NETANYAHU: MODELLO RAFAH PER LA STRISCIA. L’UE S’INDIGNA da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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NETANYAHU: MODELLO RAFAH PER LA STRISCIA. L’UE S’INDIGNA da IL FATTO e IL MANIFESTO

Netanyahu: modello Rafah per la Striscia. L’Ue s’indigna

Riccardo Antoniucci  22 Maggio 2025

Usa: “Israele vuole ancora bombardare i siti in Iran”

La telecamera era accesa, l’ambasciatore del Marocco aveva cominciato a parlare davanti a una barriera all’ingresso del campo profughi di Jenin, quando sono partiti gli spari. Tre, poi altri due. In aria. Sono soldati israeliani, cento metri più avanti, che lanciano “colpi di avvertimento” contro un gruppo considerato una minaccia. Ma il gruppo era una delegazione di 32 diplomatici tra arabi, europei (mezza Ue), russi, messicani, turchi e asiatici, invitati dal Ministero degli Esteri di Ramallah per un tour dei campi profughi della Cisgiordania. Tra loro anche l’italiano Alessandro Tutino. Lunedì erano stati a Tulkarem, si trattava di una “missione ufficiale per valutare la situazione umanitaria e documentare le violazioni dell’esercito israeliano contro il popolo palestinese”, ha specificato l’Anp. Nessun ferito, al momento degli spari solo 25 delegati si trovavano a ridosso della barriera. Ma il caso ha scatenato una generale riprovazione internazionale. Italia, Francia e Spagna hanno convocato gli ambasciatori di Israele per protestare. Da Bruxelles, Kaja Kallas ha detto che “qualsiasi minaccia alla vita dei diplomatici è inaccettabile”, la Germania ha chiesto di “fare immediatamente luce sulle circostanze”, Irlanda e Belgio si sono detti “inorriditi” e “sconcertati”, come Egitto e Giordania. L’Idf si è scusato, ha spiegato che la visita era concordata ma i delegati hanno deviato dal percorso stabilito e hanno incontrato una pattuglia ignara. Oltre alla consueta indagine interna, il generale di brigata Hisham Ibrahim incontrerà i rappresentanti degli Stati coinvolti per dare spiegazioni.

Nonostante l’aumento della pressione internazionale, Israele prosegue i suoi piani militari a Gaza, per un’offensiva che si prevede prolungata nel tempo. L’Idf ha occupato già oltre il 50% del territorio, e come nei primi giorni di guerra sta spingendo i palestinesi da nord verso Khan Younis e nella zona costiera di Al Mawasi, mentre nel resto rade al suolo gli edifici (“modello Rafah”). Quando il trasferimento sarà terminato, si avvierà la distribuzione di cibo. Infatti l’Onu lamenta che l’Idf non ha ancora autorizzato le ong a scaricare gli aiuti arrivati con la decina di camion entrati nell’enclave negli ultimi giorni. Una situazione che pure l’ex premier israeliano Ehud Olmert è arrivato a definire “vicina al crimine di guerra”, in un’intervista alla Bbc. Ieri 71 palestinesi sono stati uccisi, mentre Hamas ha confermato alla famiglia la morte di Mohammed Sinwar.

“A fine operazione controlleremo tutta Gaza”, ha insistito ieri Netanyahu, ripetendo che Tel Aviv è aperta a una tregua, purché Hamas accetti il disarmo. E il divario con Trump aumenta. Gli Usa temono che il premier voglia ancora bombardare l’Iran: fonti di intelligence hanno confermato a Cnn di aver osservato movimenti di bombe ed esercitazioni di caccia, anche se una decisione ancora non è stata firmata. Intanto, in Israele l’Alta corte ha decretato che la decisione di Netanyahu di licenziare il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, mesi fa, era illegale e il premier si trova in conflitto di interessi perché il servizio sta indagando sui suoi assistenti per il Qatargate. I giudici potrebbero impugnare il licenziamento, ma ieri Netanyahu ha insistito che “sarà il governo a nominare il capo dello Shin Bet”. Cioè lui.

Gaza, quelle correzioni di rotta che non danno garanzie

Di fronte ai crimini I laburisti Starmer e Lammy sono due avvocati di spessore che coprendo Netanyahu hanno dato un contributo a delegittimare l’azione della giustizia penale internazionale

Mario Ricciardi  22/05/2025

La corrente sta cambiando? Nel giro di qualche giorno si sono moltiplicate la prese di distanza dal governo israeliano da parte di politici, giornalisti e intellettuali europei che finora avevano difeso le azioni di Netanyahu nonostante andassero chiaramente contro il diritto internazionale, la moralità e anche la semplice decenza. Qualcuno, in posizioni di governo, si è spinto fino al punto di annunciare sanzioni (piuttosto blande e selettive) e a fare intendere che altre iniziative potrebbero seguire se non ci fossero misure per alleviare le condizioni drammatiche in cui si trovano i civili palestinesi, e in primo luogo i bambini, che sono i più vulnerabili.

