IL TRUMAN SHOW DELLA POLITICA ESTERA ITALIANA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL TRUMAN SHOW DELLA POLITICA ESTERA ITALIANA da IL MANIFESTO

Il Truman Show della politica estera italiana

 

Alberto Negri  07.12.2021

La politica estera italiana è un Truman show, dove non c’è nulla di vero e siamo stati tutti adottati da un’emittente televisiva. Bastava ascoltare i discorsi in diretta tv del presidente del Consiglio Draghi e del ministro degli esteri Di Maio al Med, secondo i quali l’Italia si «batte per i diritti umani» del Mediterraneo.

Due giocolieri, neppure troppo abili, che in due ore di sproloqui riescono a non pronunciare mai i nomi di Giulio Regeni, di Patrick Zaki e di Al Sisi. I loro flessibili consiglieri dicono che lo fanno per non irritare ulteriormente il generale egiziano che già di malavoglia tollera la presenza degli avvocati al processo Zaki, di cui sapremo la sorte in queste ore.

Quale delicatezza per il macellaio golpista del Cairo, che tiene in carcere e ammazza gli oppositori.

L’Italia si batte così a bassa voce e in maniera talmente generica per i diritti umani perché in realtà è un Paese dalla coscienza sporca assai. All’Egitto vendiamo miliardi di euro di armamenti, quindi non bisogna disturbare il manovratore anche quando insulta le nostre istituzioni, dalla magistratura al Parlamento. Come se difendere i diritti umani precludesse dal fare affari: è difendendoli che ci si fa valere come interlocutori, ribadendo i propri ideali, posto che ne siano rimasti.

Ma subito dopo dai discorsi di Draghi e Di Maio capiamo perché la nostra politica estera è così vaga. I due ribadiscono che per la Palestina sono favorevoli alla soluzione «due popoli, due Stati».

Benissimo. Soltanto che si tratta di una formula arcaica visto che negli ultimi vent’anni gli insediamenti hanno ridotto il territorio dei palestinesi a dei bantustan che impediscono qualsiasi continuità territoriale a un eventuale Stato palestinese. Senza contare che gli Stati uniti con Trump hanno riconosciuto la sovranità israeliana sulla contesa Gerusalemme e sul Golan che farebbe parte della Siria. Il tutto contro ogni risoluzione delle Nazioni unite.

Ma degli insediamenti ebraici Draghi e Di Maio non parlano, come se fossero dettagli. L’ultimo boccone fagocitato da Israele è l’aeroporto arabo di Qalandiya a nord di Gerusalemme dove sorgeranno 9mila alloggi per gli israeliani. Come segnala Michele Giorgio sul manifesto, nelle scorse settimane 12 Stati europei, tra i quali l’Italia, avevano condannato la colonizzazione e ribadito lo status internazionale di Gerusalemme sancito dall’Onu.

Alle prese di posizione però non seguono mai passi concreti e l’Italia, soprattutto, non ha mai il coraggio di farlo per conto suo. Non sia mai che il governo di Tel Aviv si irriti come Al Sisi: anche agli israeliani vendiamo armi a tutto spiano.

Così aspettiamo che la Palestina, in agonia, muoia per conto suo, altro che due popoli e due Stati. Quando la politica estera italiana e anche noi ci sveglieremo dal Truman Show non ci sarà più e come il protagonista del film di Peter Weir potremo dire ai palestinesi la battuta tormentone del protagonista: «Casomai non vi rivedessi… buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!». Forse ormai solo la satira ci può salvare ma è l’arma cui ricorrono i popoli prigionieri.

Bisogna dire che nello sforzo diuturno per non avere una politica estera ci scegliamo gli alleati ideali per giustificare anche i nostri comportamenti. L’ultimo è Macron che con l’Italia ha firmato lo strombazzato Trattato del Quirinale con cui, secondo la nostra diplomazia, dovremmo seppellire il vulnus della Libia, quando i francesi decisero nel 2011 di bombardare in buona compagnia con la Nato, Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, per portarsi via la Libia.

Perché Macron oggi è il nostro alleato ideale? Viviamo in un’epoca in cui un leader può ordinare di fare a pezzi un giornalista, Jamal Khashoggi, e restare comunque un interlocutore accettabile. E così Macron è andato in Arabia Saudita a incontrare Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio di Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018. Eppure la stessa Cia aveva stabilito che il principe è un assassino: naturalmente senza che questo avesse alcuna conseguenza. Anzi. Si continua a fare affari con lui e a vendergli armi.

E per non farsi mancare nulla Macron, durante la sua visita nel Golfo, ha piazzato 90 caccia Rafale agli Emirati che avevano appena ottenuto le dimissioni in Libano del ministro dell’informazione libanese Kordahi, critico dei bombardamenti, da parte di emiratini e sauditi, contro i civili e gli Houthi in Yemen.

Qual è la lezione che possiamo trarre da quanto avviene in Egitto e nel Golfo?

