IL DISCONOSCIMENTO DELLA PALESTINA da IL MANIFESTO
Il disconoscimento della Palestina
Terra rimossa Con un gesto tipicamente colonialista, i grandi del mondo omettono di consultare i palestinesi, molti dei quali, oggi, non chiedono uno Stato, ma la fine dell’apartheid
Valentina Pazé 08/10/2025
«Un insulto a ogni principio del diritto internazionale». «Un diktat coloniale, che ci riporta al peggio mai elaborato dall’Occidente». Quanto di più lontano possa esserci dal riconoscimento di uno Stato palestinese. Se questo è, nell’efficace sintesi di Alberto Negri, il piano Trump, ci si potrebbe stupire del favore generale con cui è stato accolto.
Anche da chi è da sempre schierato per la soluzione «due popoli due Stati». Come Francia e Regno unito che, solo pochi giorni fa, si sono aggiunti al lungo elenco di paesi che riconoscono formalmente lo Stato della Palestina. Confusione di fronte a un’iniziativa spiazzante, che potrebbe, forse, rendere più vicino un cessate il fuoco? Opportunismo? Incoerenza?
Che riconoscere lo Stato della Palestina abbia oggi un significato esclusivamente simbolico, tutti lo sanno e l’ammettono. Chi per denunciare la pochezza di un atto tardivo, utile solo a distogliere l’attenzione dall’assenza di iniziative concrete per fermare il genocidio. Chi per sottolineare, nonostante tutto, il significato politico di questi riconoscimenti: se perfino un alleato storico di Israele come il Regno unito, fin qui in prima fila nel bollare come antisemita ogni manifestazione di solidarietà con la Palestina, osa procurare un dispiacere a Netanyahu, significa che qualcosa si è mosso. Che, grazie alla straordinaria mobilitazione di popolo delle ultime settimane, sospinta dalla Flotilla, gli equilibri stanno cambiando. Di qui anche la richiesta delle opposizioni al governo italiano di riconoscere la Palestina, ora, «senza se e senza ma».
Poco ci si è interrogati, tuttavia, sul senso che può avere riconoscere uno Stato che non c’è. E che non ci sarà, con tutta probabilità, per molto tempo, in assenza delle condizioni minime che lo rendono possibile. In una fase in cui è la stessa esistenza dei palestinesi come gruppo nazionale è essere minacciata (questo significa «genocidio»), l’atto simbolico del riconoscimento dovrebbe per lo meno servire a ribadire, in via di principio, che tra le macerie di Gaza e i check point della Cisgiordania un popolo palestinese esiste, resiste, e ha il diritto di autodeterminarsi (anche in forme diverse dalla fondazione di uno Stato). «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminarsi», recita l’articolo 1 dei Patti internazionali del 1966. «In virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale».
Si tratterebbe dunque di riconoscere ai palestinesi non solo il diritto di opporsi all’occupazione, ma di «decidere del proprio statuto politico». Democraticamente, attraverso libere elezioni. Niente di più lontano dal progetto di amministrazione «apolitica» e tecnocratica elaborato da Trump e Blair. Ma qualcosa di ben diverso anche dalla pretesa di Abu Mazen, o del suo delfino, di ergersi a unico legittimo rappresentante del popolo palestinese, nonostante le ultime elezioni politiche in Cisgiordania risalgano a vent’anni fa.
È sintomatico, del resto, che tutti ripetano come un mantra che Hamas «ovviamente» non dovrà avere alcun ruolo nel governo della Striscia, mentre nessuno contesta il diritto dei cittadini israeliani di continuare a votare, se lo vorranno, per un criminale di guerra ricercato dalla Corte penale internazionale, e per i partiti che lo hanno fin qui sostenuto.
Il messaggio, sul piano simbolico, è chiarissimo. Ti riconosco, ma ti disconosco. Nel riconoscerti, certifico la tua inferiorità: il tuo status di soggetto a sovranità limitata, bisognoso di tutela, incapace di decidere del proprio destino. Con un gesto tipicamente colonialista, i grandi del mondo intenti a disegnare il futuro della Palestina omettono di consultare i palestinesi, molti dei quali, oggi, non chiedono uno Stato, ma la fine dell’apartheid, con l’abbattimento dei muri e il riconoscimento di eguali diritti a tutti coloro che vivono «dal fiume al mare», ebrei e palestinesi.
Si rinuncia, inoltre, a cercare interlocutori nell’ambito delle associazioni e dei movimenti della società civile palestinese, che ha in questi anni praticato la resistenza nonviolenta all’occupazione. E si vuole lasciare marcire in carcere un simbolo dell’Intifada come Marwan Barghouti, rispettato e amato da palestinesi dei più diversi orientamenti politici. Meglio affidarsi ai tecnocrati e continuare a trattare i palestinesi come selvaggi, incapaci di esprimersi sul proprio futuro.
