COME VA OGGI LA BATTAGLIA DEL GOLFO da IL MANIFESTO
Come va oggi la battaglia del Golfo
Medio Oriente «Come va a Stalingrado» chiedeva la Resistenza europea. Ora non vediamo chi vince, chi perde appesi a «tregue» esili mentre Netanyahu, che vuole l’incendio, massacra Gaza
Alberto Negri 25/06/2025
Due partigiani, un ucraino e un polacco, nell’inverno del 1943 escono dal loro rifugio e chiedono con apprensione a quelli che incontrano: «Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?».
Inizia così “Educazione europea”, romanzo di Romain Gary, grande scrittore ed eroe della resistenza francese. Come va oggi la battaglia del Golfo?
La nostra attuale educazione europea deve ancora cominciare, perché non conosciamo più le guerre. E neppure chi le vince e chi le perde. Soprattutto quando vengono proclamate tregue fragili e persino evanescenti. Basta pensare a Gaza dove i palestinesi affamati e torturati muoiono tutti i giorni.
Non è retorica: questa guerra del Golfo nasce nel momento in cui né gli Stati uniti né l’Europa si sono opposti al genocidio di un popolo. Se ammetti questo, tutto il resto è possibile.
Abbiamo lasciato mano libera a Netanyahu di incendiare il Medio Oriente.
Ma quando la casa del tuo vicino brucia anche la tua casa potrebbe bruciare: questo gli americani, a migliaia di chilometri da qui, non l’hanno mai capito. Tanto meno questo disperato che sta alla Casa Bianca, già pentito di quello che ha fatto in Iran. La guerra in Afghanistan nel 2001 è costata migliaia di morti e di profughi, per poi restituire il Paese ai talebani. In Iraq nel 2003 abbiamo gettato uno stato nel caos, nella guerra civile e nel jihadismo. Per non parlare della Libia, divisa, ferita e in mano a bande criminali che colpevolmente anche noi italiani accettiamo e foraggiamo.
Ma queste cose forse Trump non le sa o fa finta di ignorarle: lui non sa neppure che cosa è stata Stalingrado. E soprattutto ha persino sbeffeggiato i suoi servizi segreti dando credito a quelli israeliani che assegnavano già all’Iran una bomba atomica. Invece di continuare a negoziare con Teheran si è fatto imporre l’agenda di Netanyahu: Israele ha attaccato l’Iran quando, dopo due giorni, si dovevano tenere incontri in Oman tra Washington e Teheran.
Nonostante i suoi potenti cacciabombardieri, Trump ha dato dimostrazione di un’estrema debolezza. La tecnica è importante ma non è mai una politica. Questa è una guerra che lui poteva evitare e non l’ha fatto. Aveva promesso di portare la pace nel mondo e alla fine ha ceduto al premier israeliano.
Vanno incontro, Usa e Israele, a una sconfitta? Forse. L’obiettivo non era solo il nucleare iraniano ma il cambio di regime e soprattutto ridurre l’Iran come l’Iraq e la Siria. Ovvero senza un esercito, un’aviazione e una base industriale, spogliando popoli e paesi di qualunque sovranità.
Il piano strategico americano e israeliano non è certo la stabilizzazione del Medio oriente ma quello di condurre la regione nel caos, disgregando gli stati nati dalla dissoluzione dell’impero ottomano e del colonialismo anglo-francese. Se noi guardiamo la mappa della regione ci rendiamo conto che i confini degli stati attuali sono più una convenzione che una realtà.
In Medio Oriente secondo Netanyahu e soci deve esistere solo un colonialismo, quello israeliano che decide non soltanto la sorte dei palestinesi ma quella degli stati di tutta la regione. Per ora questo progetto resta in piedi e infatti nel Golfo e altrove la guerra è destinata a continuare.
L’Iran, pur con un regime inaccettabile secondo i nostri standard occidentali, si è opposto a questo destino. Ma oggi Trump annaspa perché non sa cosa fare e rischia di ripetere gli errori disastrosi fatti dalle altre amministrazioni americane.
E noi qui, in Europa e nel Mediterraneo, cosa abbiano da dire? Poco o nulla: il presidente Usa non ci considera degni interlocutori, a Israele, governata da un ricercato della corte penale internazionale, non imponiamo neppure una sanzione. Dovremmo ribellarci ma per farlo ci vuole una dignità che forse non abbiamo. E non siamo degni neppure della memoria di Stalingrado.
