prossima settimana è stato anticipato ieri dalla della Presidente del Consiglio. Meloni ha rilanciato il comunicato del sabato della Cgia di Mestre sull’aumento dell’occupazione avvenuto negli ultimi due anni: 847 mila nuovi occupati, in maggioranza lavoratori dipendenti e in parte autonomi. E poi c’è l’aumento dei contratti a tempo indeterminato (937 mila unità) con un relativo calo dei lavoratori precari con un contratto a termine (266 mila).

I DATI, GIÀ NOTI, sono stati accolti con soddisfazione da Meloni prima di prendere l’aereo per Parigi e andare a Notre-Dame: «Ci spingono a continuare a lavorare con determinazione per creare ulteriori opportunità e garantire stabilità e crescita economica a tutta la nostra Nazione» ha detto. La frase, sintesi della cultura nazionalistica e imprenditoriale del postfascismo italiano, è stata ripresa da decine di esponenti di Fratelli d’Italia. Arianna Meloni, sorella della premier e responsabile della segreteria politica del partito, ha commentato che «il massimo storico di occupati e il tasso di disoccupazione giovanile più basso di sempre» sono la smentita della «martellante propaganda di sinistra» che preannunciava «disastri» con le destre al potere.

LE SORELLE MELONI non si sono soffermate sulla seconda parte dello studio della Cgia, lì dove è stata segnalata l’anomalia di una crescita dell’occupazione che non corrisponde alla crescita economica. Il Pil, negli ultimi due anni, «è stato molto contenuto e all’aumento dell’occupazione non è corrisposto un incremento altrettanto importante della produttività del lavoro. Pertanto gli stipendi che sono al di sotto della media europea, non crescono adeguatamente». «Bisogna rinnovare i contratti nazionali alla scadenza». Ciò avverrà, ma molto parzialmente. Nella prossima legge di bilancio il governo ha stanziato risorse di gran lunga inferiori rispetto alla maxi-inflazione cumulata in due anni. I salari sono destinati a restare bassi. E l’aumento dell’occupazione, per di più a tempo indeterminato, altro non è che un aumento del lavoro povero.

PER COMPLETEZZA di informazione va ricordato che, questa settimana, la crescita economica del 2024 è stata dimezzata dall’Istat dall’1% allo 0,5% E andrà poco meglio nei prossimi. Sempre che la situazione non peggiori. Inoltre la produzione industriale crolla da venti mesi. A questo si può aggiungere che, con questo governo, la povertà ha eguagliato il record di 5,7 milioni di persone, anche a causa della malconcepita rimodulazione del già problematico «reddito di cittadinanza».

LA CONTRADDITTORIETÀ della situazione è stata ignorata in vista della festa di oggi. Per una semplice ragione: il boom dell’occupazione può rivelarsi un’illusione. La narrazione del potere è chiara. I dati sul lavoro sono usati per dimostrare che il «melonismo» ha reso l’Italia il paese più «stabile» d’Europa mentre la Francia e la Germania si stanno avvitando in una crisi di sistema. È il racconto di un riscatto immaginario: il bruco che diventa farfalla, la cicala che diventa virtuosa. Questa idea rassicura l’establishment. I meloniani lo sanno e la rilanciano di continuo.

I GOVERNI IN CARICA, compreso quello Meloni, vedono solo i dati «assoluti» sull’occupazione. Evitano di considerarli in termini contestuali, cioè storici e sociali. Non lo fanno perché non capiscono i dati, ma perché il lavoro è utile solo quando garantisce il consenso. Oggi c’è una curva positiva. La curva può invertirsi. Può accadere in un’economia che funziona per flussi e non solo per blocchi.

BISOGNA LEGGERE le «Prospettive per l’economia italiana nel 2024-2025» pubblicate dall’Istat l’altro ieri. A pagina 7 scopriamo che il boom dell’occupazione è finito. «Nella seconda parte del 2024 – sostiene l’Istat – le prospettive sull’occupazione sono progressivamente peggiorate in tutti i comportati». La tendenza è stata «confermata anche nei dati di novembre che indicano un peggioramento delle attese sull’occupazione per manifattura, costruzioni e commercio al dettaglio, a fronte di un lieve miglioramento per i servizi di mercato». C’è poi una frase che dovrebbe fare discutere gli entusiasti del Circo Massimo: «Nel corso del 2025 si prevede un rallentamento del tasso di crescita dell’occupazione». Significa che il disallineamento tra lavoro e crescita convergerà verso la stagnazione.

