IL FILO NERO CHE LEGA LE STRAGI “LA VERITÀ C’È TUTTA. O QUASI” da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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IL FILO NERO CHE LEGA LE STRAGI “LA VERITÀ C’È TUTTA. O QUASI” da IL MANIFESTO


Il filo nero che lega le stragi «La verità c’è tutta. O quasi»

Mario Di Vito  12/12/2025

Piazza Fontana Intervista a Guido Salvini. Il giudice che scrisse l’ultima parola sulla bomba di Milano: «Lo stato e gli Usa sapevano»

Guido Salvini

Cinquantasei anni dopo, la strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 – 17 morti, 88 feriti – è ancora una maledizione. Anche se la storia e la giustizia hanno fatto il loro corso, e molto si è scoperto, molto si è detto, molto si è scritto. Piazza Fontana è una maledizione perché, al di là della più o meno condivisibile retorica sulla perdita dell’innocenza e sulla «madre di tutte le stragi», la verità continua ad essere incompleta, anche se in realtà esiste e può essere raccontata. Il giudice Guido Salvini, in pensione dal dicembre 2023 dopo quarant’anni di carriera, nel 2019, con Andrea Sceresini, ha pubblicato un libro che s’intitola proprio «La maledizione di piazza Fontana». Ora fa l’avvocato, ma negli anni ’90 è stato lui a scrivere l’ultima pagina giudiziaria sull’eccidio del 12 dicembre. Carta canta: è stato Carlo Digilio insieme ad altri militanti veneti di Ordine Nuovo.

Salvini, perché secondo lei il percorso giudiziario di questa strage è stato così accidentato?
Partiamo da un dato: anche le sentenze di assoluzione affermano comunque la responsabilità di Ordine Nuovo. Per quanto riguarda Carlo Digilio, detto «zio Otto», che era il tecnico-logistico di quell’organizzazione in Veneto, è stato giudicato responsabile in primo grado dopo aver confessato. Però in virtù della sua collaborazione, il concorso nella strage è stato dichiarato prescritto, così vuole il codice. Le sentenze attestano anche la sua responsabilità per la strage di piazza della Loggia del 1974 e per quella della Questura di Milano del 1973. Tutto questo lo ha confermato la Cassazione, evidenziando che la responsabilità di Ordine nuovo è pacifica anche in virtù delle nuove prove raccolte su Franco Freda e Giovanni Ventura, in precedenza assolti al processo di Catanzaro.

Il dato giudiziario è dunque fuori discussione. Ma crede che il lavoro degli inquirenti sia stato scientemente sabotato per allontanare la verità?
Se parliamo dei primi processi di certo sì, i depistaggi sono documentati. Ma negli anni ’90 a Milano piuttosto c’è stata una stupida guerra tra magistrati, causata da invidie e che di certo io non ho dichiarato e che e stata il principale ostacolo al raggiungimento di una verità completa. È tutto scritto nel mio libro e nessuno lo ha mai smentito.

E allora?
Cosa vuole che le dica? In quegli anni ho passato quasi più tempo a difendermi davanti al Csm che a indagare su queste vicende e nessuno ha chiesto scusa non tanto a me quanto ai parenti delle vittime. Comunque molti risultati sono stati raggiunti…

Per esempio, nella sua ordinanza del febbraio 1998, tra le altre cose, lei inserisce nel quadro della strategia della tensione anche Gilberto Cavallini, recentemente condannato all’ergastolo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Ricordo molto bene gli interrogatori di Cavallini. Quando si parlava di Digilio tremava. Evidentemente sapeva che era uscito solo una parte di quello che Digilio sapeva di lui. Digilio ha raccontato che da anni lui e Maggi rifornivano Cavallini di armi. Interrogato nel febbraio del 1997, Digilio raccontò poi che quel 2 agosto Cavallini si era recato in segreto da lui al poligono di tiro di Venezia anche se non si incontrarono direttamente. In ogni caso risultava chiaro il legame operativo tra Cavallini e Ordine nuovo. Per questa parte delle mie indagini la condanna è divenuta definitiva ed è stata il punto di partenza per le nuove indagini su Bologna. Altrimenti non ci sarebbero mai state.

