PALESTINA, COLONIALISMO SIONISTA E CAPITALISMO FOSSILE AMERICANO da RECENSIONI
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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PALESTINA, COLONIALISMO SIONISTA E CAPITALISMO FOSSILE AMERICANO da RECENSIONI

Palestina, colonialismo sionista e capitalismo fossile americano

 Fabio Ciabatti  19 Novembre 2025 

Adam Hanieh, Robert Knox, Rafeef Ziadah, Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine, Verso Book, London-New York 2025, pp. 112, € 11,87

Forse un tempo si sarebbe parlato di banalità di base, ma oggi certe cose è bene non darle troppo per scontate: per comprendere la tragica situazione dei palestinesi e le strutture del dominio di Israele occorre considerare, in una prospettiva di lungo periodo, il ruolo del Medio Oriente nell’ambito dell’ordine capitalistico regionale e mondiale incentrato sul petrolio, così come è stato plasmato dall’egemonia americana a partire dagli anni ’60. In questa logica, anche il concetto di colonialismo di insediamento, che è essenziale per comprendere la formazione dello stato sionista, per avere forza analitica deve essere contestualizzato nell’ambito della più ampia espansione del capitalismo europeo e collegato al processo di formazione di nuove classi di capitalisti e lavoratori nei territori colonizzati. Per inquadrare il cosiddetto conflitto israelo-palestinese in questo tipo di cornice, che unisce un approccio storico-materialistico con il pensiero decoloniale, è utile leggere Resisting Erasure. Capital, Imperialism and Race in Palestine (Resistere alla cancellazione. Capitale, imperialismo e razza in Palestina), scritto da Adam Hanieh, Robert Knox e Rafeef Ziadah. Un approccio che ci aiuta anche a non essenzializzare questo conflitto evitando di ridurlo a un metastorico scontro di civiltà tra mondo giudaico-cristiano, l’Occidente, e quello arabo musulmano, l’Oriente, senza considerare il moderno contesto politico-economico in cui si è sviluppato.

Ovviamente gli autori non negano che la Shoah abbiano abbia costituito un fattore decisivo di legittimazione per il progetto sionista. Sottolineano, però, che questo progetto non avrebbe potuto essere coronato da successo in mancanza di una convergenza con gli interessi imperialisti inglesi nel Medio Oriente agli inizi del Novecento. Interessi focalizzati sul controllo del petrolio, in particolare attraverso l’Anglo-Persian Oil Company in Iran (nel 1911 il governo britannico decide di sostituire il carbone con il petrolio come combustibile per la sua flotta navale), e sul controllo del canale di Suez, rotta commerciale che connetteva i mercati europei con l’Est e in particolare con l’India, al tempo baricentro dell’impero britannico. Nel 1916, con l’accordo di Sykes-Picot, Inghilterra e Francia si accordano segretamente per spartirsi i territori dell’Impero Ottomano in vista della sua sconfitta nella Prima guerra mondiale in corso. Nel 1917, con la famigerata dichiarazione di Balfour, gli inglesi danno il via libera alla colonizzazione sionista della Palestina, destinata di lì a poco a diventare un mandato britannico, al fine di costituire una fedele testa di ponte in Medio Oriente in vista della futura indipendenza degli stati arabi.

