RUTTI DI GUERRA da LA FIONDA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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RUTTI DI GUERRA da LA FIONDA

Rutti di guerra

Giuseppe Gagliano   13 Dic , 2025

Mark Rutte, segretario generale della Nato, ha deciso di rispolverare l’elmetto della retorica più logora e di indossarlo con zelo. Secondo lui, la Russia potrebbe attaccare un Paese dell’Alleanza entro cinque anni e l’Occidente dovrebbe prepararsi a una guerra “come quella dei nostri nonni”. Detto da un commentatore televisivo sarebbe folklore. Detto dal capo politico-militare della Nato è qualcosa di più serio: è propaganda allo stato puro, con effetti potenzialmente devastanti.

Il punto non è stabilire se Mosca sia buona o cattiva, pacifica o aggressiva. Il punto è capire perché questa improvvisa escalation verbale arrivi proprio ora. E qui il quadro si chiarisce. Le parole di Rutte cadono a ridosso della nuova National Security Strategy americana, che con Donald Trump alla Casa Bianca prova – almeno sulla carta – a riaprire un canale di stabilizzazione con la Russia e a chiudere una guerra per procura che dura da anni, costa centinaia di miliardi e ha dissanguato l’Ucraina senza avvicinarla di un millimetro alla vittoria.

Il messaggio di Rutte non è rivolto ai cittadini europei. È un messaggio diretto a Washington, cioè a Trump. Un avvertimento: guai a parlare di distensione, guai a rimettere in discussione la narrazione dell’emergenza permanente. È la voce del partito della guerra, quello che vive di allarmi continui, di minacce ingigantite e di scenari apocalittici. Un partito trasversale, senza confini nazionali, che ha trovato nella Nato il suo megafono ideale.

Dietro questa isteria strategica c’è una realtà molto concreta: il riarmo. Un riarmo che non è neutro, ma orientato, selettivo, funzionale a interessi precisi. Le grandi industrie militari statunitensi ed europee prosperano come non mai, sostenute da fondi di investimento che siedono silenziosamente nei consigli di amministrazione. BlackRock e Vanguard non sfilano in mimetica, ma decidono flussi di capitale che trasformano ogni crisi in opportunità. Senza un nemico alle porte, tutto questo castello rischia di sgretolarsi.

Il problema è che la propaganda bellicista non resta mai senza conseguenze. Quando il segretario generale della Nato evoca guerre mondiali e invasioni imminenti, alimenta esattamente ciò che dice di voler prevenire. A Mosca quelle parole vengono lette come prova di un’aggressività occidentale strutturale, giustificando rafforzamenti militari e irrigidimenti politici. È il classico meccanismo della profezia che si autoavvera: si urla al pericolo per rendere il pericolo più probabile.

Il paradosso è che a parlare sono figure politicamente intercambiabili, prive di visione e di memoria storica. Rutte oggi, Kallas ieri, qualcun altro domani. Tutti pronti a evocare la guerra dei nonni senza aver capito neppure quella dei padri. Leader che confondono la deterrenza con l’isteria e la strategia con il comunicato stampa.

Alla fine resta una domanda semplice: a chi giova questa narrazione? Di certo non agli europei, che pagano il conto economico e sociale del riarmo. Non agli ucraini, sacrificati sull’altare di una guerra senza sbocco. E nemmeno alla sicurezza globale. Serve invece a chi ha bisogno di una minaccia eterna per giustificare potere, profitti e carriere. Tutto il resto è retorica. E anche piuttosto stanca.

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