UNIVERSITÀ, ALTRO CHE STUDENTI COMUNISTI. IL PROBLEMA È LA MANCANZA DI RISORSE da IL FATTO
Università, altro che studenti comunisti: il problema sono le risorse
Eugenio Mazzarella 22 Dicembre 2025
Dopo lo “show di Atreju”. Come da decenni, e ben prima di questo governo, il punto dolente per gli atenei italiani sono le risorse in mezzi, strutture e personale
Sui problemi dell’università, rispetto ai quali il governo si appresta a far legiferare il parlamento (che si spera si ricordi di essere tale e si prepari a parlare almeno un po’ delle proposte dell’esecutivo, alcune davvero irricevibili), ad Atreju è andato in scena uno stravagante trailer del berlusconismo vintage.
Tornato buono alla ministra Bernini davanti ad una motivata protesta, quella di alcuni giovani sul fallimento totale – riconosciuto da tutti ormai, da chi lo applica, i docenti, e da chi lo subisce, gli studenti – del semestre iniziale di selezione per l’accesso agli studi di medicina: “Siete dei poveri comunisti!”. Amen.
Ora è vero che i test d’ingresso non erano granché, ma il semestre-filtro è riuscito a fare peggio, e nessuno sa bene come garantire la necessaria selezione agli ingressi degli studi in medicina, messo da parte il biennio propedeutico per l’accesso al prosieguo degli studi, per il quale necessitavano risorse docenti e strutture. Ma “poveri comunisti”, davvero no. Anche perché in questo paese, se si trovasse un comunista vero, bisognerebbe farlo battere all’incanto da Sotheby’s: per la rarità del pezzo, se ne ricaverebbero all’asta non poche risorse per finanziare proprio una più decente modalità d’ingresso a medicina.
Con i fascisti non si può fare la stessa cosa: Sotheby’s non li batte, se ne trovano troppi ai mercatini dell’usato insicuro. Come da decenni, e ben prima di questo governo, il punto dolente per l’università italiana sono le risorse in mezzi, strutture e fondamentalmente personale docente, ridotto all’osso negli organici, nei ruoli e sempre più precarizzato. Il paragone con Francia e Germania – paesi naturalmente di confronto per noi – è da decenni sconfortante. Proprio per questo, sarebbe necessario che una buona volta si mettesse mano a una dignitosa pianta organica degli atenei italiani ampliandola sensatamente per ciò che è necessario soprattutto nei settori che si ritengono strategici: e medicina è tra questi. Magari smettendo di definanziare i saperi umanistici non meno strategici, se almeno si ritiene che, per una società decentemente “liberale” e non comunista o diversamente autoritaria, i saperi critici siano anch’essi strategici. C’è in altri termini bisogno di una leva stabile e ampliata di nuova docenza nei ruoli accademici. Ora nessuno mette in dubbio che, in un mestiere “a bottega d’apprendistato” come la ricerca, ci sia bisogno di un periodo interlocutorio di formazione per raggiungere dimostrare e certificare attitudine. Insomma che si meriti davvero – si raggiungano i “meriti per” – di entrare e progredire nei ruoli.
Ma una volta che questi meriti siano stati raggiunti, non si può non offrire degli sbocchi in proporzione realistici. Non si può cioè restare precari a vita o essere congedati a quarant’anni. Se hai conseguito capacità reali e certificate non puoi più essere “precario”. L’etimo della definizione è interessante. Precario è chi deve la sua posizione alle “preghiere”, prex-precis dal latino. Cioè dalla benevolenza a tempo di chi può esaudirle. Più prosaicamente il vestibolo dei clientes o peggio quella condizione esistenziale in cui aspetti che il tuo padrone ti faccia liberto, ti liberi cioè con un ruolo, una cattedra, o una stabilizzazione perché tu possa finalmente esprimere appieno e con serenità esistenziale, se li hai dignitosamente acquisiti, i tuoi meriti in bottega. Mi auguro che il dibattito parlamentare sui provvedimenti per l’università tenga a mente quella noterella etimologica e smonti un sistema drammaticamente centrato sulla perdita di tempo burocratica, impegnato ossessivamente a misurare e valutare il processo di produzione piuttosto che il prodotto, con il risultato che dalla catena di produzione accademica escono sempre più indicatori di produttività vuoti di utilità intellettuale e sociale, delegando ad altre istanze, piuttosto che all’università pubblica, in una società della conoscenza i saperi effettivi atti a governarla.
Qui di comunismo non c’è niente, ma solo un banale paradigma di investimenti produttivi non alieni dal finanziare “a perdere” anche i saperi che il compianto Nuccio Ordine definiva in un fortunato libretto, l’utilità dell’inutile. I saperi critici e dell’immaginario che quelli economici e produttivi temperano nel loro stesso vantaggio. Un po’ di Platone e Aristotele, tanto per dire. E per restare da noi di Dante e Leopardi, che non saranno patrimonio Unesco, ma dell’umanità certamente, cibo dello spirito se non vuol finire in aceto scadente e non balsamico.
