IL VENEZUELA NELLA CORNICE DELLA GUERRA COGNITIVA GLOBALE da ANTIDIPLOMATICO e IL FATTO
Il Venezuela nella cornice della guerra cognitiva globale
Maylyn Lopez 03/11/2025
Chi decide cosa è democrazia e cosa la minaccia? Chi stabilisce quali vite meritano protezione e quali possono essere sacrificate sull’altare degli interessi energetici? In base a quale diritto un Paese può essere isolato, sanzionato e diffamato senza che la comunità internazionale lo riconosca come atto di guerra? Un embargo che affama è compatibile con la “difesa dei diritti umani”?
Interrogarsi su queste domande può essere un utile strumento, soprattutto per inquadrare il caso attuale del Venezuela, paese vittima di una forma di conflitto ibrido in cui parole, sanzioni economiche e dispiegamento di forze militari navali ai suoi confini si intrecciano per produrre effetti concreti sulla vita delle persone.
Come uscire allora dal labirinto semantico di chi gestisce la narrazione? Sicuramente partendo dai dati. La strategia di pressione sul Venezuela – il Paese con più petrolio al mondo, vittima di sanzioni che hanno sottratto oltre 230 miliardi di dollari al suo popolo – si configura come un modello maturo di guerra ibrida dove coercizione economica, diplomatica, comunicativa e militare indiretta si intrecciano.
Le sue componenti principali restano costanti, ma con adattamenti tecnologici e geopolitici sempre più sofisticati.
Al primo posto ci sono le MCU (misure coercitive unilaterali) economiche multilivello e secondarie. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno mantenuto e in alcuni casi ampliato il regime sanzionatorio con l’applicazione di oltre 930 misure attive e secondarie (OFAC, ottobre 2024). Queste includono, in particolare:
– il congelamento di asset e riserve estere (CITGO, 7 miliardi USD bloccati);
– restrizioni sulle transazioni finanziarie con banche internazionali;
– limitazioni commerciali indirette su imprese di Paesi terzi che intrattengono rapporti con PDVSA o entità pubbliche venezuelane.
Dal punto di vista semantico e discorsivo, usare “sanzione” implica un frame morale — c’è un colpevole e c’è una punizione. Parlare invece di misure coercitive unilaterali restituisce la realtà dei fatti: un atto di pressione politica o economica non riconosciuto dal diritto internazionale, spesso contrario ai principi di sovranità e uguaglianza tra gli Stati.
Queste misure coercitive unilaterali” non sono “neutre”: sono armi di guerra. La Relatrice Speciale ONU Alena Douhan (2021) le ha definite “misure coercitive unilaterali con impatti devastanti sulla vita civile”. E i dati delle agenzie internazionali lo confermano: 3,3 milioni di persone in bisogno umanitario; 1,8 milioni di bambini colpiti da carenze alimentari o mediche; 6,87 milioni di migranti e rifugiati venezuelani nella regione.
Secondo l’Observatorio Antibloqueo (2023) il Venezuela ha subito: 164 sanzioni tra il 2014 e il 2022; 232 miliardi di dollari di perdite economiche dirette; 3,995 miliardi di barili di produzione petrolifera non realizzata. Tra il 2013 e il 2020, secondo il FMI, il PIL venezuelano si è ridotto dell’80% e le importazioni alimentari del 75%. Come può un Paese sopravvivere a un blocco economico così vasto senza collasso totale?
Il potere delle parole: la “minaccia” propagandata dagli U.S.A costruita ad hoc?
“Crisi”, “regime”, “instabilità”, “narcotraffico”: quattro termini diventati sinonimi di Venezuela nei media. Eppure, nessuno di questi concetti è neutrale. Autori come Teun van Dijk e Norman Fairclough – spiegano che le élite non controllano solo le risorse materiali, ma soprattutto le parole con cui il mondo interpreta quelle risorse. Chi domina il linguaggio, domina la percezione del bene e del male.
