“CONSUMATTORI” PER UN FEDERALISMO PRODUTTIVO ALTERNATIVO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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“CONSUMATTORI” PER UN FEDERALISMO PRODUTTIVO ALTERNATIVO da IL MANIFESTO

 

Transizione ecologica, il «che fare» non è dei governi ma dei movimenti

Alternative. Non c’è riconversione dall’alto, Cop 26 è fallita come tante altre. Ma basta sfiducia, immaginiamo un federalismo produttivo alternativo a partire dai punti di crisi e di lotta

Guido Viale  23.12.2021

Spesso, di fronte alla complessità della conversione ecologica – ormai all’ordine del giorno, seppure nelle più svariate versioni, sotto forma di «transizione» – si finisce per indicare «che cosa i governi dovrebbero fare»; e la risposta è quasi sempre: una politica economica che riallochi risorse finanziarie, materiali e umane per perseguire quell’obiettivo realmente e non per finta (cosa molto frequente) senza danneggiare la parte più vantaggiata della società.

È ciò che auspica anche Tonino Perna nell’articolo pubblicato sul manifesto il 17.12. Ma quelle politiche i governi non le realizzeranno mai, perché rispondono a logiche completamente diverse dalle loro. E noi (chi?), al governo, per fare quelle cose, non ci arriveremo mai, in tempo utile.
Analogamente, molti continuano a indicare che cosa dovrebbe fare la sinistra per mettere all’ordine del giorno una vera svolta; ma chi si rifà ancora a quel nome risponde ormai a logiche completamente diverse da chi gli vorrebbe fare da suggeritore. Ci sono sì movimenti, comitati, associazioni, lotte che si oppongono in vario modo allo stato di cose; ma nessuna delle organizzazioni che pretendono di rappresentarne le istanze ha poi avuto poi capacità o volontà di portarle avanti. È un meccanismo, in parte noto, in parte misterioso, che macina chi che cerca di promuovere cambiamenti radicali dall’alto.

Dunque, la transizione ecologica «dall’alto» non si farà; non in misura sufficiente a evitare la moltiplicazione dei disastri già in corso; non in egual misura in tutti i paesi (per tenere il passo, quelli più avanti dovrebbero compensare i ritardi di chi resta indietro); non coinvolgendo coloro che più di tutti dovrebbero esserne interessati. A un mese da Glasgow, possiamo senz’altro dire addio non solo alla soglia di 1,5°C, ma anche ai 2°C.
Allora bisogna arrendersi? Neanche per sogno. Molte misure di mitigazione del cambiamento climatico concorrono anche all’adattamento di una comunità alle condizioni ben più difficili verso cui ci spinge la crisi.

Per questo bisogna sforzarsi di immaginare (una facoltà che la politica ha dimenticato) il contesto in cui ci su verrà a trovare tra non molti anni; e le opportunità, e non solo gli ostacoli, a cui ci porrà difronte.

I punti di crisi degli attuali assetti sociali e produttivi sono quelli che impongono maggiormente un ripensamento: lo vediamo alla Gkn come nella rivolta contro i fossili di Civitavecchia. Sono situazioni che possono indurre ad atteggiamenti di rinuncia, ma anche spingere all’azione; a lottare per un vero cambiamento: quello che può rendere «socialmente accettabile» la conversione ecologica, come auspicava Alex Langer. Non si tratta di predicare (e praticare) un’austerità unidirezionale, come aveva proposto anni fa Berlinguer (che per altri versi ci aveva visto giusto); bensì di promuovere in forme organizzate una «sobrietà» (non chiamatela sacrificio. Sforziamoci per renderla desiderabile. Lo è.) che sposti la domanda, per ora solo locale, ma diffusa e da diffondere, dai consumi individuali, fonte di competizione e di insoddisfazione per chi vi accede sempre meno, a quelli condivisi; per creare uno sbocco alla conversione produttiva di impianti che il mercato sta destinando alla chiusura.

Certamente questo passaggio ha bisogno di una mediazione; innanzitutto, nel coinvolgimento dei governi locali – i Comuni – ma soprattutto degli enti erogatori di servizi pubblici locali che la privatizzazione sta sottraendo al loro controllo. Per trovare sbocchi alla produzione di pannelli solari, di pale eoliche di tutte le taglie, di autobus e van per la mobilità flessibile, di tubi per il rinnovo degli impianti idrici, di macchinari per la rinaturalizzazione dei territori, ecc. ci vuole un movimento per “riprendersi il Comune” e i suoi strumenti: le ex municipalizzate.

È questa l’unica strada per imporre con la lotta che siano quelli i veri centri di spesa della finanza destinata alla “transizione”. Solo così si può prospettare una svolta, non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa, della spesa pubblica. Certamente questa prospettiva non abbraccia tutto il globo, e nemmeno tutto il paese; potrebbe svilupparsi solo “a macchia di leopardo”, contando sulla replicabilità e la diffusione dei passi intrapresi.

