CAPITALISTI VIZIATI DAL TROPPO COMANDARE da IL MANIFESTO e IL FATTO
Capitalisti viziati dal troppo comandare
Salari depressi Oggi si celebra il lavoro ma negli altri giorni dell’anno la festa è solo dei padroni. Allo scoccare del primo quarto di secolo, la forma dell’attuale modo di produzione risulta […]
Emiliano Brancaccio 01/05/2025
Oggi si celebra il lavoro ma negli altri giorni dell’anno la festa è solo dei padroni.
Allo scoccare del primo quarto di secolo, la forma dell’attuale modo di produzione risulta più che mai chiara: un restaurato capitalismo di puro comando.
Dove la proprietà ordina e le lavoratrici e i lavoratori eseguono senza disturbare. Vale ora per tutti i subordinati, di diritto o di fatto, dagli operai agli ingegneri stipendiati, dai commessi alle finte partite Iva. E la medesima logica di comando pervade ormai pezzi rilevantissimi del settore pubblico. Basta chiedere a un precario della scuola a quale sudditanza sia costretto dal dirigente di turno.
Festeggiamo insomma il primo maggio in una ritornante bengodi dei proprietari e dei loro accoliti. Dai manager di vertice agli ultimi caporali, il loro dominio sul lavoro è oggi quasi del tutto libero da lacci e lacciuoli, normativi o sindacali che siano.
La restaurazione del comando capitalista sul lavoro è fenomeno mondiale, senza eccezioni. Ci sono tuttavia dei casi di scuola, più emblematici di altri. Tra questi, guarda caso, spicca l’Italia.
Primatista internazionale nel crollo degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’Ocse, il nostro paese è quello in cui il segno di una rinnovata soggezione di classe si avverte ancor più nitidamente che altrove.
Per i manuali americani che i colleghi economisti insegnano nelle nostre università, il liberato comando capitalista sul lavoro dovrebbe esser fonte di beatitudine economica per l’intera nazione.
La teoria economica prevalente, infatti, stabilisce che dove il capitalista domina la produttività e i salari prosperano.
Sul banco di prova dei dati, tuttavia, questa teoria ancora tanto amata dall’accademia trova riscontri avversi. Nello stesso periodo in cui la politica economica nazionale si accaniva contro i diritti del lavoro, gli andamenti della produttività, delle retribuzioni e delle condizioni generali di lavoro facevano registrare un netto deterioramento. Stando alle statistiche ufficiali, dall’inizio del secolo in Italia la produttività per ora lavorata è cresciuta di appena 2,7 punti e il potere d’acquisto delle retribuzioni è caduto di 5,4 punti. Anche dal punto di vista più estremo, quello dei morti sul lavoro, si avverte un relativo peggioramento: mentre negli anni del conflitto sindacale le vittime sul lavoro crollavano del cinquanta percento, dall’inizio di questo secolo assistiamo ad una inquietante tendenza verso la stabilizzazione del numero di morti.
In sintesi, coi lavoratori soggiogati, i proprietari hanno potuto accrescere i profitti semplicemente schiacciando i salari, senza bisogno di impegnarsi troppo ad accrescere l’efficienza produttiva e la sicurezza.
In Italia il fenomeno è particolarmente vistoso, ma a ben vedere si tratta di una regolarità empirica confermata a livello internazionale. Uno studio di Fontanari e Palumbo pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking mostra che anche negli Stati uniti la “debolezza” del lavoro favorisce un regime di accumulazione caratterizzato da bassa produttività. Quel capitalismo straccione che dalle nostre parti viene tanto vezzeggiato, sotto condizioni favorevoli mette radici anche nelle realtà economiche più avanzate del mondo.
Ecco così squadernato l’esito della vertigine del comando: più i lavoratori sono atterriti dagli schiocchi di frusta, più i padroni diventano parassiti capaci solo di frustare. Al crescere della libertà di comando del capitalista, diminuisce proporzionalmente l’efficienza del suo capitale.
