IL PIANETA MALATO SI STA INARIDENDO da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL PIANETA MALATO SI STA INARIDENDO da IL MANIFESTO

Il Pianeta malato si sta inaridendo

Scenari 15 milioni di Km2 di terre aride e la desertificazione che avanza. A Riad una Cop16 per tentare di limitare i danni. Occorrono subito 2.600 miliardi di dollari.

Marinella Correggia  12/12/2024

Il deserto vero e proprio non bussa alle porte di casa, ma l’inaridimento delle terre sì. Il fenomeno è planetario, le terre degradate e aride si stanno espandendo, come sottolinea la Convenzione delle Nazioni unite per la lotta alla desertificazione (Unccd), la cui sedicesima Conferenza delle parti (Cop) è in corso nella capitale saudita Riad e si concluderà domani. Obiettivi: affrontare le minacce legate a desertificazione, degrado delle terre, siccità e scarsità idrica.

TRE QUARTI DELLE TERRE DEL PIANETA hanno sperimentato condizioni di maggiore aridità nei tre decenni fino al 2020 rispetto al trentennio precedente. E dal 1990 le zone aride si sono ampliate di circa 4,3 milioni di km2 arrivando a coprire il 40% di tutta la terra sulla Terra (esclusa l’Antartide); invece, solo meno di un quarto delle terre emerse del pianeta ha sperimentato condizioni più umide di prima. Dati che sono al centro di un nuovo rapporto, The Global Threat of Drying Lands: Regional and global aridity trends and future projections, presentato lunedì alla Cop16; per la prima volta si fa chiarezza scientifica sull’inaridimento permanente, e se ne individua la causa principale nei cambiamenti climatici. Messaggio: «Agire non è più una scelta, è un imperativo. Il problema va messo al centro dell’agenda globale», sintetizza da Riad Barron Orr, chief scientist dell’Unccd. Il rapporto precisa che mentre la siccità fa parte della variabilità climatica naturale e può verificarsi dappertutto in modo occasionale, l’aridità è una condizione stabile nella quale l’umidità è insufficiente.

2,3 MILIARDI DI PERSONE vivono in aree aride; il doppio rispetto al 1990. Più della metà vive in Asia e 620 milioni in Africa. Il passaggio allo stato di terre aride (una condizione tracciata nei dati dell’Indice globale dell’ aridità – Gi) ha gravissime implicazioni per l’agricoltura, gli ecosistemi e le persone che vi vivono. Per questo quarto della popolazione mondiale occorrono con urgenza soluzioni durature. Nello scenario climatico peggiore, nel 2100 la cifra potrebbe raggiungere i 5 miliardi di persone, alle prese con terreni impoveriti, riduzione delle risorse idriche e crisi o collasso di ecosistemi un tempo fiorenti. Sud Sudan e la Tanzania sono indicate come le nazioni con la più alta percentuale di terra che passa alle terre aride, la Cina come il paese nel quale l’area più grande al mondo si sposta dalle terre umide alle terre aride. Le terre iper-aride sono il 9% del totale.

MA, SORPRESA: LE AREE particolarmente colpite dalla tendenza all’inaridimento (a gradi diversi) includono quasi tutta l’Europa; in particolare per il Mediterraneo e l’Europa del Sud che vi si affaccia (e i cui Stati si sono dichiarati tutti interessati dalla desertificazione) si prevede un futuro aspro, dal momento che la condizione di semi-aridità è in espansione. Medio Oriente e Nord Africa hanno visto addirittura un declino del 75% della disponibilità idrica rispetto al 1950. In Africa e parte dell’Asia, aree mega-diverse sperimentano degrado e desertificazione degli ecosistemi, con grave pericolo per tante specie. L’Amazzonia è colpita come mai prima da siccità e ondate di calore.

