È IN GIOCO IL FUTURO DELLA COSTITUZIONE da iIL MANIFESTO e BLACKBLOG
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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È IN GIOCO IL FUTURO DELLA COSTITUZIONE da iIL MANIFESTO e BLACKBLOG

Presidenzialismo, perché è in gioco il futuro della Costituzione

La «riforma» chiama ad una modifica contestuale della forma di governo e di Stato, stravolgendo l’attuale assetto dei poteri nell’intento di fondare un’altra Repubblica

Gaetano Azzariti  20/09/2022

Sono tempi strani i nostri: se si parla in difesa della Costituzione si rischia di essere considerati «conservatori»; se ci si permette di criticare le riforme costituzionali, che possono essere peggiorative, si viene accusati di avere dei “preconcetti ideologici”. Persino l’antifascismo è diventato un “pregiudizio”. Per sfuggire a tutto ciò proviamo allora a svolgere alcune considerazioni di carattere rigorosamente empirico, dati di fatto difficilmente contestabili.

In questa prospettiva dovremmo partire da quanto è stato esplicitamente scritto nei programmi elettorali, oltre ad essere orgogliosamente rivendicato all’unisono da tutti i leader dei partiti della pur composita coalizione di destra che si accinge a governare. Presidenzialismo e autonomia differenziata delle regioni sono i due principali obiettivi politico-istituzionali che si vogliono raggiungere. Qualunque sia il giudizio nel merito, in ogni caso – si deve pragmaticamente dedurre – ci troviamo di fronte a due riforme che ci consegnerebbero ad un altro sistema rispetto a quello disegnato con la Costituzione repubblicana. Nessuno credo possa seriamente negare, infatti, che la modifica contestuale della forma di governo e della forma di Stato produca lo stravolgimento del nostro attuale assetto dei poteri e dunque, conseguentemente, esprima con nettezza la volontà di fondare un’altra Repubblica.

Almeno una conseguenza dovremmo allora trarla da questa situazione di fatto, dovremmo ammettere che la posta in gioco è il futuro della Costituzione. Chi si riconosce ancora nei valori della Costituzione è avvertito, domani non potremmo dire «non lo sapevo». In caso, dovremmo ammettere che, pur se eravamo consapevoli di quel che ci aspettava, non siamo stati in grado di impedirlo; sperando di non dover invece confessare che non abbiamo fatto nulla per evitarlo, neppure quel poco che potevamo fare.

Un approccio empirico può essere adottato anche per alcune considerazioni nel merito delle due proposte avanzate dalla destra. Limitiamoci per ora ad alcuni rapidi rilievi sul presidenzialismo.
Si dice: non è un male in sé. Ed in effetti, non si può che constatare che esistono forme di governo democratiche, diverse dalla nostra, che prevedono l’elezione diretta del Capo dello Stato. Gli Stati Uniti o la Francia sono gli esempi solitamente richiamati. Al pari, però, non può negarsi che esistono altri paesi in cui l’elezione popolare del Presidente è all’origine dei tratti autocratici di quei regimi, dall’Ungheria alla Russia. Dunque, sulla base dei fatti, deve ammettersi che il bene o il male del presidenzialismo dipende dal contesto (in realtà anche dalle diverse idee di democrazia, ma di queste abbiamo detto che qui non parliamo).

Ed è proprio guardando ai diversi contesti che si scorge qual è la condizione necessaria se si vuole evitare la degenerazione del presidenzialismo in autocrazia: l’esistenza di un forte equilibrio tra i diversi poteri, tra Governo e Parlamento in particolare.
In fondo si tratta della traduzione in concreto del sacro principio della divisione dei poteri e dei “checks and balances”.

L’osservazione dei fatti, dunque, dimostra come tutte le forme di governo presidenziali possono degenerare – a volte tragicamente – in mancanza di un tale solido presupposto, si pensi alle diverse situazioni nei paesi dell’America latina o nei paesi dell’est europeo. Ma si rifletta anche sulle difficoltà delle più consolidate forme di governo presidenziale. L’assalto a Capitol Hill ne rappresenta un segnale inquietante.

