PERSONE PENSANTI, O STRUMENTI DI PRODUZIONE PARLANTI? da LA REPUBBLICA e TERZO GIORNALE
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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PERSONE PENSANTI, O STRUMENTI DI PRODUZIONE PARLANTI? da LA REPUBBLICA e TERZO GIORNALE

Intellettuali e potere

Lo scontro fra le culture non è ancora chiuso

Tiziana Drago, grecista all’Ateneo barese  

 Le critiche del ministro Cingolani sull’insegnamento della storia nelle scuole non sono solo una boutade, ma parte di un percorso lungo di attacchi ai mondi della ricerca e della formazione. Per la loro presunta e “colpevole” distanza dal mondo del lavoro Valorizzare i talenti che hanno trasformato le loro diverse abilità in forme d’arte e far emergere tutte quelle esperienze virtuose realizzate dalle associazioni pugliesi che operano in questo campo che, ogni giorno, permettono di abbattere barriere e pregiudizi.

In quello scritto formidabile che sono le Cinque memorie sull’istruzione pubblica (1791), il marchese di Condorcet sintetizzava con poche e affilate parole i termini del conflitto tra il potere e gli apologeti dello stato di cose esistente da un lato e l’esercizio della libertà nel campo del sapere e della vita pensante dall’altro: «In generale, qualsiasi potere, di qualunque natura esso sia, quali che siano le mani in cui è riposto e in qualunque maniera esso sia stato conferito, è naturalmente nemico dei lumi. Talvolta lo si vedrà adulare i talenti, quando questi si abbassano a divenire lo strumento dei suoi disegni o della sua vanita; ma chiunque farà professione di cercare la verità e di affermarla sarà sempre odioso a chi esercita l’autorità». L’oggetto del contendere, la vera posta in gioco — agli occhi dei philosophes — era l’autonomia di pensiero e di azione, la volontà di risalire «alle spalle delle regole» per interrogarne la ragione. Dai tempi di Condorcet, molto si è scritto sul deperimento della figura dell’intellettuale, del suo riconoscimento sociale, della sua capacità di intervenire per essere all’altezza del suo ruolo, fuori dagli specifici ambiti disciplinari, sui grandi temi della politica, dell’etica pubblica, sull’aridità degli specialismi e sulla riconversione utilitaristica e strumentale della conoscenza. E tanto si è lamentato sullo spazio, ormai residuale, occupato dai saperi umanistici (capaci di fornire uno strumento di elaborazione e di espressione di visioni del mondo) nella formazione scolastica e nell’area della cultura diffusa. È questo un discorso certamente fondato, ma insufficiente, venato com’è di nostalgia nel suo guardare prevalentemente indietro all’umanesimo come modello univoco di progresso e di emancipazione e a stratificazioni sociali superate, con poca o nessuna attenzione all’attuale composizione cognitiva del lavoro, in cui molte figure dell’intellettualità d’un tempo si sono dissolte e ridisegnate. Tuttavia, seppure il conflitto tra intellettuali e potere è tramontato nella forma della nobile tenzone tra i «lumi» e le vestali della tradizione, la «guerra all’intelligenza» (come sono state definite le politiche di «razionalizzazione» e controllo della ricerca, della formazione e dell’investimento culturale) è ben lontana dall’essersi conclusa. È dei giorni scorsi l’infelice esternazione del ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, secondo cui quello di cui si ha bisogno in Italia è «più cultura tecnica, a partire dalle scuole»; artefici del ritardo culturale di un Paese a basso contenuto tecnologico sono, nelle parole del ministro, le discipline storiche e umanistiche (le “guerre puniche”, nella sineddoche adoperata): «Il problema è capire se continuiamo a fare tre, quattro volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola o se casomai le facciamo una volta sola ma cominciamo a impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata, un po’ più moderna a partire dalle lingue, dal digitale». Si potrebbe derubricare l’uscita del ministro come innocua boutade, se il discorso pubblico dominante non avesse imboccato il crinale modesto della riprovazione verso i perdigiorno della cultura e se, da decenni, le riforme dell’università e dell’intero comparto della formazione non procedessero secondo i principi del più feroce anti-intellettualismo, nell’inseguimento