PROBLEMA, ANALISI, SOLUZIONE da IL MANIFESTO
DA PREDE A PREDATORI: CI SIAMO EVOLUTI IN UN CONTESTO IN CUI NON DOVEVAMO INTERROGARCI SUI LIMITI DELLE RISORSE, PENSANDO DI POTERCI ESPANDERE ALL’INFINITO.
Riscaldamento globale e capitalismo
Non solo clima. L’allarmante delusione della Cop26 ha una spiegazione difficile da ammettere per molti, ma ineludibile: il riscaldamento della superficie terrestre è lo squilibrio estremo e fatale prodotto dallo sviluppo capitalista
L’allarmante delusione della Cop26 ha una spiegazione difficile da ammettere per molti, ma ineludibile: il riscaldamento della superficie terrestre è lo squilibrio estremo e fatale prodotto dallo sviluppo capitalista. Ciò vanifica ogni tentativo di soluzione finché esso dominerà il sistema-mondo.
Nell’ultimo cinquantennio il capitalismo si è esteso in varie modalità e misure nei contesti più diversi. Ma tale estensione ha acutizzato alcune sue contraddizioni di fondo.
La principale consiste nello sfruttamento, sempre più sfrenato, delle risorse naturali. A questo sfruttamento si è accompagnata la sopraffazione degli Stati più industrializzati su quelli in via di sviluppo, tanto più quando ricchi di materie prime. Infatti i primi impongono ai secondi sia i prezzi delle materie prime, in quanto hanno i mezzi per trasformarle, sia dei prodotti della trasformazione di cui i secondi necessitano.
Tutto ciò ha reso sempre più agevole il saccheggio delle risorse del sottosuolo e del suolo di molti Stati del Sud del mondo. E, al tempo stesso, li ha spinti a puntare prevalentemente sull’esportazione delle loro materie prime, a cominciare dai combustibili fossili, che oggi provvedono all’85%, del fabbisogno energetico mondiale. Beninteso, giacimenti di combustibili fossili non mancano negli Stati più industrializzati del Nord, Ma, da un lato, soprattutto Usa ed europei, hanno già largamente prelevato dalle proprie riserve. Dall’altro, il fabbisogno energetico non fa che crescere per alimentare una mega-macchina in continua espansione. Negli ultimi decenni è aumenta notevolmente anche la domanda di altri minerali impiegati nelle nuove tecnologie per usi civili e militari, e concorrono non poco all’inquinamento. Senza dimenticare metano e protossido d’azoto, emessi specie da agricoltura e allevamento industriale.
A questa si è intrecciata la seconda contraddizione tipica del capitalismo: la determinazione di diseguaglianze crescenti, vuoi tra Paesi di maggiore o minore sviluppo, vuoi all’interno degli uni e degli altri. Ed anche questo acutizza i motivi di contrasto e antagonismo.
La terza contraddizione deriva dalla competizione sempre più accentuata tra Stati. Un carattere distintivo della competizione inter-capitalista che si è ulteriormente accentuato nella globalizzazione.
Tali contraddizioni sono emerse con tutta evidenza alla Cop26 e ne spiegano il fallimento. I governanti ivi convenuti sanno bene che oggi il riscaldamento globale ha superato 1,2°C e che è necessario contenerlo entro 1,5° entro il 2030 per evitare il rischio di superare i 2°. Soglia oltre la quale s’innescherebbe un meccanismo fatale per cui la Terra reagirebbe amplificando il riscaldamento e vanificando qualsiasi tentativo di abbattere le emissioni, con conseguenze catastrofiche. Eppure molti leader parlano di gradualismi nei tempi o parzialità d’impegni.
Di fronte a tale cecità dovrebbe esser chiaro, anche a chi non vuol vedere, che non si può arrestare il riscaldamento globale senza un cambiamento totale del sistema tuttora dominante.
Ad esso va contrapposta una cooperazione stretta e solidale, senza discriminazioni né competizioni di sorta. Una cooperazione del tutto paritaria e animata dalla più completa convergenza d’intenti. Solo una svolta di questa portata può salvarci dalla minaccia più distruttiva che incombe sul futuro della specie.
Il movimento attivo su questo fronte, per ampiezza e diffusione nel mondo, è del tutto inedito. Ma non può limitarsi alla denuncia, per quanto vigorosa. È necessario che i suoi militanti passino dalla protesta alla lotta. Per questo (come è accaduto altre volte nella storia dei movimenti di massa) occorre un’auto-organizzazione in grado di esercitare forti spinte dal basso e trovare nuove forme di conflittualità coerenti con i valori, i modelli sociali ed i comportamenti collettivi che si vogliono affermare.