Durante l’amministrazione Trump (2017-2021), il governo degli Stati Uniti definì Nicolás Maduro “usurpatore” e promise “la liberazione del popolo venezuelano”. Ciò che seguì furono anni di strangolamento economico, in cui milioni di cittadini persero accesso a medicine, cibo e reddito.
Uno degli strumenti più efficaci per giustificare “interventi” è l’etichetta morale. E oggi avendo fallito con tutti i tentativi precedenti c’è un nuovo escamotage semantico ideato dalla nuova amministrazione Trump: la parola “droga” ha sostituito “petrolio” nel discorso geopolitico, ma i numeri raccontano tutt’altro.
Il conflitto non è tra ideologie, ma tra sovranità e controllo energetico. E quando la ricchezza è tanta, la narrativa diventa lo strumento più potente per indebolire la legittimità.
Secondo l’UNODC – Global Cocaine Report 2023 (https://shorturl.at/YOiE4), il Venezuela non appare in alcuna categoria di produzione o lavorazione. Non esistono piantagioni registrate né laboratori identificati. È un Paese di transito e di contrasto, non di produzione.
La SUNAD (Superintendencia Nacional Antidrogas) documenta nel Rapporto del 2023 di come le autorità del Venezuela abbiano sequestrato 52,2 tonnellate di stupefacenti, di cui 38,4 di cocaina. A questo si aggiungono 22,3 tonnellate intercettate nei primi cinque mesi del 2024 e 482 operazioni complessive che hanno portato a 3.224 arresti.
Questo tipo di soft power, pur presentato come cooperazione civile, genera una forte asimmetria informativa e contribuisce a polarizzare la sfera pubblica interna.
Guerra informativa e digitalizzazione della pressione
A partire dal 2022, la dimensione mediatica della pressione si è digitalizzata con una serie di campagne coordinate su social network, uso di bot e reti automatizzate per amplificare messaggi di crisi, corruzione o fallimento statale. Il tutto corredato dalla diffusione di notizie parziali tramite media regionali in lingua spagnola e inglese.
Dalla nefasta decisione di Obama di considerare il Venezuela una “minaccia straordinaria per la sicurezza interna degli Usa”, gli Stati Uniti hanno adottato un modello costante per destituire il legittimo governo e appropriarsi delle immense risorse del paese, che possiamo sintetizzare in questi 5 punti:
– Creare una cornice morale – il bene contro il male;
– Delegittimare il governo – definendolo “autorità illegittima”;
– Isolare diplomaticamente – riconoscendo opposizioni selezionate;
– Colpire economicamente – bloccare riserve e accesso a mercati;
– Gestire la percezione – diffondere narrazioni su crisi e violenza.
È anche una guerra cognitiva. Creare consenso interno negli Stati Uniti e paura all’esterno. Come scrive Van Dijk, “chi controlla i testi, controlla le menti”.
Nel 2024, l’Università di Oxford Internet Institute ha classificato il caso venezuelano tra i cinque esempi mondiali di “computational propaganda a scopo geopolitico”, al pari di Siria, Iran, Ucraina e Myanmar.
Per esempio, il caso Operation Gideon (maggio 2020) — un tentativo armato di incursione via mare condotto da ex militari statunitensi e contractor della società privata Silvercorp USA — resta emblematico del coinvolgimento di attori non statali nelle strategie di destabilizzazione.
Nel 2024, diversi report indipendenti (e testimonianze sui social) indicano che molti giovani attivisti non erano volontari, ma, ricevevano compensi diretti in dollari o bolívar per compiti specifici: creazione di contenuti, diffusione di hashtag, commenti e atti violenti. Venivano reclutati tramite gruppi WhatsApp e Telegram per le organizzazioni partner (ONG, movimenti civici, agenzie di marketing politico).