Ma essa può mettere una comunità in grado di affrontare i tempi duri che verranno con l’aggravarsi della crisi climatica, ambientale e sanitaria: avere ancora energia (rinnovabile) da utilizzare, acqua pulita da bere, cibo (di prossimità) da mangiare, trasporti per spostarsi, scuole aperte, presidi sanitari diffusi e fabbriche in funzione; riducendo al minimo le sempre più fragili forniture intercontinentali della globalizzazione per promuovere, con aree più vicine e complementari, un vero «federalismo produttivo». Senza dover aspettare la riforma globale e “comunitaria” delle Nazioni Unite. Se ci sarà, ben venga!

Il lungo viaggio del «consumattore» per un’economia più sostenibile

 

Giuditta Pellegrini  23.12.2021

Molte cose sono cambiate da quando, nei primi anni ’90, in Italia iniziava l’esperienza delle prime Botteghe del Commercio Equo e Solidale, esperimento quasi unico per la sua organicità in Europa ed espressione di una fitta rete di soggetti della società civile che hanno iniziato a interrogarsi sulle modalità di costruire un’economia sostenibile sotto ogni punto di vista. È la fotografia di un percorso che emerge nitida dal libro edito da Altreconomia Consumi o scegli? Il potere della sostenibilità per cambiare l’economia, di Alessandro Franceschini, Presidente di Altromercato.

IL VOLUME E’ ARRICCHITO dai contributi di Massimo Acanfora, Elena Maria Scaramuzza, Paolo Iabichino, Marco Fazio, Cristiano Calvi, Sio e don Luigi Ciotti, che nella prefazione sottolinea come, se da una parte il movimento abbia visto un numero sempre crescente di persone consapevoli del potere del loro gesto al momento dell’acquisto, altri settori del mercato abbiano guadagnato terreno, come quello del fast fashion, uno dei più inquinanti e con minori tutele per chi vi è impiegato, espressione della tendenza ancora non appagata a un consumo dell’usa e getta.

«DIVENTA ALLORA fondamentale continuare ad avanzare su un doppio binario. Da una parte migliorando i nostri stili di vita, e provando a contagiare – in positivo – chi ci è più prossimo. E dall’altro non rinunciando a esercitare pressioni sul mondo dell’economia e della politica, a chiedere con forza regole più stringenti per i grandi operatori economici, incentivi per l’economia circolare e per le produzioni etiche, nuovi paradigmi di sviluppo che non lascino indietro nessuno», afferma il fondatore del Gruppo Abele e dell’Associazione Libera.

CON QUESTO LIBRO, Alessandro Franceschini ci conduce con intuizione e conoscenza in un viaggio nel mondo del consumo critico a partire dai suoi albori, in cui emerge la figura del consummattore, «chiamato a risvegliarsi dopo l’ubriacatura da campagne pubblicitarie degli anni Ottanta, dove – lo ricordiamo – prende piede la tv commerciale e dilaga una prospettiva di appagamento edonista legato all’acquisto», e l’affermarsi di una realtà sempre più articolata nelle esperienze dei Gruppi d’Acquisto Solidale, la finanza etica e le Botteghe.

FA DA SPECCHIO Altromercato, principale realtà del Commercio Equo e solidale in Italia e una delle maggiori nel mondo, a partire dalla necessità di ripensare se tessa in un panorama economico profondamente cambiato, in cui si fa avanti la selva di una sostenibilità spesso funzionale solo alle campagne di greenwashing della Grande Distribuzione Organizzata e il capitalismo della sorveglianza analizzato da Zuboff Shoshana, in cui la digitalizzazione permette, tra le altre cose, di inviare messaggi pubblicitari ad hoc in base alle nostre esperienze e relazioni.

IN QUESTO CONTESTO si rende necessaria una profonda riflessione sul modo in cui possono differenziarsi le realtà che invece sono «native sostenibili», cioè «che hanno fatto della sostenibilità sin da subito il tema centrale, e che ora si trovano in difficoltà rispetto a un rumore di fondo di soggetti dell’economia convenzionale che di fatto hanno usato gli stessi linguaggi per affermare pratiche non sempre rivoluzionarie. Il libro nasce dall’esigenza di riaffermare il dialogo con il consumatore, per entrare nel merito di come utilizzare le filiere perché siano veramente sostenibili», ha spiegato l’autore.

COME HANNO DIMOSTRATO le affollate piazze dei movimenti giovanili per la giustizia climatica, per esempio, mostrando nuove generazioni più esigenti verso il modello di produzione di ciò che consumiamo, l’attivismo in prima persona è ciò che fa sperare l’uscita dalla «passività digitale» in cui siamo immersi. E’ in questo quadro che si va delineando oggi la figura del consumattivista,«che scende nelle piazze fisiche e virtuali, che agisce nel concreto per cercare un cambiamento, che ci mette la faccia (e non solo sulla propria foto profilo)».

PERCHE’, COME FA NOTARE Alessandro Franceschini, «il rischio è che si avveri l’assunto del Gattopardo: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

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