IL BELPAESE e IL DESTINO CINICO E BARO da IL MANIFESTO
Il Belpaese come sempre diviso tra italiani «luigini» e «contadini»
Scenari. Il 37.8% arriva alla scuola media, il 28% degli adulti è «analfabeta di ritorno», metà della popolazione fa lavori manuali e un quarto lavori precari. E chi nasce povero resterà povero
Pier Giorgio Ardeni 08.12.2021
Se il panorama sul Paese fosse quello che un casuale visitatore straniero – di ritorno dopo molti anni – intravedesse dai titoli dei quotidiani di questi giorni decembrini, egli potrebbe passeggiare soddisfatto. Un’Italia in cammino, sotto la guida di un governo «autorevole», di nuovo «locomotiva d’Europa». Ma una lettura appena più attenta di giornali, televisioni e canali web guasterebbe subito la giornata al nostro viaggiatore: stupito, ne avvertirebbe la pochezza culturale e la mediocrità.
LA LANCIA IN RESTA di commentatori e «opinionisti», sempre forbita di offese palesi e intimidazioni, lo farebbe forse trasalire. E riconoscerebbe nei Serra, nei Feltri, nei Gramellini, con le sue «invasioni barbariche», il segno di un Paese che non è più quello d’un tempo. Ma, rivedrebbe altresì nella «mano forte» di norme governative inusitate il segno di qualcosa che, forse, fa parte del patrimonio genetico di questa nazione.
QUEST’ITALIA DI OGGI è forse la prova che anche la storia può tornare indietro. Non la tabula rasa di un cataclisma, non il crollo di una civiltà come fu quello minoico rovesciato dai popoli del mare. Piuttosto, il fermarsi, lasciando andare «in malora» ciò che non funziona, come mettendosi di lato sulla corsia d’emergenza aspettando il carro-attrezzi.
Come quando i barbari invasero la penisola, facendo crollare un impero già fiacco, allorché smisero di funzionare gli acquedotti e i calidari: non perché furono distrutti, ma perché la «macchina» organizzativa, operata dallo Stato, si interruppe.
IL «PROGRESSO» HA SMESSO di essere un traino unificante. Tra devastazione ambientale e emergenze pandemiche, abbiamo smesso di cullarlo come la segreta e sempre affidabile certezza che avrebbe portato un futuro migliore. Ora che anche il «futuro» si è usurato, percepiamo che il mondo attorno a noi si è fatto così fragile che siamo come in attesa che «ci crolli addosso». La ricchezza, il benessere, li vediamo da fuori brillare nelle vetrine di negozi nei quali, però, non tutti possiamo entrare. Ma abbiamo accettato che i felici pochi devono potere godersela anche per gli infelici molti, all’italiana, però. Che le disuguaglianze ci sono sempre state, tanto vale allora avere gli amici giusti. Studiare non serve, purtroppo – se proprio uno è un genio, che ci provi, ma poi non si lamenti se non riesce – che, da che mondo è mondo, dalle nostre parti è sempre contato di più l’entourage che non il talento.
Non sarà più, questo nostro Paese del XXI secolo, quello dei «luigini» e dei «contadini» di Carlo Levi, ma non è poi tanto diverso. I «contadini» – i lavoratori che devono sudarsela, gli intraprendenti, gli umili sottomessi, gli onesti operai e impiegati, finanche gli artigiani con le loro fabbrichette – sono pur sempre la maggioranza.
MA I «LUIGINI» – AMICI dei potenti, figli di buona famiglia, burocrati e canonici, furbi e «spregiudicati» – anche se minoranza, sono ancora lì, con le leve del potere sempre saldamente in mano, proprio come dovette ammettere il povero Ferruccio Parri. Tenendosi buoni quei contadini esausti che pur di sistemare la figlia ne avrebbero accettato il sopruso, secula seculorum. Illustri politologi guardano con orrore ai «no-vax», ai «terrapiattisti», ci fanno sapere che le «fake news» sono un’industria profittevole, ci dicono anche che c’è una «irrazionalità» diffusa. Additano le masse incolte che premono infette alle porte della cittadella del neutro sapere scientifico-tecnologico e della ricchezza condivisa. Non ci dicono, però – quei colti scrutatori del mondo – perché.
EPPURE, BASTEREBBE considerare che il 37.8% degli italiani non va oltre la scuola media, che il 28% degli adulti è «analfabeta di ritorno» e un altro 42% non riesce a elaborare un ragionamento complesso (dati Ocse). Che metà della nostra popolazione è dedita a lavori manuali, ripetitivi, puramente esecutivi. Che un quarto ha un lavoro precario o tira a campare. Che chi nasce povero resterà probabilmente povero. Che chi ha un salario basso a 20 anni, quello avrà a 50. Che chi ha genitori senza titolo di studio superiore, è molto probabile che farà lo stesso. Che anche chi è laureato ma ha il padre che è un onesto travet, non andrà da nessuna parte. Che c’era un mondo in cui alle «masse popolari» era data una prospettiva e che la politica si era incaricata di perseguirla. Che l’istruzione doveva essere strumento di emancipazione per i più. Che tutti dovevano partecipare al «gioco democratico», perché li avrebbe ripagati, che diritti e benefici sarebbero stati via via estesi a tutti.
