“APPUNTI DI LAVORO” E “INACCETTABILI DISUGUAGLIANZE” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
10139
post-template-default,single,single-post,postid-10139,single-format-standard,stockholm-core-2.4,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-9.6,ajax_fade,page_not_loaded,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-6.13.0,vc_responsive

“APPUNTI DI LAVORO” E “INACCETTABILI DISUGUAGLIANZE” da IL MANIFESTO

Autonomia, Calderoli presenta la secessione dei ricchi

LO SCONTRO. Le bozze della proposta agli enti locali, Regioni divise:«Spacca il paese» dicono al Sud. La carica dei leghisti, l’imbarazzo di Fratelli d’Italia. Le distinzioni dei governatori Pd. Cgil: «Inaccettabili diseguaglianze»

Roberto Ciccarelli  18/11/2022

«Sono solo appunti di lavoro». Così Roberto Calderoli ha presentato ieri alla conferenza Stato-Regioni il suo progetto di «autonomia differenziata». Il ministro agli Affari regionali e all’«autonomia», cioè il pomo della discordia, ha vestito i panni del diplomatico che cerca di presentare la nascita di regioni con estesissimi poteri e capacità di spesa superiori alle altre (la Lombardia e il Veneto rispetto alla Calabria, alla Puglia o alla Campania) come una (in)credibile opportunità per tutti. «Non c’è una spaccatura tra Nord e Sud – ha detto – C’è una paura del Sud che qualcuno si avvantaggi a svantaggio loro. Mi auguro che tutti possano avere un vantaggio, piccolo o grosso, da questa riforma».

PRIMA DEL TESTO «provvisorio» di Calderoli Lombardia, Veneto e Emilia Romagna hanno già chiesto competenze vastissime e a strappare maggiori risorse finanziarie possibili, contenute solo per scuola e sanità per quanto riguarda quest’ultima. Ieri il presidente Stefano Bonaccini lo ha ribadito sottolineando la necessità di fissare prima i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), i fabbisogni standard e la spesa storica, «e poi il coinvolgimento del Parlamento».

IN QUESTA CORNICE si muove il presidente pugliese Michele Emiliano, ieri ha incontrato i gruppi parlamentari del Pd, secondo il quale «prima proponevano la secessione, poi il federalismo fiscale, ora l’autonomia differenziata, non è che possiamo dire che ci fidiamo con certezza. È necessaria una legge cornice che stabilisca quali possono essere le materie oggetto d’intesa. È escluso ad esempio che scuola, energia o trasporti possano esser oggetto di una delega alla Regioni. Il rischio è quello di una Babele».

PER IL TOSCANO GIANI (Pd) invece «l’autonomia differenziata va letta non come un problema di risorse che competono tra Nord e Sud creando squilibri, dobbiamo leggerla come un’Italia che dà in alcune Regioni che hanno un maggiore profilo di competenza su una materia – in Toscana beni culturali e geotermia – una specificità nella competenza e nell’azione della Regione».

I LEGHISTI sono carichi come pile elettriche. Per loro è la partita della vita. E giocano al rovesciamento del senso politico dell’operazione. «Il progetto è costituzionale: chi è contro l’autonomia è contro la Costituzione» ha detto il veneto Zaia infilando il coltello nella piaga: il Titolo V della Costituzione riformato dal «centro-sinistra». Il friulano Fedriga sostiene che la «leale collaborazione» del governo con le regioni e ha rilanciato la lettura dell’«identitarismo differenziale» del presidente della Camera Fontana: «Valorizzare la ricchezza delle nostre diverse identità è il futuro del nostro paese». Così le destre leghiste mascherano la «secessione delle regioni ricche» ai danni di quelle del Sud. Ma non tutte le regioni di queste destre sono allineate. Prendiamo il forzista Roberto Occhiuto, presidente della Calabria, che parla di « diritti uguali per tutti» e «si archivi l’ingiusto criterio della spesa storica per finanziare questi diritti».

NEL MEZZO si trova il partito di maggioranza Fratelli d’Italia che in passato ha proposto una riforma costituzionale (XVII legislatura) che sopprimeva «ogni forma di specialità regionale». «[La] presidente Meloni ha parlato di Autonomia parallelamente alla riforma presidenziale che gli italiani invocano e che darebbe modernità alla nostra nazione» ha ricordato Alfredo Antoniozzi (Fdi). In pratica, il progetto della devastazione completa dell’impianto costituzionale. Fuori dai Palazzi c’è tutto un mondo in ebollizione. Il sindacato dei medici dirigenti Anaao Assomed, per esempio, si è detto «attonito, la bozza del Ddl è preoccupante, no alla frantumazione del sistema sanitario nazionale». «Bisogna ridurre le inaccettabili diseguaglianze già esistenti e i divari territoriali sempre più ampi – sostiene la Cgil – L’autonomia differenziata va, invece, in direzione opposta».