Il messaggio è il mezzo, McLuhan addio
Ri-mediamo. La rubrica a cura di Vincenzo Vita
Il quarto rapporto Auditel-Censis presentato lo scorso 19 novembre (L’Italia multiscreen: dalla smart-tv allo schermo in tasca, così il Paese corre verso il digitale) è interessante e merita una lettura non solamente statistica.
Smart-tv e smartphone sono entrati in scena prepotentemente nella fruizione televisivi: 7 milioni e 300.000 persone con più di quattro anni guardano il video attraverso Internet, con un incremento del 24,6% rispetto al 2019. La pandemia ha pesato, certamente. Un elemento di mosaico complesso. Non è sufficiente il lockdown a spiegare ciò che è avvenuto. Il professore del Georgia Institute of Technology Jay David Bolter chiama il contesto in cui stiamo la plenitudine digitale. Una rottura di continuità.
In simile quadro, culture alte e culture basse si incrociano senza una precisa gerarchia e il consumo di flusso sovverte le logiche del palinsesto. Nella ridondanza degli apparecchi (gli schermi all’interno delle case sono 119 milioni e 400.000 e solo quelli classici superano i 43 milioni) si trasforma, però, la sintassi delle audience. La televisione resta centrale, ma cambiano le modalità di un consumo sempre più individualizzato e on demand. Ad esempio, 24 milioni di italiani scaricano film dalla rete e 24 milioni utilizzano le piattaforme, spesso a pagamento (+38,2% nel periodo considerato).
Naturalmente, non è tutto oro. Esiste una larga componente di popolazione (2 milioni e 300.000, il 9,8% del totale) non connessa e una parte dispone ormai solo della linea mobile. Ecco perché, anche prendendo il tema da tale aspetto, c’è uno straordinario bisogno di una rete pubblica a banda larga e ultralarga, in grado di favorire l’ingresso pieno nella società digitale senza discriminazioni territoriali o economiche.
Inoltre, almeno 6 milioni di televisori sono oggetti di antiquariato, non essendo compatibili con i nuovi standard di trasmissione.
Senza indurre a tentazioni apodittiche, il panorama odierno ci fa capire quanto sia avanzata una vera e propria ri-fondazione del modello generale: non è il mezzo a determinare il messaggio, bensì è quest’ultimo ad orientare modelli produttivi ed estetiche del messaggio. Già ora gli algoritmi provvedono a dettare le regole dell’offerta, sulla base della profilazione degli utenti e dei loro desideri espressi inconsapevolmente con i click o con i tasti del telecomando. Ma è il carattere cooperativo (consapevole o meno) tra chi fruisce e la fonte emittente a illuminare la tendenza.
Non è un caso se i vecchi gruppi cresciuti nell’età analogica sono in difficoltà, a partire da Rai e Mediaset non egemoni ancorché sempre forti.
La stessa conclamata tecnica digitale, diventata un’evocazione ossessiva nel dibattito pubblico, scricchiola di fronte alla progressione impressionante della fisica quantistica e dell’intelligenza artificiale.
La televisione, in quanto regina dei media cede il passo ad un’aggregazione reticolare che in tempi brevi troverà misure e assetti certi.
Il rapporto di Auditel e Censis, dunque, ci interpella sull’urgenza di cambiare approcci, sentimenti e legislazioni. Al centro stanno i contenuti, veicolabili in mille modi. La libertà e l’indipendenza della creatività di chi li costruisce è il punto chiave della riflessione.
Si rende indispensabile un’attenzione inedita alle diverse culture che irradiano gli infiniti canali diffusivi, contro ogni omologazione.
Le tecniche, senza saperi che le guidino e una scienza democratica che le governi, possono rivelarsi un rischio enorme.
PS. Nella rubrica della scorsa settimana si scriveva che Google Ireland si era vista annullare da TAR del Lazio una delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che la sanzionava per aver agevolato con un suo specifico servizio forme improprie di pubblicità a scommesse e giochi d’azzardo.
La legge non è uguale per tutti, si era intitolato. Accidenti, altro che. In una sentenza coeva, sempre il tribunale amministrativo del Lazio ha respinto il ricorso per una vicenda analoga del sito Il Giunco.net Quotidiano on line della Maremma. Persino Marx non avrebbe pensato di avere così ragione.
