PUTIN SUL TAPPETO ROSSO DI XI PER AFFARI, ENERGIA E UCRAINA da IL FATTO
Putin sul tappeto rosso di Xi per affari, energia e Ucraina
Michela A.G. Iaccarino 31 Agosto 2025
Al via lo Sco, Organizzazione per la cooperazione di Shanghai: presenti tutti i leader mondiali, tranne quelli dell’Ovest
Per lui, il presidente Xi, sta per srotolare un lungo tappeto rosso. Lui è Putin, che ci camminerà sopra oggi, sfilando e sfidando il “resto del mondo”. Il presidente russo arriva oggi in Cina per la Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai), ma non solo per incontrare l’alleato di Pechino. Parole e strette di mano le scambierà anche con l’omologo iraniano Masoud Pezeshkian, il turco Recep Erdogan e l’indiano Narendra Modi. Forse perfino col nordcoreano Kim Jong-un, ma l’incontro è ancora in fase di preparazione.
Una tazza di tè, Putin e Xi. Lo ha detto il consigliere del presidente russo, Yuri Ushakov: oggi l’incontro che avverrà tra i due leader sarà informale. Come tra due amici: di certo lo sono diventate le loro economie interconnesse, che nel commercio bilaterale hanno raggiunto i 240 miliardi di dollari di scambi l’anno scorso, una cifra di due terzi più alta di quella che si registrava prima dell’inizio della guerra in Ucraina. Parlando all’agenzia cinese Xinhua, il numero uno di Mosca ha detto che Russia e Cina sono “sorprendentemente simili su questioni fondamentali”. Oggi intanto comincia la Sco, che nel 1996 era composta solo dai cinque Paesi fondatori: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. Oggi nella famiglia che prima era degli Shangai Five è entrato quel mondo “altro” e lontano rispetto all’Occidente: oltre all’Uzbekistan, svettano India, Pakistan, Iran e Bielorussia. Si tratta del 40% della popolazione mondiale, rivendicano da laggiù, dove le porte le hanno aperte anche ad Afghanistan e Mongolia, che per ora rimangono solo “osservatori”. Mentre Arabia Saudita, Azerbaigian, Armenia, Bahrein, Cambogia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Maldive, Myanmar, Nepal, Qatar, Sri Lanka rimangono partner. Lo è pure la Turchia di Erdogan, il presidente con cui l’ex spia del Kgb che guida la Federazione si confronterà sul conflitto ucraino lunedì – riferiscono media di Ankara – in una stanza dei bottoni dove non saranno riservati posti a sedere ai fantasmi degli europei e nemmeno degli statunitensi.
A Tianjin è già arrivato Modi, che su suolo cinese non metteva piede dal 2018. Si attendono una decina di teste d’ariete delle istituzioni mondiali, i capi di governo saranno invece il doppio al summit organizzato dalla superpotenza asiatica che ospita altre potenze d’Asia e Sud globale per una reunion non solo anti-occidentale, ma anche anti-Washington. Un’alleanza di capitali, che sebbene avversarie su qualche punto della mappa, si stanno coagulando per tenere testa ai dazi trumpiani. Ieri, la missione del vertice era tutelare la sicurezza dei confini, oggi è creare un’alternativa agli Usa. O, per dirla nella lingua di Lin Bin, ministro degli Esteri cinese, ci sono “certi Paesi che cercano di imporre i loro interessi ad altri Paesi”, stanno “minacciando seriamente la pace”, ma il resto del mondo non sta più zitto. Non è più “maggioranza silenziosa”. Una maggioranza da numeri impressionanti, se addizionati insieme. Oltre 2.000 miliardi di dollari in pancia al Pil russo; quello della Cina supera i 18 trilioni e passa, secondo i dati della Banca mondiale. Questo è il quinto semestre in crescita per l’India, che con il Dragone si contende il record di Paese più popoloso al mondo con oltre un miliardo di persone a testa. I leader alla Sco stringeranno accordi di cooperazione tra Stati delle ex Repubbliche sovietiche (collettivamente, 80 milioni di persone), quelli di Russia e Bielorussia superano i 150. Il prossimo 3 settembre quando Pechino celebrerà l’80esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, Putin sarà tra gli spalti, proprio come Xi sedeva tra quelli russi il 9 maggio scorso, la giornata in cui Mosca celebra la vittoria sulla Germania nazista. L’immagine sarà gemella: i due presidenti seduti vicini a festeggiare quella che in Russia si chiama “grande guerra patriottica” e che adesso la Cina chiama “grande guerra di resistenza del popolo cinese”. Nuovi battesimi che mirano a ridimensionare l’intervento Usa e occidentale in quel conflitto. Non solo dai summit e dalla geografia del presente: l’Ovest rischia di sparire anche dai manuali di Storia del passato.
