NESSUN DOVE. LA FUGA IMPOSSIBILE DA GAZA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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NESSUN DOVE. LA FUGA IMPOSSIBILE DA GAZA da IL MANIFESTO

La fuga impossibile da Gaza

Terra rimossa Un milione di palestinesi da evacuare, migliaia già in viaggio sotto il fuoco. La presidente della Croce Rossa: «È irrealizzabile»

Eliana Riva  31/08/2025

La Croce rossa internazionale (Cri) fa appello al diritto e al buon senso per fermare l’espulsione della popolazione da Gaza City, composta in gran parte da profughi, categorie vulnerabili, feriti, ammalati. L’evacuazione del centro urbano non è solo «irrealizzabile ma anche incomprensibile nelle attuali circostanze» ha dichiarato la presidente della Cri, Mirjana Spoljaric. È impossibile che avvenga in modo «sicuro e dignitoso», né esiste un posto nella Striscia in grado di assorbire un milione di abitanti, «data la diffusa distruzione delle infrastrutture civili e l’estrema carenza di cibo, acqua, riparo e cure mediche».

SE TEL AVIV decidesse di proseguire con il suo piano, violerebbe il diritto umanitario internazionale, il quale richiede che alla popolazione civile siano assicurati «riparo, igiene, salute, sicurezza e nutrizione e che le famiglie non siano separate». Lo sfollamento però è già iniziato e migliaia di palestinesi si sono messi in marcia verso sud. Israele promette tende e cibo ma da mesi i suoi soldati bombardano tende e sparano su chi cerca cibo. Assicura nuove strutture mediche e pretende che si sposti al sud quel po’ di sanità che ha risparmiato nel nord. Ma le più importanti organizzazioni mediche internazionali hanno dichiarato che lo sfollamento non farà che peggiorare la catastrofe umanitaria. Senza contare che smantellare le strutture del nord servirebbe solo a rendere impossibile il ritorno della popolazione. «Tutti i civili sono protetti dal diritto internazionale umanitario – ha ricordato Spoljaric – sia che se ne vadano o rimangano indietro, e devono essere autorizzati a tornare a casa». Il piano israeliano di appiattimento prevede che nemmeno una casa resti in piedi a Gaza City.

GLI OMICIDI nella città aumentano giorno dopo giorno, così come le stragi di civili in fila per il pane, o nelle scuole-rifugio. Il copione è lo stesso degli ultimi undici mesi. Ogni volta che l’esercito decide di sfollare una zona della Striscia, vengono colpiti i luoghi sensibili affinché l’orrore e il panico aiutino nella deportazione. I filmati degli attacchi di ieri riprendono civili – tanti bambini – sanguinanti e fatti a pezzi. Il bombardamento alla panetteria nel quartiere di al-Nasr ha causato almeno undici morti tra le persone in fila.

UN ALTRO MASSACRO è stato compiuto quando gli aerei hanno colpito un edificio di cinque piani abitato da decine di civili nella zona di al-Rimal. Secondo l’esercito israeliano, l’obiettivo del bombardamento sarebbe stato Abu Obeida, il portavoce delle brigate Qassam, il braccio armato di Hamas. L’attacco ha causato il crollo parziale di un palazzo e la distruzione di diverse automobili che transitavano nell’area. In serata i soccorritori ancora tentavano di recuperare corpi e sopravvissuti dalle macerie. Almeno sette persone sono morte e altre sono state portate in ospedale in gravi condizioni. Anche le tende dei profughi nel quartiere Nassr sono state attaccate dai droni. Secondo i medici, ieri mattina Tel Aviv ha ucciso cinquanta palestinesi, almeno 26 nella sola città di Gaza. Mentre i Paesi dell’Unione europea – il maggior partner commerciale d’Israele – divisi e pavidi discutevano a Copenaghen di una proposta indulgente che potesse unirli in un’azione contro Israele, a Gaza morivano di fame altre dieci persone, tra cui tre bambini.

CONTINUANO anche le proteste in Israele, per chiedere di fermare le operazioni di Gaza City e raggiungere un accordo che salvaguardi la vita degli ostaggi. Ma il premier Benyamin Netanyahu è completamente disinteressato alle possibilità negoziali. Il quotidiano israeliano Haaretz ha riportato una telefonata tra il leader dell’opposizione Yair Lapid e un funzionario egiziano vicino al presidente Abdel Fattah al-Sisi. Quest’ultimo ha chiesto spiegazioni sulla sparizione di Netanyahu.

«SONO PASSATE due settimane e non siamo stati in grado di raggiungere il suo ufficio», ha dichiarato il funzionario. Manifestando stupore per la mancata risposta al piano di cessate il fuoco già accettato da Hamas e che sarebbe stato, nei fatti, redatto in base alle richieste dello stesso premier israeliano: «È stata una sua idea fin dall’inizio». Un accordo parziale da opporre all’accordo permanente preteso da Hamas. «Ora leggiamo sui media – ha detto la fonte egiziana a Lapid – che il tuo primo ministro rifiuta un accordo graduale e insiste su uno completo. Sei consapevole che Netanyahu ha deciso di uccidere il suo stesso piano?».