Infatti il dettaglio è divenuto importante anche negli ultimi processi sulla strage di Bologna.
Sì, secondo me quello era un messaggio, un modo che Digilio ha usato per collocare in qualche modo Cavallini nel contesto della strage, senza dire di più. Del resto Digilio era una persona molto particolare.

In che senso?
Era molto intelligente, ha deciso sino all’ultimo cosa dire e cosa non dire. Non era il classico pentito, perché non ha mai fatto un racconto completo e si capiva che sapeva molto più di quello che sceglieva, lui, di dirci. Aveva rapporti ad alto livello, anche con i servizi segreti americani. Sapeva come sfilarsi dalle situazioni: quando parlava degli episodi più gravi li descriveva come se fosse un osservatore esterno più che un complice. Purtroppo i suoi interrogatori erano resi complicati dalle sue condizioni di salute: nel 1995 aveva avuto un ictus e questo ha molto rallentato gli interrogatori. Comunque in me aveva una certa fiducia e riuscivo sempre a ottenere qualcosa. Una volta scaduto il termine per le mie indagini nessuno è andato più a interrogarlo sino a quanto nel 2005 è morto. Lascio il giudizio a chi legge.

Lei è d’accordo con l’espressione «strage di stato»?
Non credo che lo stato abbia deciso la strage di piazza Fontana. Però di certo sapeva cosa faceva Ordine Nuovo. Emilio Taviani ci raccontò la storia dell’avvocato e agente del Sid Matteo Fusco di Ravello che proprio il 12 dicembre stava partendo da Roma verso Milano per impedire che l’attentato, che doveva essere solo dimostrativo, si trasformasse in una strage Ma non fece in tempo. Ciò significa comunque che c’era consapevolezza di cosa facesse Ordine Nuovo e questo vale sia per le autorità italiane sia per quelle statunitensi. Penso che la decisione di arrivare alla strage sia stata però una scelta dei diretti esecutori. Oggi li chiameremmo «accelerazionisti»: volevano creare una situazione irreversibile, portare il paese alla guerra civile contando su un intervento dei militari…

Pensa che ci sia ancora spazio per iniziative giudiziarie sulla strage di piazza Fontana?
No. Credo che ormai abbiamo raggiunto i limiti estremi della conoscenza. Ma quello che sappiamo, mettendo insieme il contenuto indiscutibile dei vari processi che si sono celebrati , mi pare già moltissimo.

Il «nemico interno» e l’arruolamento dei neofascisti

Saverio Ferrari  12/12/2025

La strategia militare Un progetto con molti attori e protagonisti, di sicuro non il frutto di un unico “burattinaio”, ma certamente con più di una cabina di regia ancora da valutare appieno nella sua valenza storica

Per essere compresa la strategia della tensione, definizione coniata dopo la strage di Piazza Fontana da due giornalisti inglesi dell’«Observer» attenti alle vicende italiane, deve necessariamente essere collocata nel contesto internazionale della guerra fredda.

Un progetto con molti attori e protagonisti, di sicuro non il frutto di un unico “burattinaio”, ma certamente con più di una cabina di regia ancora da valutare appieno nella sua valenza storica. Nella ricostruzione, infatti, delle traiettorie nel dopoguerra dell’anticomunismo che pervadeva le nostre classi dirigenti, i suoi ceti politici e industriali, nonché alcuni importanti vertici istituzionali, sono state spesso sottovalutate le gerarchie militari. L’attenzione è stata principalmente rivolta agli apparati di polizia e di intelligence, non ai comandi militari, posti invece a un livello superiore, autentiche strutture decisionali all’interno dell’Alleanza Atlantica, nonché snodo delle direttive e degli indirizzi politico-militari approntati in ambito Nato.

