UN FORTE IMPEGNO CONTRO LA DELOCALIZZAZIONE da IL MANIFESTO
Perché è decisivo combattere la delocalizzazione dilagante
Lavoro. Un forte impegno per contrastare un fenomeno ormai più che diffuso è necessario per migliorare le condizioni dei lavoratori sia del Sud che del Nord del mondoIgnazio Masulli 25.09.2021
Da decenni la delocalizzazione produttiva in Paesi a basso costo di manodopera costituisce l’arma più potente di ricatto e sfruttamento del lavoro anche nei Paesi più sviluppati. Il fenomeno ha raggiunto proporzioni insospettate da gran parte dell’opinione pubblica.
Nel 2019 lo stock di investimenti all’estero dai maggiori Stati europei ha raggiunto il 28 % del Pil in Italia, il 46 % in Germania, il 56% in Francia e addirittura il 67% in Gran Bretagna. Perfino negli Usa, pur fortemente attrattori di capitali, la somma degli investimenti all’estero nel 2019 è stata del 36% del Pil.
A delocalizzazioni tanto massicce corrisponde il venir meno di posti di lavoro potenziali in proporzioni altrettanto consistenti. Agli stock sopra indicati corrispondono circa 2,616 milioni di occupati mancanti in Italia, 7,770 milioni in Germania, 6,087 milioni in Francia, 8,790 milioni in Gran Bretagna e 22,684 milioni negli Usa (calcoli basati sulla legge di Okun).
Né può consolare l’ipotesi che i lavoratori dei Paesi meno sviluppati hanno tratto vantaggio dal fenomeno. Infatti il super-sfruttamento del loro lavoro, accompagnato all’arretratezza delle condizioni di vita sono i maggiori fattori attrattivi di capitali dall’estero. Del resto il permanere di questo stato di cose è testimoniato dai flussi migratori provenienti dalle macro-regioni più arretrate d’Asia, Africa e America Latina, mete di delocalizzazioni.
Sicché un forte impegno per contrastare il fenomeno è necessario per migliorare le condizioni dei lavoratori sia del Sud che del Nord del mondo.
E per quanto riguarda i Paesi del Nord, è del tutto ingannevole l’argomento che troppo spesso si sente ripetere, secondo il quale una politica di deciso ostacolo alla delocalizzazione negli Stati dove hanno sede le multinazionali, avrebbe come effetto lo scoraggiamento di investimenti provenienti da altri Paesi. Infatti i fattori che muovono investimenti dall’estero nei Paesi più sviluppati sono completamente diversi dall’impiego di manodopera a basso o bassissimo costo, assenza di vincoli ambientali ed altre facilitazioni riscontrabili in stretta connessione con condizioni di arretratezza e sottosviluppo.
Gli obiettivi degli investimenti provenienti dagli altri Stati economicamente e tecnologicamente più sviluppati mirano piuttosto a rafforzare partenariati ed alleanze interne al blocco di potere tardo capitalista. E a tale scopo obbediscono alla stessa logica contingente, utilitaria e irresponsabile che ha provocato gli squilibri ecologici, demografici e sociali divenuti insostenibili per tutti gli abitanti della Terra.
Anche la delocalizzazione è strumento di quegli obiettivi ed obbedisce alla medesima logica. Per questo non si può non dico correggerla, ma nemmeno affrontarla con pseudo-riforme del tutto consentanee agli interessi che la dettano.
In questo, come in altri casi, occorre porsi in una prospettiva affatto diversa. È necessario mettere mano a politiche economiche e sociali di lungo respiro che abbiano di mira programmi produttivi rispondenti ai bisogni generali delle popolazioni. Politiche che si basino su una valorizzazione del lavoro, non solo in termini economici, ma di definizione dei rapporti sociali, nonché tali da consentire la piena espressione della volontà e intelligenza delle persone. Politiche capaci di affermare una nuova universalità dei diritti in nome e per conto di tutto il popolo mondo.
Si tratta insomma di una prospettiva completamente antitetica a strumenti di mero e prepotente profitto come la delocalizzazione.