Allora la domanda che dovrebbero porsi tutti coloro che si vogliono attenere ai fatti è chiara: vogliamo correre il rischio di un presidenzialismo senza contrappesi? Una possibilità di degenerazione che deve essere considerata reale nel nostro Paese a causa dello stato di grave debolezza del Parlamento. Più in generale è la mancanza di forti contropoteri che rende “pericolosa” una scelta presidenzialista in Italia. Questo al di là di ogni ulteriore considerazione di principio o di natura propriamente politica, ma limitandoci a valutare unicamente gli equilibri istituzionali. In questa specifica prospettiva nessuno può seriamente equiparare il nostro organo legislativo al potentissimo Congresso statunitense, che non esita a bocciare tutte le richieste presidenziali non gradite. Nel nostro Paese un Parlamento debole, che già oggi si trova in condizione di minorità rispetto al Governo (vero dominus dei lavori parlamentari), finirebbe per indebolirsi ulteriormente, rischiando così di trovarsi al servizio di un despota democraticamente eletto. In un contesto del genere, prima di ogni altra cosa ci si dovrebbe chiedere se non sia più saggio cercare di far funzionare il Parlamento meglio di quanto non abbia sin qui fatto, razionalizzandone i lavori, i compiti e il ruolo. Perché di questo avremmo certamente un gran bisogno.

A queste considerazioni se ne deve aggiungere un’ulteriore, fondamentale nel contesto italiano che assegna alla presidenza della Repubblica il ruolo decisivo di garante politico della Costituzione. Un compito che si è rivelato sempre più spesso risolutivo, soprattutto nelle ricorrenti fasi di lacerante crisi del sistema politico. Ora, è un fatto che, qualunque sia la scelta sul tipo di presidenzialismo e gli effettivi poteri assegnati ai singoli organi costituzionali, un Presiedente eletto verrebbe trasformato nel titolare di poteri di governo, e non sarebbe più un garante. Dovremmo dunque rinunciare all’unico organo realmente autorevole di salvaguardia degli equilibri costituzionali attualmente operante. Non a caso si è fatto presente che subito dopo la riforma Mattarella dovrebbe dimettersi per lasciare il posto a ben altra figura, con poteri di tutt’altra natura. Possiamo permettercelo?

Neoliberismo e Statalizzazione
– di Miguel Amoròs – per la rivista Al Margen, n° 123, octobre  2022 – 

« Poiché lo Stato è il più grande nemico dell’umanità… e tutti coloro che vi si impantanano si confondono, attenzione! Rimanere sempre liberi, indipendenti, non tenere conti aperti con nessuno!»

( Benito Pérez Galdós, “Miau” – 1888 )

La questione della natura dello Stato contemporaneo e del suo attuale rapporto con l’economia capitalista, in una fase neoliberista avanzata e altamente infiammabile per tipo di crisi, appare essere di grande importanza ai fini di una chiarificazione teorica di una contestazione interna alle masse dominate. Un tale chiarimento rimane la condizione fondamentale di una loro emancipazione pratica. Alla luce di quanto affermato, vale la pena di formulare alcune considerazioni al riguardo.