Dopo la Seconda guerra mondiale, però, lo scenario in questa area geografica cambia radicalmente per effetto dell’intrecciarsi di due diverse dinamiche, come mette in evidenza il testo. In primo luogo il petrolio si afferma come principale fonte di energia per i paesi sviluppati alimentando il boom economico di quegli anni: dal 28% del consumo complessivo di combustibili fossili nel 1950 passa a più della metà alla fine degli anni Sessanta per i paesi più ricchi rappresentati nell’OCSE. Più o meno nello stesso periodo il consumo globale di combustibili fossili raddoppia. A metà degli anni Cinquanta circa il 40% delle risorse accertate di petrolio si trova nel Medio Oriente (soprattutto nei paesi della penisola arabica), un’area che ha anche il vantaggio di trovarsi in prossimità dell’Europa.
Il secondo elemento che cambia lo scenario regionale è l’emergere dell’egemonia statunitense nel quadro della guerra fredda con l’URSS. L’ultimo colpo di coda del colonialismo anglo-francese nell’area è rappresentato dal tentativo nel 1956 di riprendere manu militari, insieme a Israele, il controllo del Canale di Suez, nazionalizzato dal presidente egiziano Nasser, il più importante rappresentante del nazionalismo panarabo. Tentativo bloccato proprio dagli USA (provvisoriamente in accordo con l’URSS) che l’anno successivo formulano la cosiddetta dottrina Eisenhower, implicitamente rivolta contro lo stesso Nasser, dichiarandosi pronti a utilizzare la loro forza militare per difendere l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di ogni nazione del Medio Oriente. Ma è il 1967 a rappresentare il vero momento di svolta che designa Israele come perno di un nuovo sistema di sicurezza egemonizzato dagli Stati Uniti: nella guerra dei sei giorni lo stato sionista ottiene una schiacciante vittoria contro Egitto, Siria e Giordania che gli permette di occupare Cisgiordania, Gaza, alture del Golan e penisola del Sinai (quest’ultima restituita nel 1979 all’Egitto). È un colpo mortale per il nazionalismo panarabo di Nasser la cui maggiore attrattiva, sottolinea il testo, era costituita dal considerare il petrolio come “un inalienabile diritto arabo” in grado di unificare i popoli del Medio Oriente contro l’imperialismo occidentale. Un progetto che trovava supporto popolare in tutta l’area, compresi i paesi che si consolideranno come la seconda gamba dell’egemonia statunitense: l’Arabia Saudita e le piccole monarchie del Golfo.
Il progetto nasseriano, sostenuto dall’URSS, doveva essere sconfitto per consolidare il potere del capitalismo fossile a guida americana e Israele si è prestato a fare il lavoro sporco con la sua potenza militare. Con altri mezzi, ma altrettanto sporchi, era stato sconfitto anche il progetto del premier iraniano Mossadegh, colpevole di aver effettuato la prima nazionalizzazione del petrolio nel Medio Oriente. Un colpo di stato orchestrato da Regno Unito e Stati Uniti nel 1953 fa salire al potere lo Shah Reza Pahlavi, fedele alleato dell’Occidente fino alla rivoluzione del 1979 che si conclude con la fondazione della repubblica islamica guidata dall’ayatollah Khomeini.  

Come testimoniano le vicende iraniane ed egiziane, la lealtà agli USA dei paesi arabi e musulmani è sempre a rischio a causa delle pressioni dal basso delle loro popolazioni. Da questo punto di vista Israele presenta per gli USA un grande vantaggio, legato alla sua natura di colonia di insediamento. In alcuni casi, sostengono gli autori, il capitalismo caratteristico di questo tipo di colonie fa affidamento sullo sfruttamento della manodopera indigena (per esempio in Sud Africa), ma per lo più è spinto dall’imperativo di eliminare, marginalizzare o  rimuovere la popolazione locale, come è accaduto per Israele. Per questo c’è bisogno di una classe lavoratrice non nativa che trae sostanziali vantaggi economici e politici dall’espropriazione degli abitanti originari e che, di conseguenza, è portata ad assumere un carattere sciovinistico.
Allo stesso tempo, le colonie di insediamento tendono a favorire la crescita delle proprie classi capitaliste locali che finiscono per promuovere la separazione politica dalle rispettive madrepatrie pur mantenendo spesso forti legami con esse e fungendo così da avamposti per la loro proiezione imperiale. Il caso di Israele è certamente sui generis, mancando di una madrepatria in senso stretto. Ciò nonostante ha dovuto fare affidamento su un padrino esterno anche dopo la sua nascita. Questo perché, sintetizzano gli autori, le colonie di insediamento, dovendo costantemente rafforzare le strutture di oppressione razziale, sfruttamento di classe ed espropriazione, sono tipicamente società altamente militarizzate e violente che devono fare affidamento sul sostegno esterno per mantenere i propri privilegi materiali in un ambiente regionale ostile. In effetti Israele è il Pese che ha ricevuto di gran lunga più aiuti economici da parte degli Stati Uniti, anche senza considerare i miliardi di garanzie sui prestiti che hanno consentito allo stato sionista di ottenere finanziamenti a basso costo sul mercato mondiale (privilegio, quest’ultimo, che gli USA hanno riservato solo ad altri cinque stati).  