La vicinanza temporale di queste prese di posizione, in particolare quelle da parte di alcuni grandi giornali a diffusione internazionale, e poi di qualche leader politico di orientamento centrista (come Macron e Starmer) ha fatto pensare a un coordinamento. C’è stato persino chi ha ipotizzato una regia statunitense, che però sarebbe difficile da conciliare con l’atteggiamento ondivago di Trump, che non pare desideroso di cooperare in modo stabile con nessuno in Europa.

Una spiegazione più plausibile è che un qualche coordinamento ci sia stato tra alcuni governi europei, e che questo sia avvenuto ora proprio in reazione alle prese di posizione della stampa internazionale. Pubblicazioni di diverso orientamento (Guardian, Economist, Financial Times), che in questi mesi hanno spesso faticato a mantenere l’equilibrio su Gaza, hanno dato un segnale chiaro: «Siamo oltre il limite oltre il quale la difesa di Netanyahu rischia di provocare problemi di stabilità, pericolosi per governi che già faticano a trovarla per via di altri fattori, sia sociali sia economici».

La politica ne ha preso atto, e ha messo in moto un’operazione di riduzione del danno. Le misure prese è improbabile che siano efficaci nel breve periodo, e sono quindi irrilevanti per le migliaia di bambini che rischiano di morire di fame nel giro di giorni, non settimane o mesi, e quelle solo annunciate si possono sempre rivedere, o lasciare in stallo, sperando che l’opinione pubblica perda interesse per ciò che accade in Palestina.

Particolarmente stridenti sono state soprattutto le dichiarazioni di Starmer e di Lammy, due esponenti laburisti e, vale la pena di ricordarlo, due avvocati di spessore, che hanno dato un contributo considerevole alla delegittimazione dell’azione della giustizia penale internazionale. Entrambi avevano da mesi tutti gli elementi (e forse anche molti che non sono ancora a disposizione del pubblico) per rendersi conto che a Gaza si stavano commettendo crimini di guerra su una scala raramente vista nella storia recente dei paesi che si affacciano sul mediterraneo, e che alcune delle politiche attuate dal governo israeliano sono potenzialmente genocide (una valutazione su cui c’è ormai un consenso massiccio tra gli esperti). Eppure non hanno mosso un dito, e hanno pure assecondato le azioni di delegittimazione nei confronti dei critici del governo israeliano cui abbiamo assistito anche in tanti altri paesi, dagli Stati uniti alla Germania. Come hanno fatto notare gli esponenti più agguerriti dell’opposizione da sinistra al governo laburista, alcuni dei quali sono ex parlamentari del partito cacciati durante le purghe starmeriane, le sanzioni contro alcuni esponenti più radicali della destra israeliana sono poca cosa se il Regno unito continua a fornire armi e supporto tecnico all’azione dell’Idf. Un tema su cui Starmer non ha dato i chiarimenti richiesti in parlamento.

Anche se motivata dalla riduzione del danno, la svolta cui abbiamo assistito in queste ore potrebbe avere qualche aspetto positivo, ma solo se si trasformasse in decisioni operative e efficaci. Germania e Italia, per esempio, non si sono associate alle iniziative prese da altri governi, e questo non è buon segno.

La «svolta» potrebbe fallire anche perché il governo israeliano ha interesse a esasperare la situazione in modo da costringere i tiepidi dissidenti a riallinearsi. Questo potrebbe accadere in seguito a un’azione militare contro l’Iran, per esempio, oppure come conseguenza di un «incidente», come quello avvenuto ieri pomeriggio a Jenin, in Cisgiordania, quando militari israeliani hanno sparato dei colpi di avvertimento verso una delegazione di parlamentari europei. Se fatti del genere portassero a un’esasperazione delle tensioni interne, e quindi anche a disordini (come quelli ipotizzati – o auspicati? – da un ex parlamentare del Pd nei giorni scorsi) potrebbe esserci un riallineamento.

Dove non arriva la comunicazione, potrebbe arrivare la repressione, e ci sono politici «moderati» in Europa che non sembrano ostili a misure illiberali utilizzate contro opposizioni anche non violente, ma politicamente molto motivate, come quelle che durante tutti questi mesi hanno difeso caparbiamente i diritti dei palestinesi.

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