IL PROBLEMA di un Pil che cala e dell’occupazione che cresce è interessante. Sul sito di Sbilanciamoci Alessandro Bellocchi e Giuseppe Travaglini dell’università di Urbino hanno sostenuto che l’anomalo aumento dell’occupazione, al netto della ripresa post-Covid e della spinta data dal Bonus 110% all’edilizia, è il segnale dell’avvenuta transizione da un’economia deindustrializzata a un’economia basata sui servizi poveri come il food delivery o l’over-tourism che devasta le città. Questo è il risultato del mancato investimento sul «terziario avanzato»: informatica, intelligenza artificiale, tecnologie «green» (tagliate da Meloni), servizi finanziari. La decisione è stata presa una quarantina di anni fa. È stata accompagnata dalla decisione di contenere i salari, usare il debito pubblico come compensazione da fare pagare ai più deboli e dal collocamento dell’Italia nei posti più bassi del mercato capitalistico globale.

L’OSSERVATORIO INPS sul mercato del lavoro ha confermato: l’occupazione è cresciuta nei settori a bassa produttività e a basso salario dove è più intenso lo sfruttamento del lavoro povero. Meloni & Co. hanno raccolto un’eredità comune alla politica italiana, a cominciare dagli accordi sulla moderazione salariale del luglio del 92 e del 93 e poi dal «centro-sinistra» degli anni Novanta, passando da Berlusconi e dai governi «tecnici». È questa la storia, e il presente, che si celebra ad Atreju.

Ceto medio in crisi, redditi reali in calo e paura di guerre e migranti: l’Italia che “galleggia” nel rapporto Censis

 F. Q.  6 Dicembre 2024

La crisi del ceto medio che pesa anche sulla partecipazione al voto, le questioni identitarie che “tendono a sostituire le istanze delle classi sociali tradizionali”, le crescenti preoccupazioni per i flussi migratori e uno scenario internazionale che mai come in passato orientano la politica e il futuro dei cittadini. Poi ci sono la mancanza di conoscenze di base, che “rende i cittadini più disorientati e vulnerabili”, il divario sui servizi tra città e campagne – e relativo spopolamento delle aree interne – e l’aumento della spesa sanitaria privata pro-capite. E i redditi, che negli ultimi 210 anni sono calati del 7 per cento. È quanto rileva il Rapporto 2024 del Censis, presentato oggi, da cui emerge una società italiana turbata e in profondo cambiamento. Per il 49,6% dei nostri connazionali il futuro sarà condizionato dal cambiamento climatico e dagli eventi atmosferici catastrofici, ma anche per il 46% dagli esiti della guerra in Medio Oriente e dal rischio (45,7%) di crisi economiche e finanziarie globali. Per il 71,4% degli italiani, poi, l’Unione europea è destinata a sfasciarsi, senza riforme radicali e oltre il 68% ritiene che le democrazie liberali non funzionino più, mentre sul fronte welfare nel periodo 2013-2023 si è registrato un balzo in avanti del 23% in termini reali della spesa sanitaria privata pro-capite, pari nell’ultimo anno ad oltre 44 miliardi di euro. Crollano inoltre i flussi in entrata degli investimenti esteri, evidenziando una debolezza del Paese nella capacità di sfruttare la leva degli investimenti esteri per rafforzare il sistema produttivo.

Calo dei redditi – Negli ultimi vent’anni (2003-2023) il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. Nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%. E l’85,5% degli italiani ormai è convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale. Il rapporto parla di una “sindrome italiana”, che riassume nella “continuità nella medietà“, un sorta di “galleggiamento” in cui la società italiana è intrappolata. Il rapporto rileva come “la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”. Nel ventennio 1963-1983 il valore del Pil, espresso in euro attuali, era raddoppiato, crescendo complessivamente di 731 miliardi di euro (+117,1%); nei successivi vent’anni, tra il 1983 e il 2003, l’incremento si era ridimensionato a 656 miliardi di euro (+48,4%); ma negli ultimi due decenni, tra il 2003 e il 2023, l’aumento è stato solo di 117 miliardi di euro (+5,8%). Negli intervalli di tempo considerati, il Pil pro-capite era aumentato di quasi 12mila euro tra il 1963 e il 1983 (+96,7%), di oltre 11mila euro tra il 1983 e il 2003 (+46,2%), di poco più di mille euro tra il 2003 e il 2023 (+3,0%).