La prima è che l’impunità trionfa e stiamo sotterrando davanti alle vite di Regeni, Khashoggi e Zaki (speriamo di no, speriamo almeno per lui una soluzione positiva) l’idea di giustizia.

La seconda è che gli alleati degli Usa e dell’Occidente possono assassinare chiunque – un ricercatore, un giornalista, un dissidente – senza pagare dazio, anzi li lasciamo prosperare.

E poi vorremo chiedere il conto dei diritti umani a Putin, a Xi Jinping e ad altre dozzine di autocrati e golpisti?

Egitto, la fine dello stato d’emergenza è fumo negli occhi

Diritti umani. Molti dei divieti che limitano o negano diritti fondamentali agli egiziani sono nascosti in numerose leggi al di fuori dello stato d’emergenza rimasto in vigore per 40 anni

Michele Giorgio  07.12.2021

Con un post su Facebook carico di enfasi, alla fine di ottobre il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi ha annunciato la fine dello stato d’emergenza in vigore nel paese da quarant’anni, con una pausa tra il 2012 e il 2017: «L’Egitto è diventato un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione. Quindi si è deciso di annullare la proroga dello stato di emergenza». Parole foriere, solo in apparenza, di una nuova era. E invece non ci sono motivi per essere ottimisti. Solo chi si ostina a non vedere può credere che gli apparati di sicurezza egiziani cesseranno di eseguire arresti di massa e incarcerare senza processo i detenuti, di processare i civili nei tribunali militari, di reprimere con la forza manifestazioni e chiudere le organizzazioni della società civile in difesa dei diritti umani. Non deve ingannare l’apertura del nuovo complesso carcerario di Wadi al-Natroun, il più grande del paese, dove, assicurano fonti governative, saranno garantite la dignità e la qualità della vita dei detenuti.

Con l’abrogazione dello stato d’emergenza, l’Egitto non è tornato, e non tornerà sotto l’attuale regime, allo stato di diritto in cui i cittadini saranno rispettati da polizia e intelligence, giudicati in tribunali normali e non speciali e godere di ampie tutele. E non saranno liberati i prigionieri politici che a migliaia affollano le carceri. Peraltro, non è passato inosservato l’aumento, nelle settimane precedenti all’annuncio di El Sisi, di arresti e detenzioni per i reati d’opinione – quelli che il regime considera «reati di terrorismo» – in modo che potessero rientrare temporalmente ancora nella legislazione speciale. In ogni caso la maggior parte dei divieti e delle sanzioni sono nascosti all’interno di un numero infinito di leggi, oltre a derivare dallo status speciale di cui godono le Forze armate.

Le leggi che limitano l’attività delle ong per i diritti umani sono state emanate al di fuori del quadro dello stato di emergenza e restano in vigore. Queste ong saranno ancora costrette a richiedere il permesso di operare alla Direzione generale dell’intelligence, al ministero dell’interno e, se tutto andrà bene, dovranno aspettare mesi o forse anni prima di poter svolgere il loro lavoro di monitoraggio. I mezzi d’informazione oggi non solo più liberi e tutelati di due mesi fa e i giornalisti continueranno ad autocensurarsi per non dover partecipare alla tanto temuta «conversazione telefonica amichevole» con funzionari degli apparati di sicurezza.

«Dal colpo di stato militare del luglio 2013, il governo ha emesso dozzine di leggi che devono essere emendate o abrogate. Altrimenti, la revoca dello stato di emergenza migliorerà poco o nulla», spiega Amr Magdi, ricercatore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch. Da quando El Sisi è al potere, ricorda Magdi, il governo ha introdotto dozzine di leggi che conferiscono alle forze di sicurezza poteri eccezionali. Come la legge anti-protesta del 2013 che vieta quasi tutte le forme di raduni pacifici e che ha portato all’arresto e al perseguimento di migliaia di persone. La legge per la lotta al terrorismo, del 2015, considera un reato anche la disobbedienza civile ed è stata usata in abbondanza per reprimere il dissenso pacifico e mettere a tacere chi critica il regime di El Sisi. Restano in vigore gli emendamenti del 2013 al codice di procedura penale che consentono la custodia cautelare virtualmente indefinita dei sospetti e che hanno aggiunto altre migliaia di persone, rinchiuse senza processo, alla massa dei detenuti politici.

L’abrogazione dello stato d’emergenza è solo fumo negli occhi, un mezzo per evitare sanzioni all’Egitto per la violazione dei diritti umani, come i 130 milioni di dollari in aiuti congelati dagli Stati uniti. Ma è anche se non soprattutto un alibi per Usa, membri dell’Ue e altri paesi per continuare a fornire sostegno militare, economico e politico al Cairo nonostante i crimini che commettono i suoi apparati di sicurezza. Il presidente Usa Joe Biden e altri leader, chiede Human Rights Watch, non dovrebbero incontrare El Sisi in assenza di progressi significativi nel rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, e non accontentarsi della revoca dello stato di emergenza.

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