Berlinguer e gli altri. Storia di una riforma
di Tiziana DRAGO –
da «il manifesto», 20 settembre 2016
Nel miscuglio indigesto di pretesti che ammorbano il dibattito sul referendum costituzionale è caduta la dichiarazione di Luigi Berlinguer («la Repubblica», 18 agosto), che ha esplicitato la propria opzione per il sì. Bene. L’avevamo sospettato. Tra le ragioni del necessario adeguamento ai tempi, il Nostro nomina, oltre all’arretratezza della Carta in tema di pari opportunità («i costituenti […] non mi sembra fossero campioni di femminismo»), il ritardo del dettato costituzionale rispetto alla grande rivoluzione novecentesca dell’«istruzione come diritto fondamentale per tutti». Ha ragione Berlinguer: c’è un divario che va colmato. Il distacco che intanto si è accresciuto fra Costituzione, politica e società è abissale e l’attardamento devastante. È accaduto che la perdita di legittimità di una visione culturale complessiva abbia sottratto alla politica ogni potere di elaborazione dei valori, ne abbia disgregato e maciullato ogni riconoscibilità collettiva, consegnando l’impianto delle riforme alla barbarie del mercato. È accaduto anche che si siano drammaticamente ridotti gli spazi di accesso al sapere e scuole e università si siano trasformate da territori di costruzione di cittadinanza a luoghi di indottrinamento di competenze per consumatori o produttori economici.
Ma il punto grave è che Berlinguer passa con innocenza, in una stessa dichiarazione, dai buoni propositi per la scuola di Stato all’auspicio che la nostra Costituzione antifascista faccia un passo avanti nella direzione del baratro: quello che va corretto è la carta che, all’alba della Repubblica, raccolse istanze molto diverse ma ugualmente capaci di rappresentare, anche sul terreno culturale e della formazione, altrettanti punti di riferimento per la loro laicità e per la forte tensione unitaria e nazionale. Tali notevoli opinioni possono trovare accoglienza nelle feste dell’Unità o nelle Leopolde da parte di un pubblico che non ha bisogno di dubitare perché si sa che ha piacere ad applaudire. Ma a Berlinguer dovrebbe essere ben noto come il nostro sistema scolastico sia stato sfigurato, nel corso dell’ultimo ventennio, più che dal persistere dell’egemonia liberale della Costituzione, dall’ostinazione con cui governi di destra e di sinistra hanno destrutturato scuole e università pubbliche con l’intenzione di colmare il divario tra istruzione e mercato del lavoro: inventariare la domanda delle aziende e riorientare su quest’ultima, senza sprechi né divagazioni, l’intero assetto della formazione.
Questa tecnologia di governo ha gradualmente convertito il diritto allo studio sancito dalla Costituzione in un servizio a pagamento, adeguato agli investimenti e opportunamente monitorato dagli investitori. Il grimaldello è il varo dell’autonomia: dopo quella degli Atenei (Ruberti 1989), il governo Prodi istituisce la legge dell’autonomia scolastica (Bassanini 1997), con cui, nel perseguire il decentramento amministrativo, si istituiscono centri di istruzione separati e in competizione: ogni singola scuola deve promuovere sul mercato una propria ‘offerta formativa’, sostanziata di vuoto marketing pedagogico, per il maggior numero di studenti-clienti. Insieme all’autonomia (ancora con Berlinguer-Zecchino nel 2000), il centro-sinistra si adopera, con la legge Berlinguer sulla parità, per il progressivo definanziamento delle spese per l’istruzione pubblica, cui corrisponde un aumento degli oneri dello Stato verso le scuole private, per lo più cattoliche: sono i governi D’Alema I e II a sconfessare per primi il dettato costituzionale con la riforma federativa del Titolo V della Costituzione. È il momento in cui Berlinguer introduce il 3+2 nell’università, la pratica contabile dei crediti negli atenei, a scapito di ogni credibilità scientifica e utilità sociale. Ai successivi ministri di destra (Moratti e Gelmini) tocca rifinire il lavoro ed è un fiorire di tagli, test, valutazioni e punizioni legittimati da un’oliatissima macchina di discredito attivata nei confronti di chi lavora con la cultura e il sapere. Infine, la buona scuola di Renzi ha fatto chiarezza: i buoni di qua, i grami di là, chi fa squadra da una parte, chi si interroga dall’altra, gli adatti dentro, gli irregolari fuori. Solo assunzioni di docenti ‘meritevoli’ da parte del preside-manager in una scuola che è definitivamente un’azienda. L’apoteosi del progetto ventennale è servita. L’annientamento del valore della cooperazione, la precarizzazione dell’insegnamento, il rafforzamento autoritario delle figure apicali. E per gli studenti una atomizzazione dei programmi e dei valori formativi, che lascia spazio alle tante diseguaglianze territoriali, di censo e di ceto. Senza nessuna possibilità di costruire un codice comune di civiltà che almeno affianchi l’unico valore altrimenti ampiamente condiviso: quello del mercato. Scomparsi i libri, cancellato il tempo della riflessione e della condivisione, non resta che una corsa affannosa attraverso scadenze didattiche d’ogni genere, segnate da un tempo riempito a viva forza dal simulacro dell’efficienza. Non so se questo processo sia reversibile. A rompere la miseria – politica e umana – di questo modello liberal-taylorista di scuola occorrerebbe la ricerca di un’altra strada. Occorrerebbero docenti per cui verbi come competere, somministrare, verificare non significhino nulla. Occorrerebbero intelligenze in germoglio pronte a liberare le parole e i pensieri, soprattutto quelli più recalcitranti, perché queste cose bisogna impararle da piccoli.
E allora, buona scuola! Senza articolo la, naturalmente.
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