Italia al primo posto in Europa per quantità di cittadinanze concesse – Poi il capitolo migranti e le preoccupazioni legate ai flussi di stranieri in ingresso: “Le questioni identitarie tendono a sostituire le istanze delle classi sociali tradizionali e assumono una centralità inedita nella dialettica socio-politica”. Tant’è che “il 57,4% degli italiani si sente minacciato da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico“. Ma non basta, c’è anche un 38,3% di nostri connazionali che si sente minacciato da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti; e un 29,3% vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale. Si tratta, a detta degli autori dello studio, di differenze che possono trasformarsi “in fratture e potrebbero degenerare in un aperto conflitto”. Allo stesso modo, si sottolinea, il 29,3% degli italiani “vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale”. Tuttavia “negli ultimi dieci anni sono stati integrati quasi 1,5 milioni di nuovi cittadini italiani, che prima erano stranieri”. E in questo può sorprendere constatare che l’Italia si collochi al primo posto tra tutti i Paesi Ue per quantità di cittadinanze concesse (213.567 nel 2023). Con un numero molto più alto delle circa 181mila acquisizioni in Spagna, delle 166mila in Germania, delle 114mila in Francia e delle 92mila in Svezia. Poi, viene ricordato, le cittadinanze nel 2022 ammontavano al 21,6% di tutte quelle registrate nei Paesi Ue (circa 1 milione); e il nostro Paese è primo anche per il totale cumulato nell’ultimo decennio (+112,2% tra il 2013 e il 2022).

Aumento sanità privata pro-capite – Negli ultimi dieci anni, tra il 2013 e il 2023, si è registrato un balzo del 23% in termini reali della spesa sanitaria privata pro-capite, che nell’ultimo anno ha superato complessivamente i 44 miliardi di euro. Inoltre, al 62,1% degli italiani è capitato almeno una volta di dover rinviare un check up medico, accertamenti diagnostici o visite specialistiche perché la lista di attesa negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale era troppo lunga e il costo da sostenere nelle strutture private era considerato troppo alto. Al 53,8% è capitato, in presenza di problemi di salute, di dover fare ricorso ai propri risparmi per pagare le prestazioni sanitarie necessarie. E il 78,5% dichiara che, in caso di problemi di salute, teme di non poter contare sulla sanità pubblica.

Scuola – In tema di istruzione, o quella che viene definita ‘la fabbrica degli ignoranti’, emerge che la mancanza di conoscenze di base “rende i cittadini più disorientati e vulnerabili”. In termini di apprendimento non raggiungerebbe l’auspicato traguardo per la lingua italiana il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria, il 39,9% al terzo anno della scuola media e il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore (dato che negli istituti professionali sale vertiginosamente all’80%). Benché gli analfabeti propriamente detti siano ormai una esigua minoranza (solo 260mila), mentre i laureati sono aumentati fino a 8,4 milioni (il 18,4% della popolazione con almeno 25 anni, erano il 13,3% nel 2011), la mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili. Non raggiungono i traguardi di apprendimento: in italiano, il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria, il 39,9% al terzo anno della scuola media, il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore (negli istituti professionali quest’ultimo dato sale vertiginosamente all’80,0%); in matematica, il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie inferiori e il 47,5% alle superiori (anche in questo caso il picco si registra negli istituti professionali con l’81,0%). E sono frequenti strafalcioni e “buchi di conoscenza” in tutte le fasce di età. Ad esempio, il 55,2% degli italiani risponde in modo errato o non sa che Mussolini è stato destituito e arrestato nel 1943, il 30,3% (in questo caso il dato sale al 55,1% tra i giovani) non sa dire correttamente chi era Giuseppe Mazzini (per il 19,3% è stato un politico della prima Repubblica), il 30,3% non conosce l’anno dell’Unità d’Italia, il 28,8% ignora quando è entrata in vigore la Costituzione.

