AMOS GITAI: “LE IMMAGINI DEI MEDIA PROLUNGANO LA GUERRA” da IL MANIFESTO
Amos Gitai: «Le immagini dei media prolungano la guerra»
Venezia 81. Intervista al regista israeliano, presenterà al Lido “Why War”, incentrato sull’omonimo scambio epistolare tra Einstein e Freud
Lucrezia Ercolani 27/08/2024
«Si tratta di rispondere alla domanda: perché questi animali intelligenti, che si chiamano umani, hanno bisogno ogni volta di fare la guerra? Possedendo la razionalità, perché non possono discutere e provare a trovare soluzioni senza applicare la forza?». Così Amos Gitai introduce il nuovo film che si accinge a presentare a Venezia, Why War. Una visione poetica al cui centro c’è l’omonimo scambio epistolare, pubblicato originariamente nel ’34, tra Albert Einstein e Sigmund Freud, interpretati da Micha Lescot e Mathieu Amalric, a cui si affianca il ruolo fondamentale di Irène Jacob. Il regista israeliano torna a Venezia a quattro anni di distanza da Laila in Haifa, lo raggiungiamo su Zoom prima della partenza, dove appare provato e amareggiato dalla guerra in corso.
«Why War» è una riflessione universale, tuttavia, sappiamo che l’urgenza di realizzarlo è legata agli eventi del 7 ottobre e dei mesi successivi. Può parlarcene?
Realizzare un film per me è un lavoro civico, di risposta a qualcosa che mi tocca o mi disturba. Le barbare atrocità perpetrate da Hamas il 7 ottobre sono imperdonabili. Niente può giustificare tali crimini, nemmeno un movimento di liberazione nazionale. Penso spesso a Vivian Silver, una pacifista di 74 anni che ha lottato tutta la vita per far curare i bambini di Gaza negli ospedali israeliani. Il suo corpo è stato trovato bruciato nella sua casa nel Kibbutz Beeri. Giovani sono stati rapiti, violentati e uccisi. L’attuale ciclo morboso fa venire voglia di piangere. Oggi si è instaurato un rituale terrificante, con bombardamenti, spreco di vite umane e di tutte le risorse di questa regione, per un conflitto militare, ancora e ancora. E l’immensa tragedia per i civili palestinesi di Gaza. L’attuale governo israeliano pensa che il conflitto possa essere risolto con la forza, ma non ci sarà mai una soluzione definitiva senza un dialogo profondo che tenga conto delle sofferenze di entrambe le parti. Tutto questo mi ha spinto ha realizzare film e a lavorare duramente, sono ora a Venezia con Why War dopo aver presentato lo scorso febbraio alla Berlinale Shikun, un film nato in relazione a quello che era il contesto in Israele, prima del 7 ottobre. Eravamo nel mezzo di un grande movimento di protesta contro il tentativo di modificare il sistema legale da parte di Netanyahu e del suo governo di estrema destra. Un movimento che era una reazione all’ascesa di una forma di conformismo, alla scomparsa del pensiero critico nella società israeliana. È in questo contesto che ho riletto l’opera teatrale Rhinoceros di Ionesco, scritta alla fine degli anni ’50 come favola antitotalitaria. Why War è una riflessione più universale, non riguarda solamente Israele e la Palestina, ma anche l’Ucraina, la Russia, il Sudan, purtroppo abbiamo molti esempi.
La lettura di Freud è molto profonda ma sembra portarci in una strada senza uscita. Da un lato abbiamo la spinta alla distruzione insita nell’umano, dall’altro c’è la cultura, che potrebbe opporvisi, ma che ci porterà all’infelicità in quanto repressione degli istinti. Cosa pensa di questa visione?
Leggendo il testo originale dello scambio epistolario, le posizioni di Einstein sembrano sostanzialmente marxiste: parla dell’industria della guerra, dei soldi legati alle armi, dell’avidità, ed è a favore della costituzione di quella che poi sarà la Lega delle Nazioni. Freud invece tratta dell’anima umana ed è vero che nella prima parte dello scambio sembra essere ottimista rispetto alla cultura e al suo potenziale di opposizione alla guerra mentre nella seconda si rivela più disilluso rispetto a questa possibilità, come recita il titolo del suo libro del 1930, il Disagio della civiltà. E credo che abbia ragione nel dire che non sarà la cultura a liberarci: che ci piaccia o no, personalmente non penso che possa cambiare la realtà nel momento presente. A meno di non voler realizzare lavori demagogici come quelli di Micheal Moore, manipolatori per una «buona causa». Ma credo che non funzionino in ogni caso. Ho vissuto accanto a divisioni etniche, religiose e politiche, cercando sempre di non farmi sopraffare. Viviamo in un mondo in cui il dialogo è diventato sempre più complicato e raro, e questo favorisce le posizioni estreme, come vediamo in molte parti del mondo. Il film non vuole dare una risposta, ma far sì che tutti noi ci interroghiamo. L’arte non può cambiare la realtà, ma lascia una traccia, una memoria. Ha un potere simbolico.