Università, mini-piano Bernini: un esercito di precari scadrà insieme al Pnrr
Virginia Della Sala 22 Dicembre 2025
Stanziati 50 milioni in due anni: bastano (forse) per 1.600 posti. La Cgil: “Una soluzione striminzita”
Il plauso primitivo all’emendamento della manovra di Bilancio per la stabilizzazione dei precari della ricerca del Pnrr è arrivato dalla neo-presidente della Crui, la Conferenza dei rettori, Laura Ramaciotti. “Esprimiamo pieno apprezzamento. Si tratta di una svolta attesa perché dà finalmente una prospettiva strutturale a chi ha contribuito in modo decisivo alla realizzazione dei progetti del Pnrr”. L’ex rettrice di Ferrara – all’elezione di settembre accolta dal favore di Fratelli d’Italia (“Un nuovo corso”) mentre prometteva “collaborazione” e “continuità” con la ministra Bernini – lo ha definito un passo “concreto” verso “la stabilizzazione del capitale umano”. Per la segretaria della Flc Cgil Gianna Fracassi, al contrario, è un testo insufficiente e “striminzito”.
Questo piano “straordinario” per gli atenei e per enti di ricerca vigilati dal Mur (come Cnr, Inaf, Infn, Ingv, Ogs, Inrim). prevede infatti un cofinanziamento per le assunzioni al 50% tra ministero e atenei. Si stanziano circa 50 milioni tra Fondo di finanziamento ordinario (FFO) e fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca (FOE): 11 milioni dal 2026, altri 39 dal 2027. Le nuove assunzioni avvengono con procedure concorsuali, con una riserva del 50% dei posti dedicata ai ricercatori oggi impiegati su progetti Pnrr. Nel dettaglio, si cofinanziano al 50% le posizioni da Ricercatori in tenure track, il resto a carico degli atenei “entro le proprie facoltà assunzionali”. È davvero poco. Ci sono, secondo il ministero, 4.502 Ricercatori a tempo determinato (A) in scadenza tra il 2025 e il 2026, di cui 2.574 assunti col Pnrr: tra questi si riusciranno a stabilizzare – ammesso che le università abbiano i soldi per coprire la loro parte – circa 500 posizioni per il 2026 e 1.100 per il 2025 dunque poco più di 1.600 se si aggiungono le università non statali. E neanche è detto che si riescano ad assumere tutti: come spiega Flc Cgil, si prevede già che ci possano esser risorse non utilizzate tanto che le si destina, per ogni evenienza, ad integrazione della quota base del Ffo. Per gli Enti di ricerca sono invece previsti quasi 8,8 milioni di euro in due anni per le stesse modalità di cofinanziamento e di riserva: in tutto parliamo di circa 240 posizioni.
Tra chi ha festeggiato l’emendamento, alcuni rettori delle università private: 2 milioni di euro sono destinati infatti agli atenei non statali, soldi che, in questo caso, permetteranno di assumere tutti i ricercatori Pnrr.
La platea degli esclusi, però, è molto più amplia di quella identificata dal Mur ed è formata anche dagli assegni di ricerca, prorogati e attivati quando invece avrebbero dovuto essere eliminati . Molti ricercatori sono già stati “cacciati”. Quelli a tempo determinato di tipo A, ad esempio, erano 4.500 prima del Pnrr, saliti a 9.500 nell’autunno 2024 e oggi riscesi a 7 mila (2.500 sono già stati espulsi). Di questi, una parte (1.500) è legata al Programma nazionale ricerca. Prima del Pnrr, invece, gli assegni di ricerca erano 15 mila. Un anno fa se ne contavano 23.500 (enti di ricerca compresi) e questo nonostante fossero stati aboliti nel 2022, sostituiti dai Contratti di ricerca: sono stati resuscitati grazie a una proroga proprio per attivare i progetti del Pnrr, visti i ritardi nella fase di partenza. Questa scelta, ha di fatto gonfiato il precariato: gli assegni di ricerca, infatti, costano molto meno (e offrono meno diritti) dei contratti a tempo determinato. Risultato: è stata una delle soluzioni preferite. All’ultima rilevazione, novembre 2025, il numero degli assegnisti era calato. Negli enti di ricerca, invece, secondo alcune ricognizioni di cui una al 30 giugno 2025, le figure a scadenza nel 2026 sono circa 1.700. In generale, i precari di questi enti – Pnrr e non – sono circa 6 mila su un contingente di 25 mila tra tecnici, tecnologi e personale amministrativo.
Intanto, in questo scarica barile sugli atenei, a Torino, nei giorni scorsi, il senato accademico ha approvato una mozione dei ricercatori per la stabilizzazione dei precari. L’ateneo ha visto scadere il 40 per cento degli assegni di ricerca, mentre si assicurava un pareggio di bilancio solo grazie alle riserve di patrimonio (il disavanzo è di 62 milioni). La rettrice Cristina Prandi ha annunciato che i dipartimenti potranno attingere ai fondi di riserva per assumere il personale “in modo che possano liberare i fondi per bandire nuove posizioni e aiutare questa transizione”. Sono stati previsti 2,5 milioni per le proroghe dei contratti a tempo determinato di tipo A o e 2,4 sui contratti di ricerca. Ma il futuro non potrà dipendere dalla sola buona volontà dell’università.
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