vano, e con risultati sempre più disastrosi, di un pragmatismo privo di ogni fondamento, di un «realismo» mai all’altezza della realtà. È questo il perverso filo conduttore degli innumerevoli attacchi rivolti all’intera articolazione del mondo della formazione e della ricerca, stigmatizzato nella sua colpevole distanza dalla “cultura del fare” e dal mercato del lavoro. Il presupposto, pacificamente acquisito, è che l’intero assetto della formazione vada orientato sulla domanda del mercato (quasi che scuola e università debbano mimare la realtà esterna e le sue prospettive di breve periodo). E così, lo schema dell’”importante” (la tecnica e le competenze “utili”) contrapposto al ‘superfluo’ (i saperi teorici, scientifici o umanistici che siano) continua a imperversare a tutt’oggi, nelle versioni più rozze e misere possibili: dal «Coding come Latino del Terzo Millennio» della forzista Aprea alla «formazione al lavoro» da introdurre sin dalla scuola primaria, secondo il ministro dell’Istruzione Bianchi. Quanta presa abbia questa semplificazione sul senso comune è innegabile: la mobilitazione della «gente semplice» contro i privilegi, reali o presunti, del mondo della cultura, ovvero la retorica intramontabile dell’«essenziale» sopraffatto dal «superfluo», del «semplice» annegato nel «complesso», dell’inganno implicito in ogni argomentazione troppo sottile o astratta. In realtà, un orizzonte povero e uniforme, senza storia e senza memoria, tutt’altro che neutro (semmai ideologicamente orientato), che ha introiettato il linguaggio ormai naturalizzato del management neoliberista forzosamente applicato ai curricula scolastici (profili di occupabilità, performance del sistema educativo, alternanza scuola-lavoro); se non è più tempo di consentire alle giovani generazioni il lusso dello studio, tanto vale che tutti i saperi si convertano, armi e bagagli, all’idolatria della professionalizzazione e si adoperino per fornire alle imprese manovalanza dequalificata e sottopagata. Non si tratta qui di voler escludere e sanzionare la possibilità di problematizzare l’orizzonte complesso della conoscenza: è senza dubbio vivificante ripensare i valori che si decide di trasmettere, attraverso le istituzioni scolastiche, alle generazioni successive. Né si vuole minimizzare il persistere di impermeabili ripartizioni disciplinari tra materie scientifiche e materie umanistiche, specchio di quella reciproca incomprensione tra le due culture che ha contribuito a condannare il nostro Paese ai margini del dibattito culturale internazionale. Per superare questa chiusura e recuperare almeno nelle intenzioni la straordinaria vitalità di un pensiero che si alimenta di una feconda integrazione tra saperi (da Galileo a Bertrand Russell) bisognerebbe almeno fornire la percezione di quanto fondante sia la componente teorica (ed estetica) nella creazione scientifica che non si traduca in mera tecnica strumentale. Di tutto questo varrebbe la pena parlare, e della necessità che scuola e università continuino a fornire anticorpi e freni anticonformistici alle mode, ricongiungendo le parole e i pensieri con quel desiderio di critica e di conoscenza che dagli ambiti specialistici possono ripartire ed estendersi alla complessità del mondo esterno. Non è, insomma, una questione di essere dentro o fuori il sistema produttivo del Paese, non lo è nell’università come non lo è nell’ambito vasto della formazione e della cultura. Il problema è come si sta, dentro o fuori il mercato, a quale prezzo e con quali risultati.

Le guerre puniche del ministro Cingolani

Il ministro della Transizione ecologica se la prende con lo studio della storia, cercando di far dimenticare la sua completa inadeguatezza rispetto al compito cruciale a cui dovrebbe attendere

 Enzo Scandurra   1 Dicembre 2021

Il ministro Cingolani non fa che sorprenderci con le sue bislacche esternazioni pubbliche, e ci stupisce addirittura con effetti speciali quando affronta il tema della riconversione ecologica. L’ultima esternazione riguarda lo studio, nelle scuole, delle guerre puniche, a suo giudizio troppe volte ripetuto nel corso degli anni. A che cosa serve, in un’epoca come la nostra, studiare così tanto la storia e mettere in secondo piano la conoscenza della tecnologia e dei suoi miracolosi risultati?

