LA SOCIETÀ ANESTETIZZATA È MALATA, DEPRESSA, IMPULSIVA da IL MANIFESTO
La frontiera politica della nostra mente
TEMPI PRESENTI. «La miseria simbolica», l’opera in due volumi di Bernard Stiegler, per Meltemi. In «L’epoca iperindustriale» e «La catastrofe del sensibile» si identificano l’arte e l’estetica come antidoti alla scomparsa di una sfera allo stesso tempo individuale e pubblica. Di fronte all’attuale processo di digitalizzazione estrema come preservare l’espressione dei desideri? Ci si interroga su come salvare il potenziale della memoria esternalizzata, automatica e meccanica da un sistema capitalistico e tecnico poco interessato alla specificità umana
Teresa Numerico 31/03/2022
Leggere Bernard Stiegler è come trovarsi in mezzo a onde impressionanti. Per farcela bisogna esercitarsi sulla tavola da surf. Non è impresa facile, ma quando si arriva a terra ci si trova di fronte a una visione eccitante e travolgente, pure se indicibile. L’ultimo suo libro pubblicato in Italia è La miseria simbolica (volume 1, L’epoca iperindustriale, pp. 164, euro 16; volume 2, La catastrofe del sensibile, pp. 226, euro 18, Meltemi), con la notevole traduzione di Rossella Corda, che ha pure introdotto i saggi. I testi riuniti furono pubblicati in francese tra il 2004 e il 2005 e rappresentano uno dei tanti sforzi teorici di questo filosofo della tecnologia scomparso prematuramente a 68 anni, nell’estate dello scorso anno. Il tema di questo dittico è la costruzione della sensibilità, in tutta la sua complessità antropologica, artistica e politica. Si parte dal presente, da sempre al centro dell’attenzione dell’autore.
CHE SUCCEDE A SENSAZIONE e immaginazione quando interviene la società iperindustriale che le assoggetta, sottoponendole alla logica del capitale? È per spiegare questo processo che Stiegler ricostruisce la genealogia antropologica dell’essere umano, mostrando come la sua struttura fisica e psichica siano strettamente connesse con i meccanismi di grammatizzazione, cioè con il processo di esternalizzazione delle capacità e delle potenzialità umane, attraverso metodi progressivi di discretizzazione e standardizzazione.
Il passaggio tecnico alla scrittura alfabetica conduce, in Occidente, a fasi di esternalizzazione della memoria che individuano forme di soggettività psichica e collettiva. Per Stiegler non solo la lingua è rideterminata dalla scrittura, ma anche i corpi singoli e collettivi con i loro movimenti sono rideterminati dalla relazione con gli oggetti tecnici, dalla selce scheggiata, ai sistemi di registrazione di immagini e suoni – le cosiddette ritenzioni terziarie. La grammatizzazione alfabetica della scrittura sarebbe, quindi, solo uno dei fenomeni di ominazione tecnica che introduce e convive con tre strutture interconnesse: l’ambiente tecnico, quello sociale e quello psichico che si fronteggiano, contribuendo a far coesistere la soggettività collettiva in un contesto metastabile, cioè in equilibrio costantemente precario. Inoltre, durante questi spostamenti progressivi organici e tecnici alcune potenzialità di individuazione vanno perse, e lo stesso capita alla sensibilità e all’immaginazione: sono oggetto di una costante contesa politica rispetto alla loro ristrutturazione.
LE SOCIETÀ iperindustriali sembrano protendere verso il limite del processo di individuazione occidentale, che potrebbe causare la fine dell’Occidente, di quell’ambiente tecnico e psichico vincente, che dalla Grecia antica alla globalizzazione ha incarnato un governo socio-tecnico e culturale del mondo (o forse una sua colonizzazione, con conseguente soffocamento delle differenze?). La tecnica digitale, che appare il punto più alto e quello estremo dell’Occidente, tende ad annullare il potenziale di rideterminazione che permette la costruzione di nuove identità collettive e psichiche: una volta formalizzata la rappresentazione dei fruitori dei servizi internet, questi non possono più manifestare la loro alterità perché restano intrappolati nella previsione che si autoavvera, e sono privati di un avvenire imprevisto.
QUESTO È IL PUNTO di contatto che lega primo e secondo volume dell’opera, che si occupa della Catastrofe del sensibile. Come ricostruire un ambiente (milieu) che consenta di riattivare nuovi processi di individuazione? L’arte è il centro di questo secondo tomo. Il dialogo serrato con artisti come Beuys, Warhol e scienziati come Leroi-Gourhan e Freud serve a indagare una nuova espressività per reinternalizzare quelle funzioni che la tecnica ha esternalizzato. Come è possibile convivere con la dinamica di una trasformazione continua legata all’effetto protesico di questi potenti strumenti di memorizzazione che ci rendono quello che siamo, ma che rischiano di farci disimparare come società il saper fare e il saper vivere? Diventiamo tutti proletari perché non sappiamo come vivere e come intervenire sul mondo, perché dipendiamo da strumenti tecnici sui quali non abbiamo potere o controllo, ma che – a differenza dei precedenti – non riusciamo più a discernere, separandoli da noi mentre li usiamo. Ormai alcuni oggetti digitali sono estensioni della nostra soggettività.