Il salario del nostro scontento

COMMENTI. C’è urgente bisogno che lo scossone parta dai luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle piazze, quindi dell’apertura di un largo conflitto sociale. Fino a programmare uno sciopero generale

Alfonso Gianni  18/11/2022

È ufficiale. Abbiamo raggiunto un record di cui avremmo fatto volentieri a meno. L’inflazione a ottobre è all’11,8%, bisogna tornare al 1984 per trovare un simile livello. A settembre era all’8,9%, quindi è aumentata di tre punti in un mese, non succedeva dal 1954. Ma per il mondo del lavoro, delle pensioni e del non lavoro l’inflazione reale è ancora più alta poiché si abbatte su consumi essenziali incomprimibili. Il dato italiano è tra i peggiori in Europa. E il pensiero corre, o dovrebbe, a chi vive di reddito fisso e assiste alla sua riduzione senza strumenti di difesa. Già i salari italiani in trent’anni erano diminuiti del 2,9%. Ma ora la prospettiva è ancora peggiore. E’ chiaro che, rebus sic stantibus, già l’inflazione acquisita per l’anno in corso, non meno dell’8%, non potrà essere recuperata dalla contrattazione sindacale.

Come se non bastasse il governatore di Bankitalia ammonisce che non è possibile alzare i salari, timoroso dell’innescarsi della spirale con i prezzi. Ma il paragone con gli anni settanta non regge da nessun punto di vista, non ultimo il fatto che le cause della violenta spinta inflazionistica sono in grande parte legate alla guerra in corso in Europa e alle sue conseguenze sui prezzi, a cominciare dall’energia. In più la Bce nel suo rapporto di novembre stima probabile una recessione tra l’ultimo trimestre di quest’anno e il primo di quello prossimo. E non è detto che si fermi lì. La stagflazione – questa sì ci ricorda gli anni settanta – è tornata: ovvero la presenza congiunta di inflazione e di recessione. Quando se ne parlava su queste pagine, più d’uno sosteneva altrove che era una previsione fuori dal mondo. Purtroppo avevamo ragione.

Ed ha ancor più ragione da vendere Landini, quando afferma che i bonus sono pannicelli neppure troppo caldi e che i fringe benefit e la detassazione del salario di produttività sono armi spuntate in partenza, dal momento che la contrattazione aziendale riguarda solo il 20% dei lavoratori e tra i leitmotiv delle analisi economiche sulla crisi italiana compare sempre lo scarso aumento di produttività, che peraltro non andrebbe riferita al lavoro ma al sistema in generale. Fermo restando che anche il sindacato dovrebbe rivolgersi qualche domanda su come mai si sia lasciato sfuggire di mano quella potestà salariale che orgogliosamente rivendica quando invece si propone – come sarebbe giusto e necessario – l’introduzione per legge di un salario minimo indicizzato all’aumento dell’inflazione.

Il segretario della Cgil chiede ora giustamente, di fronte alla drammatica emergenza salariale e al crollo del potere d’acquisto dei pensionati e dei precari, di usare lo strumento fiscale. Ma a parte che questo non dovrebbe sostituire l’apertura di un fronte di lotta per gli aumenti retributivi, (in Germania l’IgMetall minaccia lo sciopero per ottenere l’aumento dell’8% dei salari) non può sfuggire ad alcuno che il governo si muove in tutt’altra direzione. Mentre il decreto “aiuti quater” si preoccupa di autorizzare le trivellazioni tra le 9 e le 12 miglia dalla costa o di aumentare il tetto del contante a 5mila euro, esponenti governativi corrono in soccorso della Confindustria, promettendo che il taglio del cuneo fiscale andrà almeno per un terzo a loro vantaggio, anziché interamente per alleviare la crisi dei salari reali. Mentre si prevede che la tassazione degli extraprofitti delle imprese energetiche si fermi al 33%, quando vista la natura di quei guadagni tassarli almeno al 90% sarebbe una misura di normale equità.

Ma il governo non sembra limitarsi a questo. La tassazione forfettaria del 15% si allargherebbe a circa due milioni di partite Iva, portando il limite da 65mila a 85mila euro, ampliando quindi quel tax gap, messo in rilievo da una corposa relazione di esperti, che porta ad un’ulteriore riduzione delle entrate fiscali. A ciò possiamo aggiungere l’intenzione di riaprire il condono per i capitali fuggiti illegalmente all’estero (la chiamano voluntary disclosure per confondere le acque). Se non bastasse il governo Meloni ha in testa di istituire un flat tax “incrementale” per gli autonomi, per cui i guadagni superiori al migliore degli ultimi tre anni, godrebbero di una tassa al 15%. Due ingiustizie (e violazione dei principi costituzionali) in una: chi guadagna di più pagherebbe meno tasse e tra due cittadini a pari reddito risparmierebbe chi lo ha maggiormente incrementato nell’ultimo anno.

Ci si augura che l’opposizione parlamentare faccia la sua lotta fino in fondo. Ma nelle condizioni in cui si trova il parlamento questa non basterebbe in ogni caso. C’è urgente bisogno che lo scossone parta dai luoghi di lavoro, dalle scuole, dalle piazze, quindi dell’apertura di un largo conflitto sociale. Fino a programmare uno sciopero generale.

No Comments

Post a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.