Durante i periodi critici, lo Stato viene portato in trionfo. Se la recente crisi sanitaria ha messo in luce il suo ruolo fondamentale, assunto ai fini del controllo della popolazione e del parziale blocco dell’attività economica, senza che ci siano stati né scosse né contestazioni significative, le emergenze dovute al riscaldamento climatico del pianeta e all’attuale aumento dei prezzi dei carburanti non hanno fatto altro che ribadirlo. I meccanismi che sono stati messi in atto per garantire questo compito, hanno subito una trasformazione qualitativa: la digitalizzazione ha fatto passi da gigante, la comunicazione unidirezionale si è diffusa ovunque, e la manipolazione dell’informazione ha ogni limite, senza incontrare nessuna resistenza. Tutele legali e diritti sociali vengono gradualmente eliminati, nel mentre che simultaneamente l’apparato repressivo continua a rafforzarsi. Ciò che oggi viene chiamata democrazia, transizione ecologica, o sviluppo sostenibile non sono altro che maschere burlesche che non riescono a nascondere l’atmosfera autoritaria crescente e il primato anti-ecologico della finanza. Il potere reale è concentrato, centralizzato, nel mentre che le masse vengono private di qualsiasi capacità decisionale, rimanendo prive di ogni informazione oggettiva. Il dominio si deve confrontare con quella che è solo con una popolazione disinformata, e in gran parte rassegnata, che si aggrappa a qualsiasi ancora di salvezza il sistema voglia fornirle. In presenza di un popolo controllato e sottomesso, la statalizzazione della vita trova un semaforo verde che gli concede via libera per poter salire ancora qualche gradino. Come ha detto il conservatore Carl Schmitt, ciò che definisce lo Stato è proprio «la facoltà di poter disporre apertamente della vita degli uomini»; non sorprende quindi che, in questo mondo postmoderno, lo Stato penetri nel profondo dell’intimità. Per di più, la professionalizzazione della politica, insieme alla deplorevole spettacolarizzazione del suo esercizio, contribuisce in maniera considerevole alla perversione dell’attività pubblica, e alla disaffezione sociale. La tecnicizzazione fa lo stesso con la vita privata. La tecnologia è al giorno d’oggi una forza produttiva diretta. Paradossalmente, la dottrina neoliberista, dogma dell’alta borghesia manageriale, in ogni attività, ha elevato a livelli superiori quella che è la presenza quotidiana dello Stato. Contrariamente a tutti i postulati teorici, la globalizzazione finanziaria cammina di pari passo con lo statalismo. Il controllo globale delle risorse – la geopolitica – ha portato a un’accelerazione della militarizzazione e, di conseguenza, a un enorme rafforzamento burocratico dello Stato e a una concentrazione senza precedenti del potere decisionale. Dopo la Guerra del Golfo, le derive conflittuali evidenziano la tendenza bellico-statalista delle grandi potenze, e di conseguenza dell’intera schiera di tutta la compagine delle potenze minori.

La sicurezza di una vita privata dedicata al tempo libero, al consumo e al turismo – attività così tanto apprezzate dalle masse asservite – ora dipende ormai solo dall’interazione di tutta una serie di strategie di sicurezza su scala globale. Gli squilibri di potere determinati dalle crisi politiche internazionali, in un contesto di conflitti multipli ora richiedono un cambiamento nel rapporto tra società, Stati e mercati globali. L’autoritarismo, e quindi la burocratizzazione e la gerarchizzazione diventano necessari a tutti i livelli, dal momento che per preservare la sovranità dei mercati e salvare il commercio globale è ora necessario un salto di qualità in ciò che è la disciplina e il controllo della società. Se in tempi tranquilli, le istituzioni statali si sottomettono agli imperativi dell’economia, in tempi di crisi l’economia ha bisogno dell’intervento dello Stato, il quale diventa assolutamente necessario. Il rapporto tra Stato e Capitale sembra essersi invertito, ma non si tratta affatto del capitalismo di Stato descritto a suo tempo da Bruno Rizzi o da Friedrich Pollock, e neppure di un’ingerenza che rimane strettamente limitata all’attività economica, come veniva proposta a suo tempo da Keynes. Eccettuato il caso della Cina, i governi non assumono il ruolo del capitalista più potente, né tantomeno gli Stati sono il fattore economico più importante. Non esiste alcun partito unico onnipresente, e il gruppo dirigente del partito svolge solo un ruolo secondario, dal momento che le decisioni in genere non dipendono dai parlamenti. Nei sistemi partitici, i mercati non retrocedono (non subiscono neppure la pur minima alterazione), le corporazioni finanziarie mantengono le loro posizioni, e la proprietà pubblica non oltrepassa mai determinate barriere. Nessuna nazionalizzazione o monopolio. Siamo ben lontani dallo Stato-nazione del secolo scorso: ad aleggiare su tutto , è un’élite corporativa transnazionale. Lo Stato non controlla il denaro, il credito, gli investimenti o i profitti delle imprese. In breve, lo Stato non interferisce con il Capitale, ma obbedisce semplicemente ai suoi disegni. Tutt’al più, adotta alcune misure di bilancio, e controlla temporaneamente i prezzi degli alimenti di base e dell’energia, regola il consumo di alcuni prodotti e concede sussidi o decreta tasse straordinarie; ma tutto ciò senza modificare sostanzialmente le leggi economiche. In fondo, l’interesse generale che viene espresso nella dinamica statale non è altro che la fusione tra l’interesse privato della burocrazia politica e quello delle oligarchie finanziarie globali. Questa burocrazia non trasforma direttamente il proprio status e la propria posizione in strumenti di potere, come avveniva in passato nei sistemi totalitari e nelle dittature, ma si limita a utilizzare tali strumenti al fine di integrarsi in grandi aziende o nelle strutture parastatali, facendo uso di alcune porte girevoli. In Occidente, è l’economia a definire l’esercizio del potere e la relativa ricompensa, non il contrario.

