LEGGE E BULLDOZER, IL NAQAB NON È UN POSTO PER PALESTINESI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LEGGE E BULLDOZER, IL NAQAB NON È UN POSTO PER PALESTINESI da IL MANIFESTO

Legge e bulldozer, il Naqab non è un posto per palestinesi

Chiara Cruciati  14/12/5025

UMM AL HIRAN (NAQAB)

Palestina/Israele Villaggi in macerie, township ad hoc e sconfitte in tribunale: i cittadini di Israele non sono tutti uguali. Nella regione a sud, in dieci anni demolite 30mila strutture, una ogni quattro ore: al loro posto miniere, fabbriche, quartieri solo ebraici. «Dopo ottanta anni ancora non ci danno alcuna alternativa, se non il trasferimento continuo. Ovunque andiamo, ci mandano via»

«Il Naqab è talmente grande che potrebbero costruirci un paese intero». Marwan Frieh traduce l’impressione che si ha nel viaggiare in mezzo al deserto nel sud di Israele, il 60% della Palestina storica. E se il viaggio ha per destinazione le macerie di un villaggio beduino palestinese, distrutto dai bulldozer dello Stato, quelle parole sottendono la più retorica delle domande: perché demolire un villaggio per fare spazio a un nuovo quartiere ebraico se c’è tanto spazio a disposizione?

«Perché ci stanno mandando il solito messaggio: la nostra presenza qui, ai loro occhi, è temporanea. Possiamo essere trasferiti, in ogni momento, ancora e ancora». Frieh è un avvocato, lavora con Adalah, il Centro legale per la minoranza araba in Israele. È nato e cresciuto in un villaggio non riconosciuto nel Naqab e dieci anni fa è stato tra i leader del movimento giovanile che fermò il Prawer Plan, il piano israeliano di distruzione delle comunità beduine palestinesi e il trasferimento di decine di migliaia di persone in township.

QUEL PIANO è riemerso, anche il suo congelamento era stato temporaneo. Non si chiama più così, ma il senso è lo stesso: massimizzare la popolazione palestinese beduina in città costruite ad hoc, dormitori senza speranze, mentre le case di una vita – quella pastorale – vengono tramutate in una massa indistricabile di macerie e lamiere. Circa 220mila beduini hanno già ceduto, si sono trasferiti; 35mila hanno vinto: i loro undici villaggi sono stati riconosciuti dallo Stato. Altri 90mila resistono in 37 comunità considerate illegali da Tel Aviv.

Le ragioni della presunta illegalità variano. Molti villaggi precedono lo Stato di Israele, sono più vecchi, ma dopo la colonizzazione della Palestina le neonate autorità non li mapparono tutti. Ne segnalarono solo alcuni, per poi ripresentarsi anni dopo per accusarli di aver tirato su un villaggio abusivo. In altri casi è stato proprio lo Stato a trasferirli dove sorgono ora, con ordine militare. Decenni dopo le stesse autorità hanno cambiato idea, lì non ci possono più stare.

È il caso di Umm al-Hiran. La comunità distava pochi chilometri dalla città di Dimona e altrettanti dal sud della Cisgiordania. Ci vivevano 350 persone, dentro case in mattoni. Intorno, rocce e arbusti, piccoli pascoli. Da un anno non esiste più: nel novembre 2024 i suoi abitanti sono stati costretti a demolire con le proprie mani. «Se non lo fai, lo fanno loro – continua Frieh – E ti fanno pagare le spese, centinaia di migliaia di shekel». Il resto lo hanno fatto i bulldozer, accompagnati da droni ed elicotteri, come fosse un’operazione militare. Dopotutto, dice uno dei residenti, «non ci considerano cittadini, ma nemici».

Nel primo anniversario dalla distruzione, gli abitanti si ritrovano lì, bloccati in un passato congelato. Le macerie non sono state rimosse. Mattoni verniciati di bianco, sbarre di ferro, un wc, i ferri che sbucano dal cemento armato sono la mappa sfilacciata della forma che aveva il villaggio. Ragazzine in jeans o in abiti tradizionali si arrampicano sulle rovine, i bambini le usano come trampolini per saltare più alti che si può. Un’anziana si aggiusta l’abito ricamato e si siede su quella che era la sua casa, osserva dall’alto il gruppo venuto a commemorare la perdita. Il deputato comunità israeliano Ofer Cassif e il segretario uscente dell’High Follow-up Committee for Arab Citizen in Israel, Mohammad Baraka, tengono un breve discorso, parlano di «lotta congiunta di palestinesi ed ebrei» dentro un regime di apartheid di cui le rovine sono una delle messe in pratica. I cittadini dello Stato non sono tutti uguali.

«L’IRONIA tragica è che questi villaggi precedono Israele – ci dice Ofer Cassif – O come nel caso di Umm al-Hiran è stato lo Stato a dargli questa terra quando con un ordine militare li cacciò dalla loro. È una deformazione politica, una discriminazione strutturale fin dalla fondazione di Israele, una politica che non nasce con Netanyahu. È impossibile non vedere la connessione tra il genocidio a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania e quella dentro Israele».

Il Naqab è invisibile eppure è stato centrale nella fondazione di Israele: «È la metà della Palestina storica, è stato per secoli terra di beduini – ci spiega Wissam Salah Aldeek di Bedouins Without Borders – Per questo Israele ha sempre avuto bisogno di narrare il deserto come vuoto. Non è così: in Naqab vivevano 100mila beduini palestinesi, dopo la Nakba appena 11mila. Come non è vero che noi beduini siamo nomadi: dall’Africa allo Yemen, ogni tribù vive su un territorio di cui conosce i confini, si sposta al suo interno per la pastorizia, su base stagionale».