Tanta munificenza non si può certo spiegare con l’influenza delle lobby ebraiche negli Stati Uniti che pure esistono e sono molto potenti. Si può solo comprendere, sottolinea il testo, con il ruolo fondamentale di Israele per gli interessi americani nell’area. Un ruolo che non si esaurisce con la sconfitta di Nasser perché le sfide si moltiplicano, per esempio con la creazione dell’OPEC nel 1960 e la nazionalizzazione del petrolio in molti paesi dell’area durante gli anni Settanta e Ottanta. Processi che avrebbero potuto preludere alla creazione di un polo di potere autonomo se non fosse stato per la continua ingerenza degli Stati Uniti supportati dal loro fedele alleato sionista. In questo contesto, l’interesse americano non è solo quello controllare l’offerta del petrolio sul mercato mondiale, ma anche quello di governare l’immane flusso di denaro che scaturiva dai proventi della sua vendita, soprattutto dopo gli shock petroliferi del 1973 e del 1979 che fanno impennare il prezzo del greggio. Questioni legate a doppio filo al dominio americano sul mercato finanziario globale a sua volta connesso con il ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale.
A tutto ciò si connette il tentativo di normalizzare i rapporti politici ed economici tra Israele e i Paesi dell’area, con particolare attenzione al secondo polo del dominio americano in Medio Oriente, le monarchie del Golfo. Un esempio di questa politica è rappresentato dal programma delle Qualifying Industrial Zones, istituite per la prima volta alla fine degli anni Novanta in Egitto e Giordania. Queste aree manifatturiere con basso costo del lavoro e attive prevalentemente nel settore tessile e abbigliamento vengono esentate da dazi doganali per le loro esportazioni verso gli Stati Uniti a patto di produrre congiuntamente con investitori israeliani. Meno fortunato è stato il progetto di costituire la Middle East Free Trade Area (MEFTA), un’area di libero scambio che entro il 2013 avrebbe dovuto abbracciare l’intero Medio Oriente. Ciò nonostante Gli Stati Uniti ad oggi hanno stipulato cinque Accordi di libero scambio nell’area (con Israele, Bahrain, Marocco, Giordania e Oman) sui quattordici complessivi che hanno siglato in tutto il mondo. Su questa scia si collocano gli Accordi di Abramo, firmati durante la prima presidenza Trump, che hanno portato Emirati Arabi Uniti e il Bahrain a regolarizzare i propri rapporti con Israele. 

Comprendere le dinamiche capitalistiche che investono il Medio Oriente ci aiuta a spiegare le posizioni dei governi arabi, pronti ad assumere una postura antimperialista per ottenere una facile legittimazione agli occhi dei propri cittadini, purché si rimanga entro i limiti di una retorica fine a sé stessa. Le medesime dinamiche ci consentono anche di comprendere come la società palestinese sia attraversata al suo interno da profonde differenze politiche e di classe, sebbene troppo spesso venga considerata come un tutto omogeneo. Per inquadrare questo ultimo aspetto è utile una breve disamina della situazione che si è sviluppata dopo gli Accordi di Oslo. Con questa intesa, siglata nel 1993, Israele si è limitata a riconoscere l’OLP come legittimo rappresentante dei palestinesi, ma non ha mai accettato il diritto di questo popolo a un suo proprio stato, al contrario della stessa OLP che ha riconosciuto il diritto all’esistenza dello allo stato sionista. Di fatto, Israele ha subappaltato le responsabilità per la sua sicurezza alla neocostituita Autorità Nazionale Palestinese, mentre ha tenuto per sé tutte le leve economiche per governare i territori di Gaza e Cisgiordania.
La moneta, l’energia elettrica, le telecomunicazioni, le risorse acquifere e quelle del sottosuolo, il movimento di merci e persone rimangono infatti sotto il controllo israeliano. Non sorprende che l’interscambio commerciale palestinese abbia come controparte assolutamente preponderante lo stato sionista (74% delle importazioni e 88% delle esportazioni nel 2005). Per di più, la maggior parte delle risorse finanziarie a disposizioni dell’Autorità palestinese, destinate per una quota maggioritaria agli apparati di sicurezza addestrati dalle potenze occidentali, derivano dalle imposte indirette che sono riscosse dallo stato sionista e poi trasferite all’Autorità stessa, salvo essere trattenute ogni qual volta l’esattore lo ritenga opportuno.
In questo contesto, la manodopera proveniente dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza diventa una riserva di lavoratori che può essere assunta o licenziata a seconda delle contingenze economiche e politiche. La tendenza di fondo è però quella di sostituirla con lavoratori stranieri: negli anni immediatamente successivi agli accordi di Oslo, tra il 1992 e il 1996, la quota dei lavoratori palestinesi impiegati in Israele scende dal 33% al 6% della forza lavoro di Cisgiordania e Gaza, mentre i corrispondenti guadagni crollano dal 25% al 6% del PIL di questi stessi territori. Nel 2000, i lavoratori del settore pubblico rappresentano circa un quarto dell’occupazione totale palestinese, un livello quasi raddoppiato dalla metà degli anni ’90. L’altra principale fonte di occupazione è il settore privato dei servizi, dominato in modo schiacciante da piccole imprese a conduzione familiare a causa di decenni di politiche di de-sviluppo israeliane che fanno leva anche sulla frammentazione del territorio palestinese in piccole enclave separate tra loro da colonie, check point, muri e strade ad utilizzo esclusivo degli israeliani.  In questo contesto di particolare importanza è stata la separazione, attraverso un anello di colonie, di Gerusalemme dalle aree circostanti della Cisgiordania perché questa città non rappresentava solo un centro religioso, ma anche il nodo principale delle attività economiche, commerciali e finanziarie dell’intera West Bank.