Citava il suo film precedente, «Shikun». Vedere insieme gli attori israeliani e palestinesi sul palco a Berlino dava un messaggio di speranza. «Why War» invece appare come una riflessione più introspettiva, interna alla cultura ebraica. Questo cambio di prospettiva è un risultato di ciò che è accaduto negli ultimi mesi?
Non lo definirei un cambio di prospettiva. Semplicemente, faccio film diversi, e in ognuno di essi guardo a qualcosa di diverso. In questo lavoro il mio interesse, anche grazie agli attori, è osservare come uno straniero vede la zona di guerra, e quali possono essere le sue reazioni. Abbiamo girato a Vienna, a Tel Aviv, a Berlino e a Parigi e oltre a Freud e Einstein ci sono due grandi autrici come Virginia Woolf e Susan Sontag, con il suo bellissimo testo Davanti al dolore degli altri. Potremmo prendere questo titolo e farlo diventare una domanda, che è quella che più mi interessava. A parte la lunga tavola imbandita a Tel Aviv per gli ostaggi in attesa del ritorno, non ci sono immagini della guerra in corso, le più descrittive sono i quadri di Goya. Questa è una grande contraddizione per un regista ma nella mia mente, i media e l’iconografia della guerra prolungano la guerra stessa. Perché se sono israeliano vedrò in tv solamente la brutalità di Hamas, dei rapimenti, la tragedia delle famiglie degli ostaggi, e non potrò che odiare chi ha fatto tutto questo. Se sono palestinese vedrò continuamente la distruzione di Gaza e penserò lo stesso. Quella delle tv di tutto il pianeta è una produzione quasi pornografica: le immagini diventano strumento di guerra. E visto che non voglio la guerra, ho scelto di non includerle.
Pensa che i media potrebbero fare un lavoro diverso?
I media sono legati ai soldi e al sensazionalismo, e sta diventando sempre peggio. È davvero raro oggi trovare un pensiero profondo sui media come nel periodo d’oro di Enrico Ghezzi e del suo fantastico gruppo, con persone come Marco Melani, su Fuori Orario hanno mostrato tutti i miei film allora. E con Blob c’era la televisione che usava se stessa come critica della televisione. Ma tutto questo è molto difficile da trovare oggi, avidità, soldi e celebrità sono imperanti. Siamo nei guai, e per questo dobbiamo ripensare a come usare le immagini.
A questo proposito, può dire qualcosa sulla forma del film?
Certo, io penso che la forma sia politica e non mi stupisce che, ad esempio, i nazisti non potessero sopportare il Bauhaus: non si può fare un regime con un’architettura minimalista e trasparente. Rispetto al cinema, bisogna pensare a come usare la forma in una struttura associativa e poetica, non arrendendoci ai diktat di Netflix e alle narrazioni già scritte in ogni dettaglio. Non sono quelli i film che più mi hanno impressionato, come quelli di Pasolini o Rossellini o Godard, che iniziano sempre nella mia mente quando la proiezione è finita. È allora che mi chiedo cosa volessero effettivamente dirmi perché non è tutto chiaro fin dall’inizio. Anche nella forma dobbiamo essere sovversivi e non accettare dittature, non si tratta solo di ciò che diciamo in maniera dichiarativa e esplicitamente politica.
Crede che «Why War» verrà visto in Israele? C’è interesse per questi temi?
Attualmente Israele è un Paese molto triste, affronta una grande tragedia e come in molte nazioni, tra cui l’Italia, c’è una sorta di schizofrenia. Da una parte ci sono persone sensibili, intelligenti e creative, che convivono con altre volgari, kitsch e brutali. È un unico corpo con una dualità. Ci sono ancora molti che vogliono opporsi a Netanyahu e al suo terribile governo, che scendono in strada, che scrivono. Credo che bisogna dare loro una mano, incoraggiarle, perché cosa accadrà ancora non è scritto.
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