Il salto di qualità avviene con la nomina nel 1962, ministro della difesa Giulio Andreotti, del generale Giuseppe Aloja a capo di Stato maggiore dell’Esercito. Durante la sua gestione, come ha ben documentato in un lavoro di recente pubblicazione lo storico Jacopo Lorenzini I colonelli della Repubblica. Esercito, eversione e democrazia in Italia 1945-1974 (Editore Laterza), si introdussero cambiamenti decisivi con l’assunzione delle teorie della cosiddetta guerra rivoluzionaria, maturate inizialmente a partire dal 1955 nello Stato maggiore dell’esercito francese dopo la storica sconfitta in Indocina a seguito della battaglia di Dien-Bien- Phu, rielaborate a cavallo degli anni sessanta dagli Stati Uniti (presidenza John Fitzgerald Kennedy), per cui nell’ambito della parità nucleare con l’Urss, lo scontro si spostava dentro i confini dell’Occidente, dove i comunisti operavano per la sovversione.

L’esigenza era di un «nuovo tipo di esercito» per «un nuovo tipo di guerra» ormai «totale», senza più confini, con un «nemico interno» individuato nei sindacati e nelle forze di sinistra. Da qui una nuova dottrina per i Paesi Nato, la ristrutturazione in Italia delle forze armate da modellare per la «difesa interna», capaci di condurre la guerriglia e la controguerriglia, di operare sabotaggi, infiltrazioni e attacchi terroristici. Da qui anche i nuovi manuali, gli addestramenti nel Meridione (come nel giugno 1965 con l’esercitazione “Vedetta Apula” in un territorio dal Gargano al Cilento alla costa lucana per reprimere «focolai di guerriglia»), i nuovi corsi nelle Scuole di guerra, lo studio della sociologia applicata al condizionamento dell’opinione pubblica, ovvero la «guerra psicologica», l’introduzione obbligatoria nella fanteria dei Corsi di Ardimento per la selezione ideologica dei militari di leva, tenuti da ufficiali che avevano preso parte alle occupazioni balcaniche (1941-1943), alle imprese coloniali, combattuto con i tedeschi.

La rivista militare, organo ufficiale dello Stato maggiore dell’Esercito, ospitò in quegli anni importanti interventi a favore dell’esigenza di imprimere una torsione autoritaria al Paese, dal generale di brigata Francesco Mereu nel 1961 («i movimenti politici protesi alla sostituzione del governo» vanno ridotti «all’inazione prima che abbiano potuto turbare pericolosamente l’equilibrio») al maggiore Enrico Rebecchi nel 1962 («la libertà è un bene di altissimo valore» ma «il regime che esso comporta permette ai partiti di opposizione di prepararsi e organizzarsi come meglio credono»). Si arrivò a sperimentare nelle esercitazioni (vedi “Aquila Bianca” dell’autunno 1965 con il coinvolgimento della struttura di Gladio e di elementi delle Special Forces Us) «l’ipotesi di una parte del territorio occupato» dai sovietici, ma anche a livello teorico di trarre insegnamenti nel campo della guerra di guerriglia dal «pensiero militare di Mao Tse-tung» (Rivista Militare marzo 1965).

I convegni sono questi gli anni dei convegni in ambito Nato, a Roma nel 1961 (La minaccia comunista sul mondo) e nel maggio 1965 per iniziativa dello Stato maggiore dell’Esercito all’Hotel Parco dei Principi (La Guerra rivoluzionaria), con il coinvolgimento di esponenti missini e monarchici, ma soprattutto sono gli anni del reclutamento dei capi fascisti di Ordine Nuovo da parte dei vertici militari (a partire da Pino Rauti) e di quelli di Avanguardia Nazionale per l’azione provocatoria diretta. Il servizio segreto militare (Sifar) fornirà loro supporto e protezione, poi arriverà il Sid.

La strategia della tensione parte da lontano, ben prima della strage di Piazza Fontana, fondamentale in questo ambito il ruolo degli alti comandi militari.

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