UN VECCHIO ERRORE da 18BRUMAIO BLOG
un vecchio errore
Olympe de Gouges domenica 5 giugno 2022
Posso portare osservazioni pratiche contro questo vecchio errore, secondo cui l’inflazione ha a che fare con i salari. Per esempio, vi sono settori produttivi di certi Paesi dove il lavoro è relativamente ben pagato e però battono tutte le altre nazioni per il prezzo conveniente dei loro prodotti; viceversa vi sono settori produttivi dove il lavoro è pagato male (penso all’agricoltura italiana) e però il prezzo dei loro prodotti è elevato. Paradossalmente in media il lavoro pagato male produce le merci care.
Basterebbero esempi empirici come questi per provare che i prezzi delle merci non sono determinati dai prezzi del lavoro, e dunque per ridicolizzare vecchi errori e ideologie. La tesi secondo cui è il costo della forza-lavoro a determinare l’aumento di prezzo delle merci è falsa e non mi sorprende sia fatta propria dalla Federal Reserve. Mi sorprenderebbe il contrario, così come mi stupirebbe se riuscissero per una volta a ricondurre i fenomeni evocati a una legge economica qualunque.
La Confindustria italiana cavalcò questo leit-motiv per lustri tra gli anni Settanta e Ottanta, pronta di nuovo al bisogno, ovviamente. In realtà la scarsa competitività di quell’epoca era determinata in via principale dalla scarsa quantità e qualità degli investimenti e dell’innovazione. Fu la Fiat (proprio la Fiat!) a dimostrare, dalla fine degli anni Settanta e per un decennio, che innovando modelli e tecnologie produttive, dunque aumentando la produttività del lavoro, si poteva diventare competitivi su ogni mercato.
Se poi sostituisci una testa fine come quella di Ghidella con quella di un burocrate non puoi aspettarti i medesimi frutti, per non parlare di Agnelli che in testa aveva una cosa sola. Da parte loro gli economisti non hanno mai dimostrato troppi scrupoli logici, e questa semplice constatazione spiega i loro inesausti fallimenti teorici.
Fu abolita la scala mobile che in qualche modo proteggeva i salari dall’inflazione. In realtà, bloccando i salari si sopperiva alla bassa competitività media dell’industria italiana dovuta, come detto, in via principale alla scarsa quantità e qualità degli investimenti e dell’innovazione. Ieri come oggi e così sia.
Se fosse vero che sono i salari a determinare il valore di una merce (questo significa dire che l’inflazione ha a che fare col prezzo della forza-lavoro), in tal modo i salari diventerebbero la misura generale e il regolatore del valore. Questi “filosofi” non fanno altro che determinare un valore per mezzo di un altro valore che, a sua volta, ha bisogno di essere determinato.
Si baloccano nella tautologia: il valore è determinato dal valore! Ciò significa, in realtà, che della formazione del valore non sanno niente. Eppure basterebbe prendersi la briga di leggere non Marx, per carità, troppo “astratto” per dirla con quello scemo di Piketty, bensì Ricardo, per scoprire che nella sua opera sui Principi dell’economia politica, pubblicata nel 1817, distruggeva dalle fondamenta la vecchia dottrina falsa e fallita secondo la quale “i salari determinano i prezzi”.
Dirò più semplicemente: i salari di fatto sono misurati dai prezzi delle merci per le quali essi sono spesi, anche se ancora oggi molti salariati sono indotti a credere che apparteniamo, padroni e servitori, a uno stesso demi-monde d’indifferenziati vantaggi edonistici.
Insomma, in quale modo l’aumento dei salari potrebbe esercitare un’influenza sui prezzi delle merci? Influendo sul rapporto concreto tra la domanda e l’offerta delle merci; ma ciò creerebbe un turbamento temporaneo del mercato e senza alcuna variazione durevole nel prezzo delle merci.
Piuttosto è d’uopo chiedersi perché oggi i pescherecci non escono in mare e il pesce locale sia più raro e costoso del caviale russo. Stesso discorso per altre tipologie merceologiche, come frutta e verdura, dati i costi energetici delle serre, per i fertilizzanti, per il trasporto, eccetera. Sono i prezzi delle materie prime, specie degli idrocarburi, a determinare i rincari di tutti gli altri prodotti.
Più in generale le fluttuazioni della domanda e dell’offerta, il valore della moneta in cui è espresso il valore dei prodotti, la costante e massiccia offerta di moneta M2, le diverse fasi del ciclo industriale, cioè le quantità di capitale e di lavoro impiegati, l’allargamento dei mercati, l’oligopolio, la speculazione e altre cose così. Possiamo mettere nella torta come bignè anche pandemie e guerre.
Gli economisti, che in generale sono le aspasie del padronato (non ha alcun rilievo ne siano consapevoli o meno), non a caso per quanto riguarda l’inflazione prendono in considerazione prevalentemente i mutamenti dei salari, quasi trascurando gli altri mutamenti dai quali essi derivano. In realtà l’aumento dei salari è la conseguenza di mutamenti precedenti, come reazione della forza-lavoro contro una precedente azione del capitale.
Vi sarebbe invece una questione che meriterebbe di essere affrontata: il capitale punta continuamente ad aumentare la produttività del lavoro, cioè a diminuire il tempo di lavoro necessario per unità di prodotto (i valori d’uso sono prodotti in quantità maggiori del valore in essi contenuto). Ciò si traduce in una tendenza generale alla diminuzione di valore delle merci (salari reali compresi). Pertanto a lungo termine viene a stabilirsi e a prevalere, rispetto a fattori antagonisti che possono esercitare un rialzo dei prezzi, una pressione deflazionistica o disinflazionistica sui prezzi sia delle materie prime e sia delle altre componenti il capitale costante (è stato così fino al 2020) …
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