Sopra le rovine della moschea Raed Abu al-Qian, la kefiah che gli avvolge la testa, grida che hanno cancellato la storia. Hanno distrutto gli alberi e i ricordi di chi qui è nato «come i miei genitori». Fa caldo, caldissimo. Si solleva una brezza torrida, la sabbia si infila in bocca e negli occhi. Poco più a valle si intravedono gli alberi piantati dal Jewish National Fund, pratica antica, un secolo e mezzo di vita: si sradicano gli ulivi e si piantano pini e abeti, che nulla hanno a che fare con questa terra ma servono a mascherarne l’identità e a obliare tutto quello che c’era prima. Una pratica di rimozione che con la Nakba ha raggiunto il suo apice, ma che non si è fermata mai: solo negli ultimi dieci anni «sono state demolite 30mila strutture in Naqab – dice Baraka – Una ogni quattro ore».

La commemorazione a Umm al Hiran a un anno dalla demolizione del villaggio (foto Chiara Cruciati)

Il prossimo villaggio nella lista della cancellazione è Ras Jrabah dopo che, il 12 novembre scorso, la Corte suprema ha rigettato il ricorso finale dei residenti: 500 persone verranno cacciate per allargare la città di Dimona. Non solo: come nota Adalah, «la sentenza della Corte suprema garantisce allo Stato l’autorità legale di sgomberare persone dalle loro terre senza alcun obiettivo legittimo di pianificazione o la necessità di dimostrarlo». Il più alto tribunale legittima le politiche di espropriazione. Succede dal 1948 e provare a combattere l’uso politico della giustizia è un bagno di frustrazione.

MARWAN FRIEH lo fa da anni, nelle aule giudiziarie, sapendo di avere davanti un’applicazione «mobile» della legge, flessibile, che si adegua alle esigenze politiche dello Stato perché il banco vince sempre. «La vittoria di dieci anni fa, quando costringemmo Israele a congelare il Prawer Plan, è evaporata – dice Frieh – Non si chiama più così, ma è operativo: con gli alberi del Jnf, con nuove fabbriche di armi sulle terre confiscate, con la demolizione di villaggi per motivi di “interesse nazionale” e 2.500 case distrutte in due anni, con le miniere di fosfato, con l’espansione della Road 6…attraversa in pieno dodici villaggi non riconosciuti. In uno, Wadi al-Khalil, sono già partite le demolizioni. A chi ci abita non hanno dato alcuna soluzione abitativa. La modalità è la solita: eviction now, planning later. Sgombero subito, pianificazione più tardi».

Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, le autorità israeliane hanno costruito sette township dove spostare decine di migliaia di beduini palestinesi, contro la loro volontà e il loro stile di vita. Amer El Atkh vive in quella di Rahat. Avvocato ed ex parlamentare per il partito di sinistra palestinese Balad, ce la descrive come un non-luogo: «È affollata, gli appartamenti sono piccoli, c’è tanta povertà. Le persone hanno dovuto abbandonare la pastorizia per andare a lavorare in fabbrica con salari miseri. Le township sono le città più povere di tutto il paese, sono solo dei dormitori. Abbiamo la scuola e nulla più, nessun servizio sociale e comunitario. Il comune non riceve fondi a sufficienza, a differenza delle vicine città solo ebraiche. I ragazzi che si diplomano non hanno alcuna scelta: o la fabbrica o la criminalità. Le università costano troppo».

A qualche minuto in macchina da Umm al-Hiran sorge Hura, la township costruita nel 1989 dove Tel Aviv ha costretto gli sgomberati: nel nuovo quartiere di Dror, quello che sorgerà al posto del loro villaggio, non sono ammessi, lo dice lo statuto della futura comunità («Solo ebrei israeliani»).

Ai bordi delle strade si accumula immondizia, alcune non sono nemmeno asfaltate. I fili dell’elettricità penzolano. Alle abitazioni in cemento si alternano baracche in alluminio e compensato. Alla periferia una piazzola di terra gialla ospita sette caravan. Sono diventati la casa della famiglia di Yacub Abu al Qian, professore di matematica ammazzato dalla polizia israeliana nel 2017 durante un tentativo di demolizione. La sua famiglia è stata l’ultima a lasciare Umm al-Hiran l’anno scorso. Si è rifugiata qui, su indicazione delle autorità israeliane. Due mesi dopo, però, quelle stesse autorità si sono presentate alla porta: ordine di demolizione.

«CI HANNO DETTO che questa è terra pubblica, non possiamo costruire. Ci hanno spostato contro la nostra volontà e ora ci dicono che anche questa era una soluzione temporanea – dice Akram Abu al Qian, figlio di Yacub – Abbiamo chiesto di cambiare la denominazione di questo lotto a residenziale, ma non hanno risposto».

«Sono case primitive, con condizioni minimali, le abbiamo costruite da soli. Abbiamo messo pannelli solari e cisterne dell’acqua perché non siamo allacciati alle reti – aggiunge – In queste sette case vivono quattro dottori, un ingegnere e otto insegnanti: siamo un pezzo di società che può fare cose buone, positive. Ma dopo 80 anni ancora non ci danno alcuna alternativa, se non il trasferimento continuo. Ovunque andiamo, ci mandano via».

Due settimane dopo la famiglia Abu al Qian è stata costretta a demolire quei rifugi con le proprie mani.

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