Teheran ultimo atto del «tecnorazzismo» dell’atomo
Non proliferazione Distruggere il regime internazionale di non proliferazione nucleare per salvarlo. O meglio, per preservare le gerarchie ad esso sottese
Vincenzo Poti 25/06/2025
Distruggere il regime internazionale di non proliferazione nucleare per salvarlo. O meglio, per preservare le gerarchie ad esso sottese. È questa una possibile lettura dell’attacco statunitense agli impianti nucleari dell’Iran, in particolare il sito di Fordow, colpito prima dai B-2 dell’Usaf e poi da Israele.
L’Iran, membro del Trattato di non proliferazione nucleare (Npt) dalla sua entrata in vigore nel 1970, è ora pronto a denunciare lo stesso sulla base dell’articolo X: questo comporterebbe la sospensione della cooperazione per il nucleare civile con la Russia, salvo intese ad hoc con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), garante multilaterale del trattato ma silente di fronte alle bunker busters americane.
L’erosione normativa del regime di non proliferazione è evidente: dopo la fallimentare conferenza di revisione quinquennale dell’Npt del 2022 a causa delle divisioni sulla salvaguardia degli impianti civili ucraini, la diplomazia torna a fallire e tocca ai cosiddetti Stati «responsabili», Usa e Israele (non membro del trattato), allontanare con la violenza il presunto breakthrough nucleare dell’Iran.
L’attacco a Fordow, Natanz ed Esfahan ripropone in versione teatrale il ben più silente cyberattacco coordinato tra Washington e Tel Aviv del 2010 alle centrifughe iraniane. Allora il malware Stuxnet dimostrave le sorprendenti abilità cyber (e di infiltrazione) occidentali; oggi è, invece, il design stealth dei B-2 a ridicolizzare le già fiaccate difese antiaeree di Teheran. In entrambi i casi, l’architettura gerarchica dell’Npt, che legittima il possesso di armi nucleari da parte di Stati uniti, Cina, Russia, Francia e Regno unito, viene rinforzata da una dimostrazione di superiorità tecnologica e organizzativa.
Insieme alla più ampia riorganizzazione dell’assetto internazionale, proprio questo e gli altri «peccati originali» dell’Npt spiegano buona parte della storia. La stessa proliferazione latente dell’Iran, uno spauracchio da decenni, è il prodotto dell’articolo IV, che baratta la promessa di assistenza per il nucleare civile con la rinuncia alle armi atomiche. Ciò non può certo giustificare l’arricchimento dell’uranio oltre le soglie previste dall’Aiea, ma va riconosciuto l’inscindibile legame tra la componente civile e quella militare del nucleare, branche di una medesima scienza divise da una linea sottile e incerta.
Al contempo, l’ordine nucleare cristallizzato dal trattato è geneticamente coloniale e giustifica la superiorità militare di alcuni – i «responsabili» appunto – e la marginalizzazione del «resto». Ai «responsabili» l’articolo VI richiede un impegno concreto per il disarmo: l’evidente assenza di sforzi in tal senso pregiudica la legittimità dell’intero trattato, monco di una scadenza per la sua piena attuazione.
Se è vero che il disarmo postsovietico e sudafricano e la non proliferazione della Libia di Gheddafi sono da annoverare tra i successi dell’Npt, va anche sottolineato che lo stesso trattato, dividendo il mondo in due, ha contribuito a fare delle armi nucleari degli oggetti di desiderio politico e simboli di modernità e piena sovranità.
La proliferazione di India, Pakistan e Corea del Nord (che nel 2003 denunciò il trattato) e quella latente dell’Iran sono appunto il prodotto di un ordine mondiale che richiede ai suoi maggiori attori un continuo incremento del proprio potenziale violento.
L’incorporazione, inoltre, di logiche orientaliste favorisce quelle stesse pratiche militariste (tra cui i recenti attacchi) che sconfessano lo spirito multilaterale dei trattati e confermano la violenza come il mezzo preferenziale nella produzione della sicurezza nazionale. A questo «tecnorazzismo» sfugge, però, Israele, in possesso di almeno novanta testate ma ambiguo in tal senso e tollerato dai propri partner occidentali come membro de facto del ristretto club nucleare.
Al netto della loro portata etica, i multipli paradossi della non proliferazione minano la credibilità e la legittimità dell’intero regime. Ed ecco che la neutralità dell’Aiea viene messa in dubbio e, con essa, il futuro delle ispezioni internazionali, fino ad oggi strumento chiave nel contrasto alla proliferazione.
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