Un tempo queste “leggi” materiali di funzionamento del sistema facevano parte del patrimonio di conoscenze dell’intera collettività. Il più delle volte, spettava ai comunisti spiegarle ai liberali, ai conservatori, persino ai fascisti. Con l’evaporazione dei primi, non resta che scegliere tra le variegate ideologie degli altri. Tutte, in un modo o nell’altro, a trattare la libertà del capitale come cosa sacra e inviolabile. E a nascondere la sua mefitica eterogenesi dei fini.
Finché saranno liberi di spargere degrado, i padroni continueranno a festeggiare. Togliere dalle loro mani le bottiglie di champagne: un degno proposito per modernizzare le celebrazioni del primo maggio.
La campagna Cgil: i danni della legge di Renzi in numeri
Salvatore Cannavò 1 Maggio 2025
Più Precari, più infortuni, meno salari e più povertà
La narrazione di Giorgia Meloni per il 1º maggio viene smontata dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, che ieri ha presentato lo studio su “Precarietà e bassi salari” a cura della Fondazione Di Vittorio. Nel mirino non solo la questione salari, ma ovviamente il Jobs Act su cui si voterà nel referendum dell’8 e del 9 giugno.
“Dopo il Jobs Act è aumentata la precarietà, sono aumentati i part-time e i contratti a termine”, ha detto Landini mentre sui salari che sono “indecenti, contratti che non si rinnovano, pensiamo a tutti quelli del settore pubblico, dove la controparte è il governo e dove stanno proponendo aumenti del 6% quando l’inflazione è del 17%”. Temi che si legano alla questione della precarietà e agli infortuni sul lavoro. Secondo i dati diffusi ieri su 18,8 milioni di dipendenti occupati nel 2024, “13,5 milioni sono ‘standard’, a tempo indeterminato e a tempo pieno e 2,5 milioni sono a tempo indeterminato e part-time”. Il peso degli occupati “standard” sul totale è passato dal 78 al 72% del 2024 mentre considerando tutto il lavoro “non standard” (a tempo determinato e part-time) “si passa dal 22% del 2004 al 28% del 2024. Quasi il 30% degli occupati dipendenti in Italia è a termine o part-time”. Da notare che “fatto 100 il numero dei laureati con lavoro a termine nel 2004, nel 2024 si è raggiunto il valore di 227”.
Non va meglio sui salari. “Tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti di 9 punti percentuali” mentre in Francia e Germania si sono avuti incrementi rispettivamente del 14% e del 5%. Frutto di un cambiamento strutturale dell’occupazione italiana, spostata verso i servizi a basso valore aggiunto, intaccata da contratti a tempo, dilaniata dall’inflazione e non protetta dai mancati rinnovi contrattuali. Si è così diffuso anche il “lavoro povero”: “Circa il 10% dei dipendenti stabili di età compresa tra i 25 e 59 anni si trovava tra il 2009 e il 2019 in una condizione di povertà lavorativa”. L’introduzione del Jobs Act, infine, nel 2015, coincide con l’arresto del calo degli infortuni sul lavoro che, dopo la pandemia del 2020, aumentano per arrivare nel 2023 a 470 mila.
L’analisi costituisce una base di riferimento per la campagna referendaria che da oggi, 1º Maggio, entrerà nel vivo. Si tratterà di far conoscere i quattro quesiti lavorativi che chiedono di abrogare le norme che liberalizzano i contratti di lavoro, impediscono il reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa (che vengono solo indennizzati), facilitano i licenziamenti nelle piccole imprese lasciando al giudice la facoltà di stabilire l’indennizzo e limitano i controlli sulla sicurezza non estendendo la responsabilità, in caso di subappalti, all’impresa appaltante. A questi si aggiunge quello sulla cittadinanza italiana agli stranieri il cui periodo di attesa verrebbe ridotto da 10 a 5 anni.
Il Primo maggio unitario di Cgil, Cisl e Uil, si svolgerà all’insegna di “Uniti per un lavoro sicuro”. Landini interverrà a Roma ai Fori imperiali, la segretaria Cisl Daniela Fumarola a Casteldaccia in provincia di Palermo mentre il segretario Uil, Pierpaolo Bombardieri, a Montemurlo in provincia di Prato.
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