Arte e antropologia sono connesse in quanto entrambe partecipano di una rifunzionalizzazione delle parti del corpo. Freud sostiene che la posizione eretta ci ha costretto a defunzionalizzare l’olfatto in quanto non potevamo più usarlo, una volta staccati da terra. Questa prima rimozione e rifunzionalizzazione si è accompagnata a una riorganizzazione della struttura genitale che nella stazione eretta è esposta – suggerisce Leroi-Gourhan. Nasce da questo il pudore e la sublimazione dei genitali attivata da un nuovo equilibrio funzionale indotto dalla neotenia, ciò che rende gli esseri umani così prematuri da aver bisogno di una lunga latenza. Tale stato di dipendenza necessaria e prolungata attiva la plasticità cerebrale, il gioco, il dinamismo dell’apprendimento costante, e permette così di riorganizzare la struttura del desiderio all’occorrenza, modificando l’assetto organologico e tecnico.
CON L’ABILITÀ DELLA MANO e la posizione eretta nasce, per esempio, l’istanza di costruire, cioè il lavoro che conduce a un nuovo equilibrio del piacere. La tesi di Stiegler è che l’economia libidinale non sarebbe relativa solo alla sublimazione della sessualità, ma più in generale al governo del desiderio che è plastico e dipende non solo dalla riorganizzazione funzionale del corpo, ma anche dagli oggetti tecnici che lo attivano. Si tratta di instaurare un nuovo equilibrio sociale e tecnico dell’economia libidinale, sublimata in oggetti che sostituiscono simbolicamente quello sessuale.
LA POLITICA DEL SIMBOLICO è quindi la lotta per l’egemonia su questa economia, con l’obiettivo di una costruzione collettiva del desiderio. Il rapporto tra corpo vivente e cose morte è oggetto costante di discernimento, funzione svolta dal cervello – o meglio dal sistema nervoso – un apparato che fa da cerniera tra dentro e fuori, tra corpo vivente sessuato e macchine che contengono le memorie morte che amplificano il potenziale di vita e di controllo del vivente. Tale memoria si conserva nell’inorganico e permette al vivente di usare tutte le risorse, anche passate, protendendole nel futuro. Ma queste macchine della memoria, come suggerisce già Platone nel Fedro, rifunzionalizzano il cervello stesso.
Tuttavia, la capacità cerebrale non è solo cognitiva e mnemonica, il cervello è anche la sede dell’inspiegato, dell’inconscio, dell’inatteso che costituisce la nostra singolarità e perciò determina il nostro desiderio. Il cervello è, quindi, una frontiera politica dove si gioca la partita di regolazione collettiva della metastabilità. Il rischio è la perdita della capacità di produrre e convivere con l’imprevisto, che invece è proprio della indeterminabile, inesplicabile singolarità del vivente, compreso quello umano.
AGIRE NELLA CONTINGENZA è una sfida politica, riguarda l’arte, ma più in generale, attiene alla possibilità di una struttura simbolica adatta all’espressione del sentire. Stiegler si interroga su come rifunzionalizzare il simbolico minacciato dalla cattura libidica esercitata da oggetti tecnici sempre più attraenti, ai fini di difendere l’equilibrio metastabile di quello che abbiamo ritenuto finora l’umano, senza perdere il potere della tecnica.
Come facciamo a usare il potenziale della memoria esternalizzata, automatica e meccanica senza che questa ci pieghi e ci determini adoperandoci, visto che è in mano a un sistema capitalistico iperindustriale, non troppo interessato a salvare la specificità umana? È difficile preservare la singolarità dei viventi sessuati umani che condividono un avvenire collettivo imprevedibile, eppure tendono a investire del loro desiderio gli oggetti tecnici, alienando da sé il proprio potenziale simbolico, restandone così deprivati e miseri. Non conosciamo le risposte a queste domande ma sappiamo che hanno a che fare con la politica delle sensazioni, espressa dagli organi interni ed esterni degli esseri umani.
Nessuno è invulnerabile al dolore altrui
MANIFESTO DELLA SALUTE MENTALE. Il documento, presentato online qualche giorno fa, intende recuperare le acquisizioni della legge 180, il pluralismo scientifico che per molti anni ha consentito un approccio alla sofferenza umanizzante e non tecnicistico e una civiltà della cura che aveva accantonato tutte le pratiche di contenzione violenta, oggi incredibilmente riammesse.
Sarantis Thanopulos 31/03/2022
Qualche giorno fa, è stato presentato alla stampa online il Manifesto della salute mentale, cui – oltre ai promotori – aderiscono esponenti della società civile, società scientifiche e associazioni di operatori del servizio pubblico e del terzo settore.