Questa, in sintesi, l’ultima di una lunga serie di “battute” del ministro a cui è stato affidato il compito di affrontare la questione del surriscaldamento climatico. Da “buon” tecnologo ed esperto di formazione scolastica fa capire che bisognerebbe mettere mano ai programmi scolastici e universitari per rendere minimi i contenuti umanistici a favore di quelli tecnologici: tendenza quest’ultima, già affermatasi da diversi anni nel nostro Paese, considerati i sempre più scarsi finanziamenti pubblici alle discipline umanistiche.

Qualche decennio fa alcuni docenti “resistenti” ancora si ostinavano a pensare che compito della scuola e dell’università fosse quello di produrre una conoscenza critica, di formare cittadini in grado di farsi una loro autonoma opinione sui fatti del mondo. Poi passò la linea che compito dell’istruzione è invece quello di creare persone adatte al mercato (da cui quella famigerata riforma del 3+2 di Luigi Berlinguer, coronata da un insuccesso di cui troppo poco si è discusso). In pochi anni questa visione si è affermata incontrastata su tutti i fronti, si è diffusa come una specie di epidemia a tal punto che qualsiasi altra visione critica è oggi considerata velleitaria, inutile, antistorica. Il Cingolani-pensiero non fa che ribadire questo cambio di paradigma e confermare il disastro democratico ed educativo certificato da autorevoli agenzie che si occupano della scuola e dell’università.

Cingolani afferma, in modi apparentemente persuasivi, che passare dai fossili alle energie rinnovabili costerebbe “bagni di sangue” e, dunque, tanto vale favorire alcune tecnologie che mitigherebbero l’emissione della CO2 lentamente, senza azzerarle. Peccato che il tempo a disposizione per evitare la catastrofe climatica non sia lui a deciderlo, ma è già stabilito dalle condizioni di degrado della biosfera. Da qui discendono, per esempio, le sue conclusioni sull’uso dell’energia nucleare tramite piccoli reattori e il seppellimento dell’anidride carbonica prodotta dalle industrie mediante la sua cattura e il pompaggio sotto la crosta terrestre (CCS). Questo in sintesi il passaggio “morbido” della riconversione ecologica.

Naturalmente Cingolani non si fa scrupolo nel deridere le posizioni di Greta Thunberg e dei movimenti ambientalisti, chiedendo loro cosa proporrebbero in alternativa, come se fosse compito dei ragazzi e non del governo definire proposte precise e realizzabili in tempi rapidi. Il ministro si vanta di avere un atteggiamento “realista” rispetto alle “utopie” avanzate da chi lotta per una svolta realmente ecologica sul piano economico, produttivo, sociale e perfino personale. Così “realiste” sono le sue proposte che incontrano il favore di compagnie come Oil&Gas, Eni, Enel e altre ancora decise a produrre energia in quantità illimitata tramite l’uso dei fossili: petrolio, gas e carbone, alla base del sistema energetico che ha prodotto la rivoluzione industriale (vedi il caso della centrale elettrica di Civitavecchia).

Ma al dinamico ministro non basta farsi beffe dei movimenti in difesa del clima; non gli basta neppure far coincidere la propria visione ecologista con quella delle grandi compagnie produttrici di energia basata sui fossili. Pretende di inserire le proprie soluzioni all’interno di una cornice ideologica tecnocratica che ha per obiettivo anche la proposta di programmi scolastici finalizzati alla sua visione. L’astuto ministro lo fa in nome del mercato e di una concezione del tutto personale di una presunta modernizzazione.