Ucraina, summit Ue a Copenaghen: i 27 d’accordo solo sul tenersi gli asset russi
Cosimo Caridi 31 Agosto 2025
Il vertice informale dei titolari di Esteri e Difesa voleva “accelerare”, ma si chiude con i soliti disaccordi, minacce a Mosca e inerzia su Israele
Non si è deciso nulla, anzi si è convenuto che ci vuole una revisione dei trattati Ue per poter decidere qualcosa. A Copenaghen, ieri, al termine del Consiglio informale dei ministri degli Esteri dell’Ue, formato Gymnich, l’Alta rappresentante per la politica estera europea, Kaja Kallas, e il ministro degli Esteri danese, Lars Løkke Rasmussen, hanno tenuto una lunga conferenza stampa. “Non prendiamo decisioni qui”, ha detto la capo della diplomazia europea rispondendo a una domanda della televisione pubblica tedesca Dw. Le chiedevano: “Può dirmi un passo avanti fatto oggi?”. Nell’ultima risposta, prima di lasciare i giornalisti, Kallas ha spiegato che immagina una revisione dei Trattati per poter avere una politica estera europea efficace. Ogni Stato ha diritto di veto. Per quanto “la maggioranza cresca” sui punti centrali, l’unanimità non si raggiunge quasi mai.
“Stiamo portando avanti il lavoro sui beni russi congelati per contribuire alla difesa e alla ricostruzione dell’Ucraina”, aveva anticipato giovedì la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “È impensabile che la Russia riveda questi soldi”, le ha fatto eco da Copenaghen Kallas. I circa 210 miliardi di euro di asset russi negli istituti finanziari europei, principalmente in Belgio (180 miliardi), sono bloccati da una decisione del Consiglio dell’Ue presa all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. La misura viene estesa con cadenza annuale. L’Alta rappresentante dell’Unione ha spiegato che questi fondi non torneranno alla Russia “se questa non ha pagato le riparazioni” per i danni subiti da Kiev.
A rinforzare la posizione ci ha pensato Rasmussen: “I danni sono di 500 miliardi. Quindi, anche se tutti i soldi congelati andassero all’Ucraina, non sarebbero abbastanza”. La questione è però più complessa. In una negoziazione con il Cremlino, questi fondi non sarebbero che una fiche che le due parti si giocherebbero come le altre: territori, sanzioni e garanzie di sicurezza. Al momento, diverse cancellerie europee stanno studiando come poter mettere a reddito questi fondi. Si valutano posizioni più esposte, quindi più remunerative, e l’idea è di utilizzare i profitti fatti sui mercati per coprire parte del deficit annuale di Kiev. Kallas ha spiegato che si stanno studiando anche ipotesi per la confisca di questi soldi: “Il mercato reggerebbe e potremmo preparare contromisure”. Il primo ministro belga, Bart De Wever, ha avvertito: “So che ci sono governi che stanno cercando di sequestrare questo denaro. Ciò avrebbe conseguenze sistemiche ed è anche molto rischioso dal punto di vista legale”.