IL DOCUMENTO sottolinea la regressione culturale e politica nel modo con cui la Polis affronta la questione della sofferenza psichica. I muri manicomiali sono scomparsi, ma la linea di demarcazione tra «sani» e «malati» persiste nella sua immaterialità pervasiva. La separazione non è solo tra «noi» e «loro», ci attraversa internamente: divide, creando incomunicabilità, la parte di noi che sta bene dalla parte che sta male. Si pensa che la sedazione pura della sofferenza degli altri ci renda invulnerabili al loro dolore. In realtà, la «malattia mentale» sedata diventa malessere sordo, squallore esistenziale che avvelena la vita di tutti.
LA SOCIETÀ senza dolore, anestetizzata, è una società malata, depressa e impulsiva. Da una parte depriva i bambini e gli adolescenti dei loro spazi di esperienza; dall’altra, produce un malessere esistenziale vischioso e asintomatico che, degenerando nella sua solitudine, arriva a produrre automi contratti psichicamente, normotipi della quotidianità distratta da se stessa, che improvvisamente implodono/ esplodono spargendo la morte. La cura farmacologica del dolore dissociata dal lavoro psicoterapeutico (nei servizi pubblici le psicoterapie rappresentano un 6% delle cure erogate) e dal complesso lavoro dei inserimento socioculturale e lavorativo nella comunità in cui si vive, lascia inevasa la domanda di soggettivazione della propria esperienza e di rivendicazione del diritto dì cittadinanza (negato di fatto al soggetto che ha perso il suo posto nel mondo).
IL FARMACO È CHIAMATO a una funzione impropria rispetto alla sua reale capacità di alleviare, rendere tollerabile il dolore e il suo uso diventa abusivo e abusante. Nella misura in cui il modello biomedico che insegue questa prospettiva, incurante del dialogo con gli altri saperi, pretende di costituirsi anche come paradigma dei modi di prendere cura dei nostri sentimenti, diventa una pericolo per la libertà e per la democrazia.
Il rinnovamento della salute mentale nel Ssn, sin dalla riforma psichiatrica del 1978, che il Manifesto persegue, si fonda su pochi ma essenziali principi: senza un servizio pubblico ben funzionante l’intero sistema della cura psichica va in crisi; la persona sofferente deve essere presa in cura all’interno della comunità in cui vive; la terapia non è assistenza, ma un prendersi cura che include i desideri di operatori e soggetti sofferenti.
LO STRUMENTO della cura è l’equipe territoriale che ha un approccio multidisciplinare all’interno del quale le diverse professionalità e prospettive scientifiche dialogano e collaborano tra di loto e con le associazioni degli utenti e dei loro familiari.
Il progetto di un ripensamento della salute mentale (per potenziarla) non è un’operazione nostalgica. Intende, tuttavia, recuperare tutte le acquisizioni della legge 180, oggi largamente disattese, il pluralismo scientifico che per molti anni ha consentito un approccio alla sofferenza umanizzante e non tecnicistico e una civiltà della cura che aveva accantonato tutte le pratiche di contenzione violenta, oggi incredibilmente riammesse. Scuotere le coscienze è necessario per uscire dalla spersonalizzazione dei dispositivi terapeutici, ma, al tempo stesso, la validità dei trattamenti sotto il profilo della qualità della vita e la loro capacità di farsi carico del dialogo tra il singolo e la collettività, fanno respirare i sentimenti e i pensieri di tutti.
La formazione degli operatori deve essere eccellente: questo significa renderla più rigorosa e soprattutto intervenire sulla preparazione accademica, oggi molto influenzata da interessi di parte, da rendite di posizione poco scientifiche. Il sostegno reciproco tra le equipe territoriali e le comunità in cui esse lavorano è molto importante ed è il miglior modo per evitare di precipitare negli anfratti di una società malata. La cura della società, nell’ambito del servizio pubblico, non passa attraverso le linee guida di un astratto «benessere psicologico», una sorta di fitness psichica. Deve farsi carico delle situazioni concretamente e potenzialmente patogene, agendo in senso preventivo, ed è necessaria la collaborazione con prassi creative e saperi esterni alla salute mentale. La collaborazione sul piano clinico e della ricerca tra i dipartimenti della salute mentale, le università e le società scientifiche, alcune delle quali hanno attivato servizi di consultazione e di terapia rivolti al disagio sociale, è altrettanto necessaria.
*****
Il «Manifesto della salute mentale» vede fra i suoi promotori Angelo Barbato (Istituto farmacologico Mario Negri), Antonello D’Elia (Presidente della Psichiatria democratica), Pierluigi Politi (ordinario di Psichiatria, Università dì Pavia), Fabrizio Starace (Presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica), Sarantis Thanopulos (presidente della Società psicoanalitica italiana)
No Comments