“A RISCHIO INDIPENDENZA DEI PM”: L’ONU BOCCIA LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“A RISCHIO INDIPENDENZA DEI PM”: L’ONU BOCCIA LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE da IL FATTO e IL MANIFESTO

“A rischio indipendenza dei Pm”: pure l’Onu boccia la separazione. La lettera a Giorgia Meloni della Relatrice sulla giustizia delle Nazioni Unite.

Esclusiva del Fatto

Paolo Frosina  30 Ottobre 2025

Avvertimento. La Relatrice speciale chiede varie modifiche al testo: “La proposta rischia di violare gli obblighi internazionali dell’Italia”

“Questa proposta di riforma potrebbe privare il pubblico ministero dello status e della garanzia di indipendenza esterna che la Costituzione attualmente assicura attraverso il principio di unità della magistratura, il quale implica un insieme comune di garanzie per giudici e pubblici ministeri e un unico Consiglio superiore”. Stavolta non è una “toga rossa” o un leader di opposizione a mettere in guardia dai rischi del Ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, che oggi otterrà al Senato l’ultimo dei quattro via libera necessari in Parlamento prima del referendum. L’appello a ripensare il progetto, rivolto direttamente a Giorgia Meloni, arriva da Margaret Satterthwaite, 56enne giurista statunitense – dirige il Centro di ricerca sulla giustizia globale alla New York University – e dal 2022 Relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza di giudici e avvocati (lo stesso ruolo che Francesca Albanese ricopre per i territori palestinesi occupati). In una lettera inviata alla premier lo scorso 23 ottobre – che il Fatto pubblica in anteprima – Satterthwaite invita il governo “a un attento riesame delle modifiche” apportate alla Carta, “affinché la proposta sia pienamente conforme agli obblighi internazionali” sottoscritti dall’Italia in sede Onu, e in particolare all’articolo 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che tutela il diritto di ogni individuo a essere processato da magistrati indipendenti.

Nel testo della missiva – sei pagine su carta intestata del Palazzo delle Nazioni di Ginevra – la Relatrice esprime preoccupazioni su tutti i contenuti della riforma, a partire dallo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura in due nuovi organi, uno per i giudici e uno per i pm: “Occorre prestare la massima attenzione affinché i nuovi consigli restino liberi da influenze politiche e da possibili controlli da parte degli altri poteri dello Stato. È inoltre essenziale garantire che la divisione non renda giudici e pubblici ministeri più esposti a pressioni esterne”, scrive Satterthwaite. Giudizio duro anche sul sorteggio previsto per i membri togati, cioè magistrati, dei futuri Csm: “Le procedure di nomina proposte rischiano di compromettere la legittimità democratica dei consigli, poiché ridurrebbero il ruolo di giudici e pubblici ministeri nella scelta dei propri rappresentanti”, nota la giurista. In base agli standard europei, ricorda infatti, “almeno la metà dei membri” degli organi di autogoverno delle toghe “dovrebbe essere composta da giudici eletti dai propri pari. La procedura proposta”, invece, “non assicura l’elezione da parte dei pari e solleva quindi serie perplessità”, afferma. “Particolarmente preoccupante”, poi, è definita la disciplina della nuova Alta Corte disciplinare, che giudicherà sugli illeciti professionali dei magistrati al posto del Csm: contro le sue sentenze, infatti, non sarà più ammesso ricorso in Cassazione, ma solo alla stessa Alta Corte. E ciò, scrive Satterthwaite, viola una delle garanzie di indipendenza della magistratura previste a livello internazionale, cioè “il riesame indipendente” delle decisioni che comportano la sospensione o la rimozione dall’incarico.

La presa di posizione dell’Onu non è qualcosa che il governo possa liquidare facilmente. Non si tratta infatti “né di un atto dovuto, né di un automatismo: la Relatrice interviene solo quando ritiene che un progetto normativo possa incidere sull’autonomia del potere giudiziario”, spiega Monica Mastrandrea, componente della giunta dell’Associazione nazionale magistrati e delegata agli ultimi vertici internazionali tra le toghe. “Che ciò avvenga oggi nei confronti dell’Italia è un fatto che merita attenta riflessione: significa che la riforma viene ritenuta potenzialmente dannosa per gli equilibri democratici”, segnala. Quello delle Nazioni Unite, conclude, è quindi “un richiamo al dovere di preservare i principi che sorreggono la nostra democrazia: l’indipendenza dei giudici come garanzia ultima della libertà dei cittadini”.


Il controllo non è garanzia

Andrea Fabozzi  30/10/2025

Giustizia e potere Dal primo voto all’ultimo, nel giro di appena nove mesi, la destra al governo porta a conclusione un progetto di riforma costituzionale che abitualmente richiede tempi assai più lunghi e che lei stessa ha inseguito – nella sostanza – per oltre trent’anni

Dal primo voto all’ultimo, nel giro di appena nove mesi, la destra al governo porta a conclusione un progetto di riforma costituzionale che abitualmente richiede tempi assai più lunghi e che lei stessa ha inseguito – nella sostanza – per oltre trent’anni. Ci riesce adesso senza ostacoli e senza dover spostare una sola virgola nella sua proposta originaria, il che la dice lunga sul presunto potere di interdizione parlamentare (e spiega anche perché del famoso premierato che aumenterebbe ancora i poteri del governo non c’è più urgenza). Il ministro presunto vincitore, Nordio, con l’abituale grazia trova comunque il modo di infierire sulle «litanie petulanti» dell’opposizione. E probabilmente di peggio potremmo vedere oggi, avendo la maggioranza deciso di celebrare l’ultimo sì alla separazione delle carriere dei magistrati con un spettacolo di piazza. Magari piove.