Spopolamento aree interne – Sotto la lente anche il “divorzio” tra città e campagne, soprattutto sotto il profilo dei servizi (pubblici e privati): se in media in Italia le famiglie hanno difficoltà a raggiungere una farmacia (13,8%, pari a 3,6 milioni) o per accedere a un Pronto soccorso (50,8%, circa 13 milioni), nel caso dei comuni fino a 2mila abitanti le difficoltà riguardano rispettivamente il 19,8 e il 68,6% dei nuclei familiari. “Nelle aree interne del Paese oggi vivono 13,3 milioni di persone, più di un italiano su cinque (il 22,6%). Sono circa 800mila in meno rispetto al 2014: in un decennio la riduzione è stata del 5,0%, più della media nazionale (-2,2%)”. “La gravità dello spopolamento di questi territori è evidenziata dalle proiezioni demografiche – si legge – Tra dieci anni, mentre la popolazione italiana complessiva subirà una riduzione dell’1,4%, le aree interne vedranno ridurre la propria popolazione del 3,8%. Fra vent’anni il declino demografico delle aree interne sfiorerà i 9 punti percentuali, portando a 12,2 milioni la popolazione residente”.

Denatalità – Uno degli effetti nascosti della denatalità sarà un imponente passaggio intergenerazionale di ricchezza: il numero degli eredi si riduce, quindi in prospettiva le eredità si concentrano. Per il Censis, in futuro il valore dei patrimoni familiari è destinato a concentrarsi in gruppi più ristretti della popolazione per effetto della deriva demografica di lungo periodo. Il 2008 è stato lanno dopo il quale è iniziata una fase di riduzione del numero dei nati senza interruzioni anno dopo anno. Rispetto ad allora, nel 2023 abbiamo registrato circa 200mila nascite annue in meno (-34,1% in quindici anni). “Il processo di denatalità è destinato inesorabilmente a perpetuarsi anche qualora si riuscisse miracolosamente a invertire la traiettoria declinante del tasso di fecondità. Di conseguenza, il calo demografico determinerà un incremento della quota pro-capite delle future eredità, diminuendo in prospettiva la numerosità dei millenial e degli zoomer futuri percettori”, sottolinea.

Bologna prima per la transizione ambientale – Al primo posto il capoluogo emiliano, seguito da Firenze e Torino. Il Green&Blue Index, elaborato dal Censis sintetizzando 26 indicatori, misura il passo della transizione ecologica: “Con un punteggio di 80,3 su 100, Bologna si classifica prima città metropolitana nella transizione ambientale, seguita da Firenze (80,0 punti) e Torino (79,4). Tra le province con più di 500mila abitanti è Bolzano a ottenere il punteggio maggiore (82,0), seguita da Trento (81,4) e Vicenza (80,1)”. Sempre secondo l’analisi del Censis, “tra le province tra 300mila e 500mila abitanti è Pordenone a ottenere il punteggio più alto (81,3), seguita da Potenza (81,2) e Lecco (80,7). Tra le province con meno di 300mila abitanti è Benevento la prima classificata (80,0), seguita da La Spezia (79,9) e a pari merito Siena e Belluno (79,6)”.

Crisi della democrazia – Per il 71,4% degli italiani l’Unione europea è destinata a sfasciarsi, senza riforme radicali. Il tasso di astensione alle ultime elezioni europee ha segnato un record nella storia repubblicana: il 51,7% (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, l’astensionismo si fermò al 14,3%). Per il Censis, c’è una sfiducia crescente nei sistemi democratici, dal momento che l’84,4% degli italiani è convinto che ormai i politici pensino solo a sé stessi. Il 68,5% ritiene che le democrazie liberali non funzionino più, rileva il Rapporto, che sottolinea come “all’erosione dei percorsi di ascesa economica e sociale del ceto medio si sta accompagnando la messa in discussione dei grandi valori unificanti del passato modello di sviluppo” come “il valore irrinunciabile della democrazia e della partecipazione, il conveniente europeismo, il convinto atlantismo”. Il 66,3% attribuisce all’Occidente – Usa in testa – la colpa dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Solo il 31,6% si dice d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil.

Crollo degli investimenti esteri – Per l’Italia i flussi in entrata degli investimenti esteri hanno superato di poco gli 8 miliardi di euro nel primo semestre di quest’anno, ma nello stesso periodo dell’anno precedente il valore era quasi tre volte superiore (21,8 miliardi). I flussi in uscita sono stati pari a 11,3 miliardi e hanno determinato un saldo negativo di poco inferiore a 3 miliardi, evidenziando una debolezza del Paese nella capacità di sfruttare la leva degli investimenti esteri per rafforzare il sistema produttivo.

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