Anche in quel momento, il sostegno indiretto a organizzazioni civili, media e reti di comunicazione digitale è divenuto una delle dimensioni più sofisticate della pressione ibrida. Attraverso fondi ufficiali (NED, USAID, Open Society Foundations, ecc.) sono stati finanziati progetti di “rafforzamento democratico” e “libertà di stampa”, che spesso includono attività di formazione, produzione di contenuti e advocacy politica.
Nel 2023–2024, rapporti del Centro de Estudios Estratégicos del Caribe e del Council on Hemispheric Affairs segnalano nuove forme di cooperazione informale tra reti di intelligence, forze private di sicurezza e organizzazioni para-militari lungo il confine colombiano-venezuelano, giustificate sotto il pretesto del contrasto al narcotraffico.
La vera posta in gioco: il petrolio
Dietro la retorica della sicurezza e della libertà si nasconde una verità materiale: l’energia. Secondo l’OPEC – Annual Statistical Bulletin 2025, il Venezuela possiede:
– 303,22 miliardi di barili di riserve petrolifere provate, pari al 17,5% del totale mondiale;
– 5,5 trilioni di metri cubi di gas naturale;
– enormi giacimenti auriferi e di coltan nell’Arco Minero dell’Orinoco.
Ai prezzi medi 2024, il valore potenziale del solo petrolio supera i 24 trilioni di dollari. Non sorprende che ogni crisi politica venezuelana coincida con un picco di interesse internazionale sulle sue risorse.
Il doppio standard europeo
L’Europa difende il diritto internazionale quando conviene e lo ignora quando l’interesse lo richiede. Un paradosso tanto più grave se si considera che il 60% della popolazione venezuelana ha origini europee, e che centinaia di imprese italiane e spagnole, per esempio, hanno perso contratti e capitali per via delle misure restrittive.
Secondo la Carta delle Nazioni Unite (art. 2 e 51), ogni Stato ha diritto alla difesa ma anche all’integrità territoriale e alla non interferenza.
Le operazioni statunitensi nel Caribe, anche se “giustificate” come lotta al narcotraffico, mettono alla prova questi principi fondamentali, poiché: avvengono senza mandato ONU nè autorizazzione venezuelana; implicando la presenza militare in una zona geopoliticamente sensibile.
Il mare dei Caraibi dove si affollano le navi di morte degli Stati Uniti sono oggi lo specchio di un occidente senza autorità morale. L’America Latina è nata dalla resistenza, non dal privilegio.
America Latina è stata definita dalla CELAC come zona di pace. È proprio qui che oggi, le navi straniere solcano il mare della sovranità e le sanzioni strangolano i popoli in nome della democrazia.
Il Venezuela non è solo una questione economica o politica: è un test morale per l’intero sistema internazionale. Perché se il diritto alla pace può essere negoziato, allora nessuna nazione è veramente libera.
E quindi torniamo alle domande iniziali. Chi decide cosa è democrazia e cosa è minaccia? Fino a quando la libertà potrà essere usata come giustificazione per affamare popoli interi?
Forse la verità più scomoda non è che il Venezuela resista. È che lo faccia con i fatti, non con le parole. E che dietro il linguaggio della “difesa dei diritti umani” si nasconda la più antica delle leggi geopolitiche: quella del potere travestito da morale. Nel Caribe, il Venezuela non è solo un Paese osservato: è un laboratorio di pressione militare, informativa e simbolica.
Docente universitaria. 20 anni di esperienza nell’ambito diplomatico e multilaterale. Specialista in Comunicazione Strategica e analisi critica del discorso. Giornalista, mediatrice internazionale. Certificazione in PNL e leadership. Responsabile delle Relazioni Internazionali e Coordinatrice della BRNN “Belt and Road News Network” per l’AD. Fondatrice di LeaderSHE.