POI, QUELLA CONVINZIONE è venuta meno, e con essa la fiducia. Il capitale si è mangiato tutto: risorse, diritti, natura. Si è voluto credere che la «crescita» sarebbe stata la marea che avrebbe sollevato tutte le barche, anche quelle bucate. Così, qualcuno è rimasto a galla, molti sono affondati, dando la colpa al «sistema». Finendo per non credere più a niente, tanto meno alla «scienza» che di quel sistema era stata il motore. C’erano partiti, sindacati, associazioni che facevano proseliti, promettendo agli esclusi di sempre che avrebbero sovvertito la storia. Ma anche loro si sono fatti incantare dai loro «luigini», tenendosi buono quel pavido «ceto medio» che non disturba, che visto che non si può accontentare tutti, che almeno quello sia preservato. E oggi guardano al sotterraneo mondo di milioni di «contadini» senza orizzonte come una schiumosa accozzaglia di barbari irrazionali.
* Professore di economia politica e dello sviluppo – Dipartimento di scienze economiche, Università di Bologna
La caduta libera dei tribuni mediali Del Debbio e Giordano
Ri-mediamo. La rubrica settimanale su televisione e dintorni. A cura di Vincenzo Vita
Si era sempre messo sotto le lenti della critica il rapporto proprietario che lega Mediaset al cavaliere di Arcore. Anzi. Per anni l’intreccio tra media e politica pareva aver mutato di segno proprio a fronte dell’utilizzo diretto da parte di Silvio Berlusconi delle sue reti televisive, assoggettate spesso ai voleri del re del conflitto di interessi.
La tradizionale dialettica tra poteri contigui ma diversi, talvolta impropriamente sovrapposti e pur sempre separati da una linea d’ombra, venne rovesciata dalla nota discesa in campo del 1994, con la fondazione di Forza Italia. La politica si faceva comunicazione e quest’ultima assumeva le sembianze della prima. Una sorta di switch off.
I videomessaggi sostituivano le interviste o i pastoncini addomesticati. Le luci volutamente esagerate e la scrivania di scena erano il set preferito.
Simile impostazione fu sì e no prevista dalle stessa «teoria ipodermica» immaginata tra le due guerre mondiali da uno dei capostipiti della ricerca Harold Lasswell, in base alla quale i messaggi -come con una puntura- entrano sotto la pelle delle persone, influenzandole. Il berlusconismo rappresentava l’epifania di quelle ipotesi, del resto connesse allo spirito e agli stili dei regimi autoritari. Simile approccio creò i suoi discepoli, da Renzi a Salvini (Grillo compreso), con il moltiplicatore dei social.
Sull’argomento si è detto e scritto molto, leccandosi le ferite, vista la costante inadeguatezza delle sinistre a competere su un terreno decisivo per la formazione dell’immaginario collettivo e del clima di opinione. Non si poteva prevedere, però, ciò che è successo nei giorni passati, ovvero l’annuncio della sospensione (almeno temporanea) di due programmi di Retequattro, Diritto e Rovescio e Fuori dal Coro. Rispettivamente condotti da Paolo Del Debbio e Mario Giordano. Lasciamo stare i giudizi di merito, fin troppo scontati. Ciò che fa impressione è la sfacciata ammissione che per la casa madre di Cologno monzese il palinsesto è una variabile dipendente dalle necessità del patron.
Si vocifera, infatti, che i due contenitori siano considerati troppo trasgressivi rispetto alla linea generale ora evocata, tesa a riverniciare di moderatismo buonista l’immagine di Berlusconi. Sullo sfondo c’è la vicenda delle elezioni del presidente della Repubblica, corsa cui si è iscritto con scarso senso del limite il succitato.
Le urla, gli strepiti tribunizi dei due conduttori usi a relegare le espressioni popolari a comparse utili per alzare la soglia acustica dei talk non sono – almeno transitoriamente- potabili per chi sogna il soglio quirinalizio. E poi, la storiaccia dei No Vax, assurti ad interlocuzione costante di narrazioni tenute ai confini tra la tragedia e l’avanspettacolo (con rispetto parlando). Insomma, il troppo è troppo, avrà pensato la corte del re.
Ma così la confessione del peccato originale è stata piena. Se, in un periodo che vede la tenuta e il successo del genere televisivo, si pensa di tagliare due trasmissioni del medesimo format, significa che lassù l’informazione era ed è intesa come forma di propaganda. Da utilizzare a mo’ di fisarmonica. Tra l’altro, Diritto e Rovescio ha raggiunto nel periodo tra il 9 settembre e il 2 dicembre scorsi il 5,8% di share, mentre Fuori dal Coro tra il 7/9 e il 30/11 ha toccato il 5,2%. Con una media di rete tra le 20,30 e le 22,30 del 4,2%. Nessun calo di ascolti, se mai il contrario.
Il sugo della storia, per citare i classici, è semplice e amaro: il conflitto di interessi, con l’abrogazione di fatto dell’autonomia dell’informazione bella o brutta che sia, è una ferita dura a sanarsi. Guai a considerare Berlusconi un anziano signore ormai riconquistato al tessuto democratico. Al contrario, il lupo non ha perso né il pelo né il vizio.
Si potrebbe obiettare che la sostanza prevale sull’accidente e che in fondo una diminuzione del martellamento sovranista-leghista-demagogico fa solo bene ad un pubblico già ridotto rispetto ai fasti della televisione generalista commerciale.
No. I principi vengono prima dei loro occasionali interpreti .
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