Una terra, questione politica non umanitaria

Palestina Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza

Marta Cariello  31/08/2025

A Gaza c’è un’emergenza umanitaria innegabile e riconosciuta che potrebbe segnare un (estremamente tardivo) cambio di passo nell’atteggiamento internazionale verso Israele. Lo stesso fattore umanitario, però, rischia di diventare l’arma spuntata di una lotta che è e resta politica. E che per questo disturba.

Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza. Si susseguono dichiarazioni e (timide) condanne contro l’operato di Israele, minacce di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni governi e, soprattutto, appelli affinché si ponga fine alla «crisi umanitaria», alla carestia, ai bombardamenti sugli ospedali.

Questo cambiamento potrebbe essere dovuto a una misura morale colma, dinanzi alla quale, almeno formalmente, non ci si può consegnare alla storia come silenti (restando complici, sia ben inteso), oppure all’opinione pubblica che preme e per fortuna dimostra di volersi e sapersi informare, nonostante o forse grazie alla marea di notizie in rete (e il libro di Francesca Albanese primo in classifica per vendite nella categoria “saggi” di queste settimane in Italia è una bella notizia, per esempio). Oppure, si tratta di riassestamenti politici di un’Europa che cerca nuovi posizionamenti nel mezzo delle scosse telluriche di Trump da un lato e la stabilità granitica della Cina dall’altro. O, ancora, potrebbero essere tutte queste cose insieme; difficile dirlo. Il dato che emerge, però, è che, di fronte allo smantellamento (per ora morale) dell’Onu e quindi lo svelamento pieno dell’utopia (o ipocrisia?) dell’universalismo dei diritti umani, si leva pur tuttavia l’unica contestazione che i leader europei riescono a produrre: fermare il massacro in nome del fattore «umanitario».

La questione dei diritti umani è tanto complessa quanto necessaria, e se ne potrebbe discutere molto a lungo, scomodando Marx e la sua critica della separazione tra Stato e società civile e della necessità dei diritti umani stessi, che dovrebbero garantire quanto lo Stato avrebbe invece come suo unico scopo: l’effettualità storica dell’eguaglianza. Si dovrebbe certo citare Hannah Arendt e le sue considerazioni sul «diritto ad avere diritti»; come si dovrebbe tener conto della riflessione di Judith Butler sulla vulnerabilità e la «gerarchia del lutto» che scardina il presunto universalismo dei diritti umani. Ma la questione umanitaria, evidentemente fondamentale nell’urgenza del qui e ora, delle vite in ballo e non ultimo della definizione di genocidio applicabile alle azioni di Israele a Gaza, diventa un velo, che copre e oscura la dimensione fondamentale della questione palestinese: quella politica.

La lotta palestinese è sempre stata politica, impressa nella storia dall’icona di Arafat con il ramo d’ulivo in una mano e il fucile nell’altra alle Nazioni unite, tradotta nelle pietre contro i carri armati di due intifada; lotta armata e negoziazione diplomatica, i venerdì della rabbia sul confine spinato e la poesia più potente del fuoco. Citiamo solo due esempi in un oceano di letteratura della resistenza: Mahmoud Darwish, che scriveva «Prendi nota, sono arabo… non verrò mai a mendicare alla tua porta / ti secca?»; e il testamento straziante di Refaat Alareer: «Se dovessi morire fa che io sia un racconto…». Questa lotta ha sempre riguardato la terra e non la religione; ha sempre riguardato l’occupazione (che è un fatto politico). La trappola della discendenza e della «prelazione» – chi c’era per primo avrebbe il diritto di possedere – distrae anch’essa, ricolonizza anche l’identità palestinese, dentro una narrazione dell’esclusività che è propria del colonialismo europeo e, nella sua apoteosi messianica, del sionismo. L’autodeterminazione di un popolo ora non può più prescindere da una rivendicazione identitaria, dove non è la terra che offre la possibilità di un’identificazione per chi – anche transitoriamente nel corso dei secoli – la abita, ma è l’identità che decide e assegna una terra. In questo rovesciamento il gioco sarebbe sempre a somma zero. Invece, nella dinamica politica, non lo è mai.

Quella palestinese è, ripetiamolo e studiamola in quanto tale, sempre stata una questione politica, e continua a esserlo. È ed è sempre stata la soggettività politica palestinese sotto attacco, perché riporta sempre e costantemente il progetto coloniale europeo e israeliano alla sua dimensione politica. Ma proprio per questo, l’annientamento fisico e sistematico della popolazione non cancella la questione palestinese, perché, come si diceva una volta, chi lotta non muore mai.

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