LE CONSEGUENZE DI QUESTO aumento dell’aridità sono e saranno enormi, a cascata e multiformi, toccando quasi ogni aspetto della vita. La migrazione forzata è una delle più visibili. Il rapporto avverte che un quinto di tutte le superfici potrebbe subire brusche trasformazioni dell’ecosistema entro la fine del secolo, con cambiamenti drammatici (come le foreste che diventano praterie) ed estinzioni di piante, animali, microorganismi. Incendi e tempeste di sabbia sono ugualmente favoriti dall’inaridimento.

UNA DELLE CINQUE CAUSE più importanti del degrado del suolo (insieme a erosione, salinizzazione, perdita di carbonio organico e degrado della vegetazione) è appunto l’aridità. Ne derivano perdite dei raccolti e impoverimento. Nell’Africa subsahariana l’insufficiente produzione alimentare fa crescere la denutrizione grave soprattutto nei bambini. Tra le altre cose, all’aumento dell’aridità è stato associato a un calo del 12% del prodotto interno lordo (Pil) registrato per i paesi africani tra il 1990 e il 2015.

UN ALTRO RAPPORTO, Stepping back from the precipice: Transforming land management to stay within planetary boundaries, realizzato con l’Unccd da Johan Rockström dell’Potsdam Institute illustra i rischi che il degrado dei suoli e delle foreste comporta per le diverse componenti del sistema terrestre e per la stessa sopravvivenza umana, minando la capacità della Terra di far fronte alle crisi climatiche e della biodiversità. Sette dei nove confini planetari – punti di non ritorno – sono influenzati negativamente da un uso non sostenibile del suolo.

LA «LAND DEGRADATION NEUTRALITY» (Ldn) è l’obiettivo coniato alla Cop16, a somiglianza della carbon neutrality climatica. Ma come perseguirla, in questi anni che esperti e delegati a Riad hanno definito cruciali per invertire la rotta? Il trend verso l’inaridimento può essere contrastato: occorre prevenire il degrado dei suoli e proteggere la biodiversità che gioca un ruolo nella resilienza ecosistemica.

IL RAPPORTO PRESENTATO GIORNI FA alla Cop16 offre anche una tabella di marcia completa per affrontare l’aridità, con le seguenti raccomandazioni: rafforzare il monitoraggio, migliorare le pratiche di uso dei suoli con approcci innovativi, olistici e sostenibili alla gestione del territorio (sono al centro di un altro nuovo rapporto Unccd, Sustainable Land Use Systems: The path to achieving collectively Land Degradation Neutrality); investire nell’efficienza idrica; costruire resilienza nelle comunità vulnerabili; sviluppare la cooperazione, allineando le politiche nazionali con gli obiettivi internazionali. Il tutto con protocolli vincolanti. Visti come esempi da imitare progetti come la Grande muraglia verde – che in 11 Stati africani si propone di recuperare entro il 2030 100 milioni di ettari degradati.

ALMENO 2.600 MILIARDI DI DOLLARI, 1 miliardo al giorno fra il 2025 e il 2030: questa la somma che, secondo l’Unccd nel suo paper Investing in Land’s Future: Financial needs assessment for Unccd, occorrerà investire da qui al 2030, in uno sforzo pubblico e privato; dunque quasi un miliardo al giorno, per provare a ripristinare i terreni degradati e rafforzare la resilienza alla siccità. Del resto, agire conviene. Il costo della desertificazione, del degrado delle terre e della siccità per l’economia mondiale è stimato in 878 miliardi di dollari all’anno. E i 2.600 miliardi di dollari sono un ordine di grandezza paragonabile a quello che il mondo spende ogni anno in sovvenzioni dannose per l’ambiente, secondo un recente rapporto di Earthtrack.

FINORA IL PIATTO PIANGE: delle somme necessarie al ripristino delle terre degradate e alla resilienza alla siccità mancano all’appello 278 miliardi di dollari annui. L’Unccd, insieme ai padroni di casa sauditi, lancia l’iniziativa globale del G20 sulla terra, che mira a ridurre il degrado dei suoli del 50% entro il 2040. La conclusione del negoziato è alle porte.