È la destra stessa a chiamare gli elettori perché si pronuncino sulla “sua” riforma con il referendum. È un rovesciamento della procedura di garanzia prevista dalla Costituzione, non è inedito – lo fece Renzi nel 2016 – ma resta preoccupante. Se infatti cambiare la Carta prevede diverse cautele, quattro votazioni parlamentari e un eventuale referendum popolare, è perché eletti ed elettori possano avere tempo e modo di meditare bene sul testo. In questo caso invece la riforma porta la firma del governo, non è stata modificata in nulla ed è ancora il governo a volere che sia «confermata» dal popolo. A chiedere un voto popolare contro dovrebbe essere chi non è riuscito a fermarla in parlamento, sono invece gli stessi autori a invocare un voto a favore. È più un plebiscito che un referendum.

Ma soprattutto è un trucco, un tentativo di adulterare la logica della procedura di revisione costituzionale e il racconto di questa. Perché il referendum si sarebbe fatto in ogni caso, visto che la destra non ha raccolto sulla “sua” riforma il numero di voti parlamentari necessario per una promulgazione diretta. Non lo ha nemmeno cercato, escludendo a prescindere qualsiasi correzione e qualsiasi mediazione. Dunque è una riforma costituzionale della giustizia a immagine e somiglianza della destra questa che andrà approvata o respinta in primavera in un’alternativa secca.

Memore di precedenti fallimenti (di nuovo Renzi), Meloni vuole evitare di trasformare il referendum in un voto su se stessa. In una certa misura sarà comunque un primo tempo delle elezioni politiche, è chiaro però che la destra proverà a chiedere un voto «nel merito». Ma quale merito? La domanda intorno alla quale sarà costruita la campagna per il sì, è già chiaro, punterà a una semplificazione estrema: vi piace o non vi piace la giustizia italiana per come funziona adesso? Con il corollario di un altro riduzionismo anche questo assai furbo: siete favorevoli o contrari ai magistrati? È certo che se le domande fossero davvero queste, le chance per la vittoria del sì non sarebbero affatto basse e con buoni argomenti.

Ma il referendum chiede altro e lo sforzo di giudicare nel merito va fatto fino in fondo. La riforma infatti non è nemmeno una separazione pura e semplice delle carriere dei magistrati, le cui funzioni sono da tempo già nettamente distinte. Prevede almeno altre due novità sulle quali si sorvola un po’ troppo: l’indebolimento, mediante divisione e umiliazione (il sorteggio), dell’organo che consente ai magistrati di autogovernarsi e dunque di mantenere l’indipendenza dal potere politico. E l’introduzione di una corte disciplinare («Alta», ma anche questa estratta a sorte) con lo stesso obiettivo di mortificare l’autonomia delle toghe. Le quali, va detto, talvolta sembrano ricordarsi della loro indipendenza più in occasione della discussione delle riforme che nella fase di ordinaria interpretazione della legge. Per esempio quando sotto gli occhi di procure e tribunali finisce la sorte dei più deboli, di chi è marginale o migrante, di chi non può permettersi una difesa all’altezza, di chi si trova contrapposto agli apparati dello Stato. Questo però non può essere un argomento per desiderare meno autonomia, casomai il contrario.

Perché c’è poco da fare, se con la riforma si separassero definitivamente i pubblici ministeri dai giudici non si realizzerebbe solo una premessa teorica del «giusto» processo – il quale ha tanti e tali fattori di crisi nel nostro paese che resterebbe comunque un pio desiderio, privato innanzitutto delle risorse per potersi realizzare (le riforme costituzionali si fanno perché a costo zero). Ma si costruirebbe una nuova classe di pubblici accusatori con nessun altro scopo che cercare prove per portare a processo ed, eventualmente, ottenere condanne. Una classe che molto presto ci troveremo persino a sperare che venga messa sotto il controllo del governo, com’è negli altri paesi dove c’è la separazione, altrimenti sarebbe del tutto irresponsabile. Un veloce ripasso sugli ultimi video della presidente del Consiglio e di mezzo governo che gridano al golpe ogni volta che un magistrato prende una decisione che spiace alla maggioranza o non esegue prontamente quanto decretato da palazzo Chigi spiega perché in Italia dobbiamo al contrario ancora difenderci dal rischio di una giustizia addomesticata al potere.

Con questa separazione delle carriere approvata definitivamente, il Pm diventerebbe il nemico professionale dei giudici e degli imputati, una figura del tutto fuori dall’orizzonte delle garanzie (quella che un tempo si chiamava la «cultura della giurisdizione»), più adatta a incarnare le virtù dell’accusatore non solo in tribunale ma anche fatalmente nel dibattito pubblico. Non c’è contraddizione nel fatto che la destra abbia un’attrazione fatale per questo genere di sceriffo con la toga e desideri renderlo la regola. Contraddizione sarebbe se un magistrato con queste attitudini dovesse diventare l’emblema della campagna del no. Eviteremo.

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