“Putin sta cercando di prendere tempo. L’unica lingua che comprende è quella della dura pressione”, ha detto il ministro danese in conferenza stampa. I 27 stanno discutendo da tempo un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Sarebbe il 19°. “Le sanzioni funzionano. Hanno sottratto miliardi allo sforzo bellico russo”, ha detto Kallas. Si stanno studiando le azioni possibili, sia sugli individui sia sulle aziende. Tuttavia, il passo effettivo sarebbe l’introduzione di sanzioni secondarie sui Paesi che importano beni russi per poi riesportarli. In questo caso è fondamentale poter contare sull’appoggio statunitense.
Attivare sanzioni secondarie senza il sostegno della Casa Bianca spingerebbe l’Ue a imporre restrizioni su due mercati fondamentali: India e Cina. Le ripercussioni diplomatiche ed economiche sarebbero su scala mondiale. Bruxelles ha bisogno di Washington per affrontarle. In oltre 40 minuti di conferenza stampa, né Kallas né Rasmussen hanno mai detto “Stati Uniti d’America” o menzionato il presidente Donald Trump. Hanno sempre preferito la formula “i nostri alleati/partner transatlantici”. Il sito Axios, molto ben informato su quanto avviene alla Casa Bianca, spiega che, secondo i consiglieri di Trump, “alcuni leader europei stanno pubblicamente appoggiando gli sforzi di Trump per porre fine alla guerra in Ucraina, ma dietro le quinte stanno sabotando i progressi diplomatici fatti, spingendo Kiev a chiedere concessioni irrealistiche da parte della Russia”. Sempre secondo questi funzionari, “la Casa Bianca sta perdendo la pazienza”.
“Se una soluzione militare era possibile, ci sarebbe già stata”, ha detto la capo della diplomazia Ue, aggiungendo che non c’è all’interno dell’Unione la capacità di prendere alcuna decisione per sanzionare “Israele, scusate il governo israeliano”. L’Ue condanna la decisione di bloccare i visti ai diplomatici palestinesi, che non potranno partecipare all’Assemblea delle Nazioni Unite. Ha ribadito però che, grazie all’intervento di Bruxelles, “entrano più aiuti a Gaza”. La dichiarazione è arrivata poche ore dopo che il governo Netanyahu ha annunciato che nessun convoglio di aiuti umanitari potrà più raggiungere Gaza City. “È chiaro che oggi la maggioranza vuole fare molto di più. Tutte le opzioni sono sul tavolo, ma non tutti i membri sono d’accordo”, ha ribadito Kallas parlando della possibile sospensione del trattato di libero scambio con Israele. A margine del summit, il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, si è mostrato cauto sulla sospensione di Israele dal programma Horizon: “Noi preferiamo intervenire sulle sanzioni ai coloni più violenti”, ha spiegato, sottolineando l’importanza di un approccio condiviso con gli altri Stati membri. Ha confermato l’intesa con la Germania sulla necessità di un cessate il fuoco a Gaza, la liberazione degli ostaggi e l’accesso umanitario. La sua dichiarazione ha evidenziato le divisioni tra Paesi più favorevoli a misure dure e chi, come Roma e Berlino, preferisce non agire.
Sul dossier Teheran, Kaja Kallas ha confermato che Francia, Germania e Regno Unito hanno avviato il processo per il ripristino delle sanzioni Onu contro l’Iran. È scattato un termine di 30 giorni, durante il quale resta aperta la via negoziale. “La palla è nel campo di Teheran. La diplomazia non è finita”, ha detto l’Alta rappresentante Ue, sottolineando che la cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica e la ripresa dei negoziati con gli Stati Uniti rimangono essenziali. Le condizioni richieste richiamano quelle del 2016, stabilite nell’accordo sul nucleare con l’Amministrazione Obama.
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