Ricordare Lucio Magri, ma con lo sguardo rivolto in avanti
Il seminario di Rimini del 27/28 novembre 2021. Un dibattito e un confronto non chiusi nella nostalgia del «come eravamo», ma aperti al nuovo e alle sfide che la modernità racchiude: «l’attualità e l’urgenza della rivoluzione» invocate da Luciana Castellina hanno proprio questo significato, chiamando a confrontarsi con tutti quei temi che le analisi di Lucio Magri avevano colto in controluce nella loro fase di gestazione, nel frattempo assurte ad autentiche contraddizioni sistemiche
Ricordare Lucio Magri, ma con lo sguardo rivolto in avanti: è questa la cifra del convegno tenutosi a Rimini il 27 e 28 novembre. Nel quadro di una larghissima partecipazione, che ha visto le tante e i tanti militanti del manifesto e del PdUP mescolarsi ai cittadini riminesi incuriositi, quella tenutasi al museo civico della città non è stata una mera celebrazione, ma la prova della volontà di raccogliere l’eredità politica di Magri al fine di metterne a frutto categorie politiche e metodo d’indagine.
Un evento che forse smentisce uno dei timori, a dire di Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, che più assillarono gli ultimi anni della vita di Magri: ovvero, la paura di non essere riuscito a dotare la comunità del PdUP – a differenza di Lotta continua o Potere Operaio – di quell’orgoglio senza il quale la tutela di una storia e di un’identità risulta impossibile.
Un dibattito e un confronto non chiusi nella nostalgia del «come eravamo», ma aperti al nuovo e alle sfide che la modernità racchiude: «l’attualità e l’urgenza della rivoluzione» invocate da Luciana Castellina hanno proprio questo significato, chiamando a confrontarsi con tutti quei temi che le analisi di Lucio Magri avevano colto in controluce nella loro fase di gestazione, nel frattempo assurte ad autentiche contraddizioni sistemiche.
Come la questione ambientale, di cui già nel ‘74 Magri coglieva la portata e le capacità potenzialmente distruttive, e a cui Massimo Serafini ha dedicato gran parte del suo intervento, sottolineando la necessità di immergersi nei nuovi movimenti giovanili e ambientalisti, portando in dote quell’approccio vertenziale e progettuale indispensabile per far compiere al nuovo ecologismo un salto di qualità in senso politico. O il tema della disoccupazione tecnologica, che sempre l’intervento sulla qualità nuova della crisi metteva a fuoco, e che ha portato Alfonso Gianni a riflettere sulle caratteristiche di una manovra di politica economica orientata ad assorbire l’eccedenza di manodopera. O ancora: i processi di individualizzazione e corporativizzazione del corpo sociale – tema al centro della bozza di mozione congressuale alternativa scritta da Magri nel 1987 – a cui solo una riattualizzazione del tema di una democrazia consiliare, basata su un rapporto dialettico e produttivo tra partiti e partecipazione politica diffusa, può, secondo Luciana Castellina, offrire rimedio.
Come sottolineato però sia da Michele Mezza che da Vincenzo Vita, la tematica del potere e del controllo sociale non possono sperare di porsi all’altezza delle sfide presenti se non si ri-adeguano i loro termini e non si fanno i conti con il principale tra i fattori che regolano oggi tanto la produzione quanto la riproduzione sociale.
Sarebbe a dire l’algoritmo, autentico cervello sociale apparentemente impermeabile a qualsiasi pretesa di democratizzazione.
È evidente come tutte queste sfide necessitino di recuperare quella capacità analitica e progettuale che rappresentano la cifra principale della figura di Lucio Magri, tra gli ultimi esempi di politico-intellettuale, come sottolineato da Simone Oggionni nella sua relazione introduttiva. Un rigore metodologico e un’attitudine allo studio e all’analisi concreta della situazione concreta che ne avrebbero fatto, secondo le parole di Crucianelli, il «Gramsci della seconda metà del Novecento».
Che cosa, dunque, è ancora vivo e attuale del pensiero e della riflessione di Lucio Magri? Qual è la principale eredità di questo comunista eretico, in grado di far dialogare la tradizione comunista con l’eterodossia della scuola francofortese e con i nuovi bisogni espressi dal movimento del ‘68? Secondo Aldo Garzia, non c’è dubbio: la ricerca di una «terza via» in grado di rifondare complessivamente la sinistra e il movimento operaio. Una ricerca, quella di Magri, che forse può ancora oggi fornire qualche aiuto nella riformulazione di una sinistra che non voglia dismettere la carica trasformativa della tradizione comunista, ma che non sottovaluti neppure il contributo che può venire dalle esperienze più avanzate del socialismo europeo.
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