DEMOCRAZIA, ECONOMIA, PARTITI, SOCIETÀ da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DEMOCRAZIA, ECONOMIA, PARTITI, SOCIETÀ da IL MANIFESTO

Democrazia ed economia, Draghi e la variante «doppia stagnazione»

La pandemia ha accelerato le dinamiche operanti dallo scoppio della crisi del 2008, nella quale siamo ancora immersi. E le classi dirigenti restano incapaci ad uscirne

Tommaso Nencioni  29.12.2021

Questo 2021 è stato senza dubbio l’anno di Draghi. Ma – lo ha fatto capire lo stesso Presidente del Consiglio nella conferenza stampa prenatalizia – a meno di un probabile ma non scontato sbocco quirinalizio della sua parabola politica, l’anno 2021 potrebbe rivelarsi il primo e l’ultimo di Draghi.

Il terreno sul quale si muove l’ex banchiere all’ingresso dell’ultimo anno di legislatura è scivoloso. Il rischio è che i partiti, fino ad ora poco propensi a dare segni di vita, comodi come stavano all’ombra del «governo dei migliori», alzino la testa all’improvviso, sentendosi in dovere di metter su alla bell’e meglio un canovaccio di scontro elettorale dopo aver convissuto l’ultimo anno anche troppo pacificamente (è curioso notare come i governi di grande coalizione siano molto meno rissosi di quelli «di parte», ennesimo segnale delle affinità elettive tra presunti schieramenti rivali).

In conferenza stampa Draghi ha mostrato il solito volto sprezzante verso le mire dei partiti, ma sereno verso i cittadini: il Recovery fund approvato mette il pilota automatico al Paese per i prossimi lustri, qualsiasi nuova maggioranza si formi in parlamento avrà compiti di ragioneria; tutt’al più, se la pandemia perdura, si potrà mimare un po’ di battaglia a favor di telecamere su vaccini e mascherine. Meglio se al Quirinale verrà issato l’artefice del capolavoro; ma, vada come vada, la missione è compiuta.
Che dal punto di vista di Draghi, della sua visione della società, degli interessi che lo hanno sostenuto in questo periodo, la missione sia compiuta, non c’è dubbio.

Rimangono però forti dubbi, nel corpo vivo del Paese, se non si trattasse invece di una missione impossibile da compiere. Perché la pandemia non ha fatto che accelerare dinamiche operanti ininterrottamente dallo scoppio della crisi del 2008, nella quale siamo ancora immersi. E quindi il dubbio c’è, e bello grosso, circa le capacità delle classi dirigenti di uscirne, stante la loro pervicacia nel voler mantenere intatto il quadro politico-istituzionale che l’ha prodotta.

Ci si impegna con sempre nuovi sotterfugi per garantire i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, vuoi svalutando sempre di più il lavoro (che cresce solo se precario e iper-sfruttato, pur in presenza di un timido rimbalzo del Pil), vuoi ampliando a favore dei grandi gruppi finanziari la sfera di ciò che è sottoposto alla disciplina del mercato (privatizzazione esplicita dei servizi pubblici e strisciante di sanità e pensioni). Si vorrebbe certo continuare in questa direzione conservando la vigenza o per lo meno la parvenza delle istituzioni liberali e rappresentative, ma guai (com’è successo ultimamente con lo sciopero generale di Cgil e Uil) se queste ultime rischiano di essere permeate da un minimo di conflitto redistributivo.

Sono ormai tre lustri, dallo scoppio della crisi, che le classi dirigenti si cimentano in questo gioco di equilibrismi. Non solo in Italia, ma in tutto l’arco euro-atlantico. In attesa del miracolo, uomini della provvidenza si avvicendano davanti ai parlamenti per poi rivelarsi, nel giro di poco, leader di cartapesta. Da Monti a Renzi, da noi ne abbiamo ampia esperienza, ma in tutte le democrazie parlamentari i governi cambiano a ritmi molto «italiani»; ed anche laddove sistemi istituzionali più verticistici mettono al riparo gli esecutivi da rischi repentini, questi vengono poi o rispediti al mittente alla prima tornata disponibile, o accompagnati nella loro riconferma da disinteresse e astensionismo.

In parte il fenomeno è dovuto al meccanismo mediatico che li insedia, e che deve però presentare in continuazione novità mirabolanti, ché altrimenti il fruitore dopo un po’ cambia canale. In parte il dato è strutturale: dalla crisi, che viaggia ormai verso la piena adolescenza, con questa architettura economica ed istituzionale non se ne esce. Stagnazione economica e stagnazione democratica si avviluppano in una mutua spinta verso il baratro, dalla quale si salvano solo poche oligarchie.

Per quanto nel nostro vocabolario e nel nostro senso comune la parola «crisi» rimandi ad uno stato momentaneo e provvisorio, la verità è che le classi dominanti nella crisi ci si trovano a loro perfetto agio. Senza spinta dal basso della società civile organizzata, cioè senza il conflitto, non se ne uscirà.

«Io dico – osservava Machiavelli – che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che e’ non considerino, come e’ sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro». A giudicare dalle reazioni alla proclamazione dello sciopero generale, anche a sinistra si è persa la memoria di questa grande lezione democratica. Eppure l’uscita della crisi sta nella sua attualizzazione, non certo nella riproposizione di ricette che da decenni producono, direbbe Machiavelli, «ruine».