«È un progetto di dominio travestito da soluzione politica»
Terra rimossa Intervista all’analista giordana Shahd Hammouri sul piano Trump al centro dei colloqui a Sharm el Sheikh. «Per il diritto internazionale un accordo raggiunto sotto coercizione è nullo. E il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione è inalienabile, non è negoziabile
Michele Giorgio 08/10/2025
GERUSALEMME
Donald Trump ha messo a punto un piano per Gaza e il futuro della Palestina in contraddizione aperta con la legalità e perciò destinato a perpetuare, sotto altre forme, l’occupazione israeliana. Lo denuncia su vari giornali da giorni l’analista giordana Shahd Hammouri della Kent Law School esperta di leggi e convenzioni internazionali. L’abbiamo raggiunta telefonicamente in Gran Bretagna.
A Sharm el Sheikh proseguono le trattative indirette tra israeliani e Hamas mentre a Gaza piovono sempre le bombe. Si attende un accordo per l’attuazione della prima fase del piano Trump, con lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, e l’inizio del cessate il fuoco. In questo contesto c’è poco spazio per la valutazione della sostanza dell’iniziativa americana.
È così. Cominciamo dal fatto che questo piano viene proposto sotto coercizione. Israele sta applicando la cosiddetta «dottrina al-Dahiya» (il quartiere meridionale di Beirut bombardato massicciamente dall’aviazione israeliana nel 2006 e nel 2024), che consiste più o meno nell’infliggere il massimo danno possibile alla popolazione civile per ottenere consenso verso questo piano o un altro piano gradito al governo Netanyahu. Secondo il diritto internazionale, un accordo raggiunto sotto coercizione è nullo. Inoltre, alcune questioni possono essere oggetto di negoziato e altre no e il diritto palestinese all’autodeterminazione è inalienabile, non è negoziabile. Esso poggia su molti pilastri, tra cui quello di poter resistere finché l’occupazione israeliana non sarà terminata. Quanto affermo è stato ribadito dalla giudice Hilary Charlesworth nella decisione della Corte internazionale di giustizia del 24 luglio sull’illegalità dell’occupazione israeliana della Palestina. Il piano inoltre non fa alcun riferimento a questioni centrali, come il diritto al ritorno per i profughi palestinesi.
La ricostruzione di Gaza e la sua governance sono assegnati dal piano Trump ad esecutivi guidati da stranieri.
I palestinesi reclamano la non ingerenza negli affari interni. La decisione su chi governa Gaza spetta solo al popolo palestinese. Nessun ente al mondo può determinarlo al posto loro, e questo è chiaramente sancito dal diritto internazionale. Il piano vuole introdurre una nuova forma di occupazione, diversa da quella israeliana ma pur sempre un’occupazione. È ciò che da tempo gli studiosi palestinesi denunciano: la sostituzione del controllo diretto israeliano con quello americano. Viene proposto un sistema che ricorda l’Autorità Provvisoria della Coalizione in Iraq. Si tratterebbe di un organismo amministrativo che, secondo quanto si dice, verrebbe guidato da Trump e Tony Blair insieme a tecnocrati palestinesi. Ma la presenza di palestinesi o arabi in un simile organismo non cambia la sua natura: rimane un’entità estranea e una forma di dominio esterno. È inaccettabile a qualunque livello. Ogni fase di transizione per i palestinesi deve essere gestita dai palestinesi stessi e nel loro interesse.
Eppure Hamas ha accettato questo piano insidioso per i palestinesi.
Hamas a mio avviso ha accettato solo i punti sui quali è effettivamente in grado di accordarsi, nel rispetto delle prerogative che detiene soltanto il popolo palestinese. Hamas sa che non ha l’autorità di decidere quale dovrà essere la futura forma di governo della Palestina. Non possiede tale autorità, al momento nessuno la possiede. Questo significa che, per proteggere i diritti del popolo palestinese, bisogna innanzitutto difendere il diritto internazionale, in particolare il principio di autodeterminazione come riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia. Quanto allo scambio di prigionieri, bisogna ricordare che, se da un lato la presa di ostaggi è illegale, lo è altrettanto la detenzione dei circa diecimila prigionieri politici palestinesi, in base alla Terza Convenzione di Ginevra.
Più voci palestinesi affermano che siamo di fronte a una manovra volta a favorire i disegni di Netanyahu e del suo governo. È d’accordo?
Netanyahu deve alleggerire subito la pressione interna che lo sta opprimendo sulla questione degli ostaggi israeliani senza rinunciare all’occupazione e la possibilità di un pieno controllo su Gaza. Inoltre, cerca un modo per evitare l’isolamento internazionale in cui si trova. Bisogna considerare il momento in cui è emersa l’iniziativa americana: durante i lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in un contesto in cui cresceva il sostegno al riconoscimento dello Stato di Palestina, aumentava la pressione per un corridoio umanitario a Gaza e si registrava un forte slancio di solidarietà della classe lavoratrice in Europa. Il piano Trump ha anche lo scopo di bloccare lo slancio verso il rafforzamento del diritto internazionale per imporre un progetto di dominio che si traveste da soluzione politica.
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