DALLE URNE SI INTRAVEDE L’USCITA DAL TUNNEL da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DALLE URNE SI INTRAVEDE L’USCITA DAL TUNNEL da IL MANIFESTO

Dalle urne si intravede l’uscita dal tunnel

Luca Celada  06/11/2025

Il voto negli Usa Dalla Casa bianca alle capitali dell’internazionale nazional populista, si è gridato alla testa di ponte della conquista islamica dell’occidente, all’epocale sconfitta nello scontro esistenziale di civiltà o, a scelta, di […]

Dalla Casa bianca alle capitali dell’internazionale nazional populista, si è gridato alla testa di ponte della conquista islamica dell’occidente, all’epocale sconfitta nello scontro esistenziale di civiltà o, a scelta, di una dittatura del proletariato instaurata a Times Square.

In realtà gli ideali di inclusione, giustizia ed equità articolati con carisma e «gioia» da Zohran Mamdani sono funzionali a una certa narrazione fondativa americana – quella che il trumpismo da un anno ha messo sotto attacco in tutte le sue forme. Nel discorso della vittoria, il sindaco neoletto ha cominciato con il rivendicare la storia della sinistra americana, ha citato Eugene Debs, membro fondatore del Iww, il sindacato internazionalista delle lotte di classe dell’inizio del XX secolo, unico socialista a candidarsi alla presidenza Usa (dal carcere) nel 1920.

E fra tutti i predecessori ha scelto di ricordare Fiorello La Guardia – il sindaco ancora più benvoluto della storia cittadina. La Guardia, nipote di nonno garibaldino, figlio di padre pugliese e madre ebrea triestina, fu fautore di una coalizione trasversale e una solidarietà tra gli abitanti e gli immigrati della Grande Mela, negli anni critici della depressione e della Seconda guerra mondiale.

Nell’improbabile arco di un anno iniziato ad avvicinare da solo e a presentarsi a passanti affrettati, e finito nel tripudio del victory party del Paramount Theater di Brooklyn, Mamdani è riuscito a ricomporre un simile immaginario collettivo.

Oggi molti quartieri italoamericani (Staten Island, Bensonhurst, Williamsburgh) sono roccaforti conservatrici (e tendenzialmente trumpiste). Il trentaquatrenne sindaco neoletto, musulmano di discendenza indiana (via diaspora africana) ha invece costruito la sua nuova coalizione tra gli immigrati più recenti e la working class emarginata all’interno della propria città gentrificata e finanziarizzata.

Il sostegno a Mamdani è stato ancorato nelle comunità di immigrati africani, ispanici e ovviamente quelle sud asiatiche in cui «giocava in casa». Ha replicato il modello obamiano con forti maggioranze tra giovani, donne, afroamericani, progressisti ed ebrei. Un appeal identitario, ma sempre fortemente ancorato a un messaggio ugualitario e al rinnovato patto sociale sostenuto dall’ala socialdemocratica che fa capo a Bernie Sanders.

Nel suo discorso, Mamdani ha citato anche Jawaharlal Nehru, primo premier di un’India diventata indipendente un anno dopo la nascita di suo padre Mahmood a Bombay, nel 1946: «Solo raramente nel corso della storia, vi sono momenti in cui si esce dal vecchio e si entra nel nuovo».

E tra gli sconfitti dell’elezione occorre annoverare la leadership del partito democratico. Già messi in profonda crisi dalla presidenza Trump, i vertici del partito sono apparsi di colpo ancora più arcaici e anacronistici alla luce della ventata di nuovo arrivata da New York. Hakeem Jeffries, leader della minoranza alla Camera, che dopo aver nicchiato per mesi, si è deciso solo la scorsa settimana a ufficializzare il proprio sostegno per Mamdani (Chuck Schumer leader democratico al senato non lo ha mai fatto). E lo stesso Andrew Cuomo, che l’endorsement l’ha invece ricevuto da Trump.

Il presidente da settimane inveisce contro il «jihadista» e «comunista» ricordando che il presidente è lui, con facoltà di trattenere i contributi federali alla città. Conoscendo gli umori presidenziali sono plausibili a questo punto dispiegamenti di guardia nazionale o forze paramilitari anti immigrazione che la Casa bianca usa come clava contro le città «inadempienti». La retorica del presidente si nutre dopotutto di nemici veri o immaginari, specie di quelli interni, descritti di volta in volta come «marxisti» radicali o terroristi.

Il copione è noto, nessuno si sorprenderà ormai se il presidente che ha incitato un assalto al parlamento dovesse optare per l’escalation. La battaglia per l’immaginazione del paese passa per la narrazione simbolica e Mamdani ne ha messa in campo una sufficientemente potente da galvanizzare una coalizione stanca della prevaricazione e del caos trumpiano.

Cosa signifca allora per il partito e per il paese la vittoria Mamdani?

È significativo forse che l’elezione di ieri sia svolta sullo sfondo dello shutdown. La paralisi parlamentare provocata dall’ostruzionismo dei democratici, mira a bloccare i tagli di Trump ai sussidi pubblici per l’assicurazione medica (Obamacare). La rappresaglia di Trump, che rifiuta ogni dialogo, consiste attualmente nel taglio degli alimenti e dei buoni pasto per 40 milioni di americani disagiati, una posizione che anche molti repubblicani ritengono politicamente suicida. Non è chiaro se un’«invasione» militare di New York, simile a quelle di Los Angeles e Chicago, gioverà alla popolarità di Trump.

Le vittorie di New York poi, ma anche delle governatrice democratiche in Virginia e New Jersey, della sindaca di Detroit, perfino di membri democratici sulla authority energetica della repubblicana Georgia, il ricostituirsi di maggioranze ispaniche sotto lo stemma democratico, puntano tutte a un’insofferenza diffusa, un punto di saturazione forse con l’assalto di Trump alla nazione e alle sue istituzioni, le sue sale da ballo e i suoi infissi dorati, i suoi agenti mascherati sulle strade delle città. Le amministrative hanno preso la temperatura di un paese che fa le prove, forse, per immaginare alternative, uscire da un tunnel.

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