La vittoria di Gabriel Boric e l’illusione centrista

Il Cile e l’Italia. La vittoria è stata costruita non solo attraverso il giusto mix di messaggi, ma soprattutto andando oltre la semplice mobilitazione individualistica a favore di un raccordo tra movimenti, corpi intermedi, associazioni e offerta politica, in chiave ideologica e pedagogica

Filippo Barbera  29.12.2021

La vittoria di Gabriel Boric alle presidenziali del Cile pone di fronte a due domande: a qualcuno interessa essere di sinistra? E se sì, cosa deve essere la sinistra? La vittoria è stata costruita grazie a una imponente capacità di mobilitazione popolare, focalizzata su un programma di sinistra e su scala nazionale. In Italia, la vittoria alla ultime amministrative si è realizzata senza questa capacità di mobilitazione, in assenza di un programma di sinistra e – per definizione – a un diverso livello di scala.

Pur con interessanti esperimenti rosso-verdi e in coalizione con nuove liste civiche, il centro-sinistra ha vinto con un programma a trazione centrista, grazie all’astensione dei ceti svantaggiati e delle periferie. È del tutto improbabile che questa dinamica possa riprodursi alle prossime elezioni politiche, dove i leader delle destre – e non la loro inconsistente classe dirigente locale – saranno in primo piano a urlare «prima gli italiani» e «giù le mani dalle nostre tasche».

Crogiolarsi sulle vittorie nelle città, poi, è miope: i governi locali non influenzano le grandi politiche di sistema di cui il paese ha enorme necessità, come fisco, scuola, territorio, mezzogiorno, infrastrutture, ambiente, innovazione, welfare. Le intenzioni di voto a livello nazionale lasciano, del resto, davvero poche speranze. Il sondaggio di Pagnoncelli pubblicato il 24/12 dal Corriere della Sera è impietoso: astensionisti e indecisi si attestano al 39,5% e una ipotetica coalizione di centro-destra con Lega, FdI e FI arriverebbe al 47,6% contro il 31,2% del centro-sinistra, che salirebbe al 40,1% con una alleanza giallorossa (senza Italia Viva). Una poco probabile (e auspicabile) coalizione che andasse da Sinistra italiana ad Azione registrerebbe un risicato pareggio con il centrodestra.

Numeri, questi ultimi, che non considerano gli effetti sottrattivi generati da un campo troppo largo, dove un elettore di Sinistra Italiana farebbe molta fatica a votare una coalizione che includesse Azione, e viceversa. In ogni caso, la forbice è davvero troppo ampia per poter essere chiusa senza che null’altro cambi. Il sostegno del PD a Draghi Presidente della Repubblica può essere letto in questo quadro: la boa a cui aggrapparsi quando lo tsunami delle elezioni politiche porterà al governo le destre.

Se questo è il quadro di sfondo, ci sono due opzioni. La pia illusione che la dinamica delle amministrative si riprodurrà a livello nazionale, oppure recuperare a sinistra parte di quel 40% di indecisi e astenuti, composto perlopiù da classe operaia disillusa, ceto medio-basso, disoccupati, poveri, meno istruiti, persone che vivono in centri abitati più piccoli rispetto alle grandi città, o nelle aree periferiche di queste, al sud rispetto al centro-nord e più giovani.

Persone che di fronte a un programma centrista preferirebbero l’astensione – come alle ultime amministrative – o il voto a destra. A quali condizioni, però, è possibile recuperare a sinistra l’astensionismo? Una prima risposta viene da una ricerca di Jacobin-YouGov «Commonsense Solidarity. How a Working-Class Coalition can be Built, and Maintained», che ha esaminato il comportamento di voto della classe operaia negli Stati Uniti. La ricerca mostra che gli elettori della classe operaia preferiscono i candidati progressisti che si focalizzano su questioni economiche di base e che le inquadrano in termini universalistici: lavoro, redditi, fiscalità e ricchezza. Contano cioè le basi materiali della vita economica, quelle che il centrosinistra ha troppo a lungo dimenticato.

Occorre, poi, indicare con chiarezza un avversario concreto, chiarendo contro chi si fa politica all’insegna del conflitto regolato. Le questioni identitarie e i diritti civili, inoltre, vanno sempre collegate a quadri più generali e mai giocate come carte jolly. Infine, la provenienza di classe dei candidati fa la differenza: gli elettori della classe operaia preferiscono candidati della classe operaia. Per questo, un partito che ha smesso di cooptare la propria classe dirigente tra gli strati medio-bassi della popolazione allontana sempre più il bacino degli indecisi/astenuti dal voto a sinistra.

Una seconda indicazione proviene proprio dalla vittoria di Gabriel Boric. La vittoria è stata costruita non solo attraverso il giusto mix di messaggi, ma soprattutto andando oltre la semplice mobilitazione individualistica a favore di un raccordo tra movimenti, corpi intermedi, associazioni e offerta politica, in chiave ideologica e pedagogica. Punto, questo, cruciale perché in quel 40% di astenuti e indecisi ci sono sì pulsioni di critica all’esistente, magari anche egualitarie e genericamente affini alla tradizione di sinistra, ma che sono spesso mischiate a concetti confusi, se non controversi.

Situazione, questa, che è il lascito del lungo addio al ruolo svolto dalle ideologie, dalle avanguardie politico-intellettuali e dal legame tra partiti e società, tutti elementi che hanno segnato la vittoria di Gabriel Boric in Cile.

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