Petrolio Venezuela: per capire Trump bisogna sapere cosa accade in Guyana
Alessandro Orsini 4 Novembre 2025
Per capire ciò che accade in Venezuela, occorre comprendere ciò che accade in Guyana, uno Stato di circa 800.000 abitanti, capitale Georgetown, che confina con Maduro. Nel 2015, gli Stati Uniti hanno scoperto un grande giacimento petrolifero nell’Essequibo, una regione della Guyana rivendicata dal Venezuela. ExxonMobil, colosso petrolifero americano, ha rapidamente assunto la guida dell’estrazione dell’oro nero. L’Essequibo rappresenta due terzi del territorio della Guyana. Oltre al petrolio, è ricco di oro (miniera di Omai), bauxite, diamanti, uranio, manganese e altri minerali.
Il 1° marzo 2025, Irfaan Ali, presidente guyanese, ha denunciato lo sconfinamento di una nave di Maduro nella regione dell’Essequibo. Delcy Rodríguez, vice di Maduro, ha negato. Il 27 marzo 2025, Marco Rubio, segretario di Stato americano, si è recato a Georgetown, dove ha tenuto una conferenza stampa con il presidente Irfaan Ali. Nell’occasione, Hugh Todd, ministro degli Esteri guyanese, ha firmato un’intesa con la Casa Bianca sulla sicurezza, con cui Trump è stato nominato, in sostanza, protettore ufficiale della Guyana. Il giorno prima della firma, Mauricio Claver-Carone, inviato di Trump per l’America Latina, aveva detto che la Guyana era sulla via di superare Qatar e Kuwait come maggiore produttore di petrolio pro capite al mondo. Torno per un attimo alla prima amministrazione di Trump per dimostrare che il narcotraffico è una scusa. L’11 luglio 2018, il Washington Post pubblicava un articolo contro l’intenzione di Trump di invadere il Venezuela: “La pericolosa fantasia venezuelana di Trump”. Trump aveva addirittura indicato ai suoi consiglieri due modelli di invasione per rovesciare Maduro: l’invasione dello Stato insulare di Grenada del 25 ottobre 1983 sotto Ronald Reagan (Operation Urgent Fury), e l’invasione di Panama del 20 dicembre 1989 sotto George W. Bush (Operation Just Cause). Il 29 gennaio 2019, il consigliere alla Sicurezza nazionale di Trump, John R. Bolton, uscì da una riunione alla Casa Bianca con un foglio sotto il braccio rivolto alle telecamere. I giornalisti fotografarono il foglio manoscritto con il numero di soldati americani (5.000) da inviare in Colombia, stretto alleato degli Stati Uniti. Il narcotraffico non c’entrava niente. Trump voleva piazzare un suo burattino, Juan Guaidó, al posto di Maduro per impossessarsi del Paese. Siccome un’invasione via mare sarebbe stata problematica, Trump pensava di inviare i soldati in Colombia e da lì sfondare il fronte, ma adesso i rapporti tra Trump e la Colombia sono tesi: il 24 ottobre scorso, Trump ha sanzionato il presidente, Gustavo Petro. Quindi, Trump deve risolvere il problema per mare.
Nel suo libro, The Room Where It Happened (2020), Bolton ha rivelato che Trump gli disse: “Sarebbe figo invadere il Venezuela”. Perché? Se gli Stati Uniti riuscissero a instaurare un governo fantoccio in Venezuela, raggiungerebbero obiettivi geopolitici notevoli, giacché il Venezuela è seduto sul più grande giacimento petrolifero della Terra. Il rapporto tra gli Stati Uniti e la Guyana è già un rapporto di dominio e di subordinazione, come quello che esiste tra la Casa Bianca e l’Italia. Trump vorrebbe piazzare una Giorgia Meloni al posto di Maduro per trasformare il Venezuela in uno Stato satellite, unendo il petrolio guyanese a quello venezuelano. In tal modo, gli Stati Uniti acquisirebbero nuove quote di potere mondiale a scapito della Cina. Se la Cina ha bisogno di petrolio, gli Stati Uniti hanno bisogno di controllare i produttori di petrolio. Gli obiettivi prioritari che Trump vuole raggiungere in Venezuela sono numerosi. La lotta al narcotraffico non è tra questi.
No Comments