I mass media e i talk show sono dalla sua parte. Certo è facile – afferma il ministro – parlare di annunciati disastri dovuti al cambiamento climatico, più difficile è contestare i suoi presunti scenari di “bagni di sangue” qualora si imboccasse la strada indicata dai movimenti ambientalisti. Dunque le sue soluzioni tecnologiche sarebbero le sole realisticamente praticabili, così come quando la Thatcher affermava che non c’era altra alternativa a questo modello di produzione e di vita su questo pianeta.

Di realistico c’è che la strada intrapresa ci sta portando verso un sicuro disastro ecologico (vedi gli scarsi risultati a cui si è giunti a Glasgow il mese scorso). Per la prima volta gli ecosistemi di supporto alla vita sono gravemente minacciati e danneggiati, la biodiversità del pianeta si impoverisce. La stessa sindemia che colpisce ormai la specie umana è una prova di come questo modello accelerato di produzione (disboscamenti, allevamenti intensivi, monocolture) produce inaspettati feed-back irreversibili, tanto da far pensare, per la prima volta nella storia, che è in gioco la stessa sopravvivenza della specie umana. “Bagni di sangue” ci aspettano realmente se la transizione ecologica non si realizza nel più breve tempo possibile. E ormai gli obiettivi di Parigi, di contenimento dell’aumento di temperatura, sono stati definitivamente superati.

Gli scenari presenti e futuri sono già tracciati: incendi di intere regioni e foreste, uragani, alluvioni e siccità sempre più frequenti; desertificazione e sterilità dei suoli; crisi idriche; scomparsa sempre più rapida di ghiacciai e calotte polari con conseguente aumento del livello dei mari, riduzione della biodiversità e con essa anche della produzione agricola. Tutto questo per il fantasioso ministro non sarebbe “realistico”, e dunque sarebbe meglio andare coi piedi di piombo con la transizione, e soprattutto non pestarli alle grandi compagnie che usano i fossili come base della produzione di energia.

Passino pure le sue sciocchezze sulle guerre puniche e l’insegnamento della storia, delle quali non si può dire certo esperto, ma il ministro della finzione ecologica (fortemente voluto da Beppe Grillo) non fa che sparlare di proposte e soluzioni che poco hanno a che vedere con una vera transizione ecologica: dagli inceneritori, al “nucleare ragionevole” (ignorando che ci sono stati ben due referendum che lo hanno bocciato), alla fusione nucleare, alla cattura e sepoltura sotto la crosta terrestre della CO2 prodotta (così come si rischia che avvenga nello stabilimento di Ravenna), alla produzione di idrogeno blu (sempre utilizzando i fossili), alle auto elettriche per la cui produzione di batterie si rischia di realizzare altri disastri territoriali (l’estrazione di metalli rari nell’Africa o nei bassi fondali degli oceani), alle piattaforme di prelievo dai fondali marini di altri fossili in perfetta continuità col passato.

Indifferente a criticare l’attuale modello di sviluppo, egli bada piuttosto a non toccare i privilegi dei ricchi (auto di lusso, yacht) e dell’intero establishment. I veri “bagni di sangue”, paventati dal ministro, avverranno prima di tutto tra i poveri se si continua ad affidare a persone come lui la questione urgente della riconversione ecologica.

Al termine di questo articolo vorrei ricordare le parole profetiche di Lucio Magri del 1973: “Si pone così, per pressione delle cose e non per accademia o passione ideologica, un interrogativo: ciò a cui stiamo per molti segni approssimandoci, è una delle diverse crisi storiche al di là delle quali il modo di produzione capitalistico è rinato dalle proprie ceneri con volto nuovo e inattesa vitalità, oppure segna il limite estremo oltre il quale uno sviluppo capitalistico è impossibile, nel senso che si identifica immediatamente e senza residui in regresso e in catastrofe”. E ancora: “I nostri riformisti non vanno tanto per il sottile, a loro basta che un’idea, approssimativa, sia credibile all’ingrosso, come strumento e copertura immediata di un’operazione politica, poi si vedrà. Tocca così, come spesso accade, a chi al riformismo non crede, analizzarne più a fondo la coerenza e la dinamica, per prevedere i processi reali che esso può innestare, e utilizzarli ad altro fine”.

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