Malgrado l’intensa propaganda svolta a suo favore, il liberalismo politico non corrisponde alle convinzioni della maggioranza dei leader mondiali, soprattutto di quelli dei Paesi colpiti dalle misure neoliberiste e di quelli che le ripudiano nei Paesi promotori, poiché, apertamente o meno, essi tendono a privilegiare la sussistenza e la crescita economica rispetto alla conservazione dell’apparenza della democrazia e della certezza del diritto. Per questi araldi del populismo, lo sviluppo nazionale è lo strumento migliore ai fini della stabilizzazione politica, e il modello cinese, assai spesso definito dai commentatori come «consenso di Pechino», rimane l’esempio ispiratore. In realtà, l’esperienza cinese suggerisce che la “modernizzazione” economica, e quindi l’integrazione nell’economia mondiale, è compatibile con un autoritarismo estremo, a condizione però che la burocrazia dominante sappia adattarsi agli “affari“, che operi secondo le regole del mercato e accetti di venire giudicata in base ai suoi risultati. Non importa quale sia il sistema politico. Il parlamentarismo può essere superato senza che venga sconvolta la stabilità interna, poiché ciò dipende più dalla crescita dell’economia che dalla riforma politica (cosa che costituiva già un assioma anche sotto il regime di Franco). Nonostante le disuguaglianze e le sacche di povertà, le classi dominate e controllate legano per lo più la loro prosperità materiale al sistema, di modo che ogni opposizione finisce per essere quasi una testimonianza. La classe dirigente cinese si è resa protagonista di una notevole crescita, indifferente alla situazione finanziaria del capitalismo occidentale, dimostrando la possibilità di una globalizzazione che preserva la sovranità statale, incoraggia il nazionalismo, esalta lo stile autoritario di governo e chiude un occhio sulla repressione. Tale modello esige un ruolo decisivo per il partito-stato, in quanto principale fornitore di risorse, principale finanziatore e attore dominante in alcuni settori considerati strategici come i trasporti, la sanità, le miniere e le comunicazioni. Il settore privato dell’economia cinese non è un settore insignificante, ma l’élite economica ivi generata è interessata a rafforzare il sistema cui appartiene e di cui beneficia, piuttosto che a cambiarlo. Qui, le porte girevoli si aprono sulla politica. Il controllo è essenziale, ma il partito unico opera in questo settore con comprovata efficacia. In poche parole, il modello cinese dimostra come il capitalismo possa funzionare perfettamente anche in mancanza di forme politiche rappresentative; e dimostra che il sistema dei partiti, nonostante la sua sudditanza ai dettami dell’economia e della geopolitica, rimane incollato ai regimi occidentali come se fosse un ornamento ereditato, piuttosto che uno strumento mediamente utile. In fin dei conti, le crisi hanno finito per stimolare un’involuzione autoritaria e di controllo in tutto il mondo capitalista. Il dispotismo è all’ordine del giorno. Nei Paesi con un’importante classe media, la sicurezza prevale sulla libertà. In tal modo, le misure di emergenza diventano pertanto sempre più numerose, e il ricondizionamento democratico diventa sempre più evidente. La tentazione cinese assilla la mentalità dominante, la quale vede le istituzioni politiche come un ostacolo allo sviluppo, e persino come un fattore di distruzione dell’economia. Di conseguenza, le porte sono state spalancate per far passare una futura epifania di sistemi dittatoriali più o meno colorati di nazionalismo.

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