Delocalizzazioni: il mainstream e la lotta operaia
Nuova Finanza pubblica. La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
Dopo la maestosa, oceanica manifestazione del 18 settembre a Firenze in favore della Gkn, cui è seguita una sentenza che condanna i vertici dell’azienda per comportamento antisindacale, conviene riflettere su un aspetto strutturale della vertenza che non si limita ad essa, ma investe l’intero mondo del lavoro italiano – se non globale: le delocalizzazioni. Con tale termine si intende lo spostamento dei siti produttivi verso altri paesi, solitamente per il costo del lavoro più basso e tutele sociali più esigue, lasciando dietro di sé disoccupati ed umori abbastanza cupi.
Ed infatti tanti hanno cercato di accreditarsi come oppositori alle delocalizzazioni; per rimanere negli ultimi anni, l’allora ministro Calenda nel 2017 dette indicazioni al suo ministero di subordinare gli incentivi statali al permanere sul territorio, pena la immediata decadenza di essi.
Nello stesso senso va una proposta legislativa dell’on. Ruotolo diretta a potenziare le sanzioni dissuasive previste dal “decreto Dignità” per chi ha incassato i soldi di Stato e poi scappa. Analogo contrasto alle delocalizzazioni era il contenuto di una proposta di legge (A.C. 4361) dei deputati leghisti, primi firmatari Fedriga e Giorgetti del marzo 2017. Dopo lo scoppio del caso Gkn a luglio scorso è stato annunciato un decreto del ministro Orlando cofirmato dalla viceministra del MISE A. Todde; la bozza resa pubblica, che appare piuttosto esile, ha però suscitato le ire di Bonomi, che lo ha bollato come “propaganda anti-imprese”, seguito a ruota da Il Riformista e Libero.
Che un testo così timido possa venir considerato vessatorio e punitivo, tanto da scoraggiare gli investimenti, può essere considerato un segno dei tempi in cui la libertà d’impresa viene considerata assoluta e intoccabile. Ma vale la pena di capire come si collochi nel pensiero dominante. Per esso, infatti, l’economia è un sistema basato su equilibri fra soggetti volti che cercano di massimizzare il proprio interesse, rispetto ai quali l’autorità pubblica deve rivestire il ruolo di facilitatore. Per cui la caduta delle frontiere rispetto ai flussi di merci e capitali è un elemento indiscutibile per creare l’ecosistema aziendale ideale.
Se restiamo in questa prospettiva è chiaro che l’interesse datoriale è, legittimamente, quello di cercare il contesto più favorevole tanto per vendere quanto per produrre: da qui la spinta alla libera circolazione dei capitali – che fa parte dell’essenza della Ue, in quanto prevista dai trattati fondamentali. Per cui l’esigenza di tenere capitali e aziende sul territorio non può che consumarsi a suon di incentivi e sanzioni: i primi più graditi a posizioni filo-imprenditoriali, le seconde più gradite ad aree più critiche dei processi capitalistici; tutti i testi citati in precedenza vanno chi più in una direzione, chi più nell’altra.
Ma è un contrasto limitato ad influire sulla scelta utilitaristica di profitto, cercando di far pendere la bilancia da una parte mettendo pesi e pesi sull’altro piatto. Gli otto punti approvati dalla assemblea permanente dei lavoratori Gkn, stilati da un gruppo di giuristi simpatetici con tale lotta indicano un’altra prospettiva: l’intervento statale non come facilitatore dei processi di mercato, ma volto a creare concretamente e direttamente le condizioni di tutela dei livelli occupazionali; l’interesse imprenditoriale resta ma all’interno di un processo più ampio di mediazione che ha per finalità ultimativa i diritti ed il bene comune.
Processo che deve includere i lavoratori stessi, al di là di ogni tecnicizzazione (il cercare una qualche soluzione al di là degli attori sociali coinvolti). Ma il conflitto sociale come strumento di costruzione di una tale dialettica è al centro della stessa Costituzione. In ogni caso la libera circolazione dei capitali in nessun modo può essere coerente con tale quadro. In una maniera o nell’altra dovrà finire.
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