“UN MIX TOSSICO DI MENZOGNE STA UCCIDENDO LA DEMOCRAZIA” da IL FATTO
“Un mix tossico di menzogne sta uccidendo la democrazia”
Sabrina Provenzani 16 Ottobre 2025
Londra. Steven Brill* è un veterano della stagione più libera del giornalismo americano e un imprenditore dei media. Nel 2018 ha co-fondato NewsGuard, organizzazione che valuta l’affidabilità delle fonti di notizie online. Nel suo ultimo libro La scomparsa della verità (Neri Pozza, nella traduzione di Aurelia Di Meo) analizza il “mix tossico” di disinformazione, miti e teorie del complotto che proliferano online, minano la fiducia nella scienza, nella competenza e nel senso di comunità e mettono così a rischio le fondamenta della democrazia. E propone soluzioni: vigilanza sugli algoritmi, fine dell’anonimato online, verifica delle notizie e alfabetizzazione informativa.
La formazione dell’opinione pubblica in un ecosistema digitale disintermediato è un tema cruciale. Cosa l’ha spinta a occuparsene ora?
NewsGuard mi ha dato un posto in prima fila per osservare l’erosione della fiducia nelle informazioni. Io e il mio team stavamo diventando insensibili al flusso di disinformazione, ma il pubblico non coglieva la gravità del problema. Questo “mix tossico” di menzogne, “fatti” alternativi e paranoie online ha portato a una mancanza di verità condivise, alla sfiducia nella scienza, a un’erosione dei pilastri della democrazia. Da quando ho scritto il libro, la situazione è peggiorata. Senza fiducia nelle istituzioni, nei fatti o anche nella propria comunità, la democrazia crolla, il tessuto sociale si disgrega. Prenda il presidente degli Stati Uniti: ha negato di aver mandato una lettera di compleanno a Jeffrey Epstein, ha fatto causa al Wall Street Journal per 10 miliardi, e anche quando la lettera è emersa, l’ha definita falsa. Eppure, il 25-30% degli americani probabilmente gli crede. Spero non sia troppo tardi.
Lei individua la Sezione 230 come un momento chiave. Può spiegare?
La Sezione 230 era una piccola direttiva in una legge di riforma delle telecomunicazioni Usa degli anni 90, pensata per proteggere servizi Internet come Aol. In sostanza diceva: se i fornitori di contenuti si assumono l’onere di moderarli, poi ne saranno responsabili. Meglio proteggere la libertà di parola e Internet e non considerarli tali. Funzionava all’inizio di Internet. Ma negli anni 2000, i social media hanno sfruttato questa norma, dando priorità a contenuti infiammatori per massimizzare l’engagement e i ricavi. Oggi gli algoritmi amplificano bufale, come sui vaccini, alimentando una corsa al ribasso e le piattaforme fanno enormi pressioni per mantenere quell’approccio.
I leader di Big Tech, come Zuckerberg, sostengono di riflettere la società, non di polarizzarla. Cosa ne pensa?
È una menzogna. Gli algoritmi amplificano contenuti divisivi per profitto. Per anni Zuckerberg e gli altri si sono scusati di fronte al Congresso americano, promettendo la moderazione dei contenuti, ma poco è cambiato. Ora, nell’era Trump, hanno smesso di fingere, sapendo di non avere opposizione. Disinformazione e polarizzazione non sono errori di sistema, sono il loro modello di business.
La disinformazione è sempre stata un’arma bellica. Come si è evoluta?
Ora la scala è senza precedenti. Negli Usa i siti di notizie locali falsi, spesso finanziati da Russia, Cina o gruppi politici, superano quelli veri. L’Intelligenza Artificiale genera disinformazione istantaneamente: è un’arma di infezione di massa.
Quando chiunque pensa che il proprio post valga un reportage, come ricostruire la fiducia nel giornalismo?
Il giornalismo è un mestiere. Negli anni 70, pochi outlet controllavano le narrazioni ed era sbagliato. Ma ora prevalgono la frammentazione e la sfiducia. Le testate devono riguadagnare la fiducia con il rigore giornalistico: l’Intelligenza artificiale non potrà mai sostituirlo. I deepfake sono difficili da individuare, ma i fatti si possono verificare. I social media hanno cambiato narrazioni anche potentissime, lo vediamo con Gaza.
Hanno anche un ruolo positivo?
Amplificano voci, ma i giornalisti contestualizzano i dati grezzi. Altrimenti resta il rumore. L’editing non è censura: è garanzia di accuratezza.
Quali soluzioni propone?
Quando versioni diverse della verità dividono, la ragione e la civiltà cedono al caos; il potere va a chi semina diffidenza. Serve una presa di coscienza collettiva: vigilare sugli algoritmi, eliminare l’anonimato online, verificare notizie e promuovere l’alfabetizzazione informativa. Le persone devono essere in grado di valutare criticamente, anche verso il proprio schieramento. Ma la regolamentazione è ostacolata da Big Tech e figure come Trump, che usano i dazi come arma di ricatto per indebolire le leggi europee. E temo che l’Unione europea finirà per cedere.
*STEVEN BRILL Nato a New York 75 anni fa, è avvocato, giornalista e imprenditore nel mondo dei media. Nel suo ultimo libro edito in Italia fa risalire la nascita della bolla di fake news e complottismo in Rete alla “direttiva 230” nata negli anni 90 per proteggere legalmente servizi Internet come America on line: se i fornitori di contenuti si assumono l’onere di moderarli, poi ne saranno responsabili. Meglio allora proteggere la libertà di parola e Internet e non considerarli tali. Col tempo i social media hanno sfruttato tale norma, dando priorità a contenuti infiammatori per massimizzare engagement e ricavi. Oggi gli algoritmi amplificano le bufale
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