Anche le guerre contribuiscono al degrado e all’impoverimento dei suoli

Impatti I conflitti che stanno provocando disastri nei paesi a vocazione agricola, dalla Siria all’Iraq, dal Sudan ad Haiti

Marinella Correggia  12/12/2024

Il detto di Publio Cornelio Tacito, «Fecero un deserto e lo chiamarono pace», a partire dall’ecocidio in Vietnam è entrato a far parte del lessico condiviso del pacifismo. E si presta a varie declinazioni. Anche rispetto all’impatto della guerra sul degrado e sull’inaridimento dei suoli. L’inquinamento da munizioni è ovviamente un fattore importante, insieme alle mine che rendono incoltivabili le aree. Ma diversi altri elementi entrano in gioco. Anche in paesi dall’antica tradizione agricola.

SI PENSI ALLA SIRIA. Nelle ultime settimane si trova al centro dell’attenzione mondiale, ma una guerra per procura ha interessato fin dall’inizio del 2012 gran parte del territorio di questo antico paese agricolo. Con i suoi pur limitati 6,5 milioni di ettari di terre coltivabili (il 32% della superficie), fino a non molto tempo fa riusciva anche a esportare cibo ai paesi vicini. Poi tutto è cambiato: nel 2008 una siccità disastrosa ha determinato un esodo rurale nei centri urbani non in grado di reggere gli arrivi in massa; le tensioni si sono acuite e nel 2012 inizia il conflitto.

INNUMEREVOLI LE CONSEGUENZE, negli anni successivi, anche sugli ecosistemi e sull’agricoltura. La popolazione rurale si è ridotta del 50%, la produzione agricola ugualmente. Tanti i fattori. L’occupazione di ampi territori da parte di gruppi jihadisti o la loro inaccessibilità per via delle mine. La distruzione dei sistemi di irrigazione, o il loro deterioramento per mancanza di manutenzione. Ricorrenti siccità peggioravano il quadro e l’inaridimento dei suoli, rendendo il paese più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Intanto la povertà delle casse pubbliche determinata dal conflitto rendeva molto più difficile qualunque intervento di adattamento. Lo sforzo di produrre cereali e legumi continuava, ma perfino andare nei campi era pericoloso. Così un terzo dei siriani ha finito per dipendere dagli aiuti alimentari.

UN CIRCOLO VIZIOSO SI E’ INNESCATO anche con la deforestazione determinata dalla povertà di combustibile e di risorse; le aree lasciate senza alberi si sono erose provocando tempeste di vento, cambiando il microclima locale e portando aridità e desertificazione, come spiegava uno studio di università spagnole (2023).

NEL CONFINANTE IRAQ, UN ALTRO STORICO produttore agricolo di cereali, legumi, datteri e ortaggi nelle aree non desertiche, a partire dalle guerre degli ultimi decenni il degrado e la contaminazione dell’ambiente e dei suoli hanno ridotto la produzione agricola. A partire dal 2011, gruppi terroristici hanno occupato intere aree, danneggiando le infrastrutture idriche, piazzando mine, bruciando alberi.

IN SUDAN, SECONDO LA TESTIMONIANZA dell’Ong Practical Action, la guerra e gli spostamenti di popolazione esacerbano i danni ambientali: in una situazione di emergenza, un uso improprio delle risorse accelera l’inaridimento dei suoli. Con gli spostamenti di popolazione, si perdono anche le conoscenze indigene capaci di mantenere l’equilibrio naturale. Per sopravvivere i contadini ricorrono a metodi più intensivi che sottraggono ricchezza al suolo.

HAITI NON HA IN CORSO UNA GUERRA CIVILE; piuttosto, è devastata da armatissime gang. Ma allo stesso modo, l’impoverimento e gli spostamenti di popolazione contribuiscono alla deforestazione in aree già compromesse dall’erosione, rendendo impossibile trovare le sinergie e le somme necessarie a quegli interventi, per una gestione duratura delle terre, che un vecchio rapporto del ministero dell’agricoltura haitiano indicava.

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