Allo stesso tempo si consolida un piccolo ma crescente strato di classe capitalistica autoctona che ha finito per dominare i settori più redditizi dell’economia, come le banche e l’edilizia, anche se i segmenti maggiori del capitale palestinese sono rimasti all’estero, soprattutto negli stati del Golfo, dove la componente più benestante della società proveniente dall’ex mandato britannico era emigrata dopo il 1948 e il 1967. Con gli accordi di Oslo una parte di questa facoltosa diaspora è rimpatriata andando a costituire una componente fondamentale della base sociale dell’Autorità palestinese insieme all’élite tradizionale pre-1967 (soprattutto i vecchi proprietari terrieri) e agli strati imprenditoriali che, grazie alle loro connessioni con il potere sionista e con quello palestinese, si occupano prevalentemente di importazione e distribuzione di merci. Una classe che ha promosso le ben note politiche neoliberiste, sponsorizzate dalle istituzioni finanziarie internazionali, favorendo privatizzazioni e tagli della spesa pubblica, fatta eccezione per quella destinata alla sicurezza. In breve, esiste un blocco politico-economico la cui fedeltà alla causa nazionale è indebolita dal suo intreccio di interessi con l’occupante sionista e con gli stati arabi da cui provengono circa metà dei finanziamenti a disposizione di palestinesi.

Tornando allo scenario internazionale, gli autori sottolineano che, nonostante tutti gli sforzi degli Stati Uniti che abbiamo brevemente tratteggiato, negli ultimi anni abbiamo assistito a un’erosione del predominio americano in Medio Oriente legato alla riconfigurazione del capitalismo globale. Stati come Iran, Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno ampliato significativamente il loro raggio di azione politico ed economico, per non parlare del ruolo importante svolto da potenze esterne come Russia e Cina. Il Medio Oriente è stato fondamentale nello spostamento verso est del mercato mondiale: oggi la maggioranza delle esportazioni di petrolio e gas provenienti da quest’area si dirige verso l’Asia, in particolare verso la Cina, piuttosto che verso i paesi occidentali. Per di più, la rete dei rapporti economici che connette il Medio Oriente, la Cina e l’Asia orientale, spazia oramai dalla finanza alle tecnologie “verdi”, dall’intelligenza artificiale all’edilizia e agli investimenti infrastrutturali.
Anche in questa nuova situazione, la politica americana ha cercato di rafforzare i suoi tradizionali orientamenti strategici nell’ambito della continua espansione del capitalismo fossile. Ciò è stato confermato anche con l’annuncio nel settembre 2023 del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa, un’iniziativa sponsorizzata dall’UE e sostenuta dagli Stati Uniti che prevede una rete commerciale e di trasporto per collegare l’India all’Europa attraverso Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Israele e Grecia. Un progetto che si configura esplicitamente come una sfida alla Belt and Road Initiative cinese e che assume particolare rilievo a fronte dell’interruzione dei rifornimenti energetici provenienti dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Uno dei principali ostacoli ai progetti guidati dagli Stati Uniti nel Medio Oriente rimane la continua resistenza del popolo palestinese. Per questo, la sua liberazione dal giogo sionista, conclude il testo, non può prescindere dallo smantellamento dell’ordine del capitalismo fossile a guida americana e delle alleanze su cui questo ordine si basa. In altre parole, la straordinaria battaglia per la sopravvivenza condotta oggi dai palestinesi assume un significato che va al di là delle sorti di questo eroico popolo.

La valenza generale della sua lotta è confermata anche dal fatto che il razzismo sistemico nei confronti del popolo palestinese si inscrive nel più ampio quadro di quello oramai dilagante nell’Occidente che si rivolge contro il Sud globale e, in particolare, contro il mondo islamico e gli immigrati. Il pregiudizio etnico-religioso di cui sono oggetto i palestinesi, infatti, parla il linguaggio della guerra al terrorismo ed è giustificato dal bisogno di sicurezza. È lo stesso linguaggio, notano gli autori, che hanno adottato gli Stati Uniti per lanciare la guerra globale al terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e che ha legittimato guerre preventive e omicidi mirati, con una logica del tutto simile a quella utilizzata da Israele contro la resistenza palestinese e gli stati circostanti. Insomma, il razzismo che giustifica il genocidio palestinese come atto difensivo contro il terrorismo la vediamo all’opera in molte altre aree del mondo, insieme all’ampia gamma di armi e di sistemi di sicurezza che, dopo essere stati testati a Gaza e nella Cisgiordania, rappresentano una delle maggiori voci dell’export israeliano.
In questo contesto, il suprematismo occidentale (di cui quello sionista è una singola fattispecie, ma particolarmente rilevante) non deve essere considerato come il mero frutto di pregiudizio etnico o religioso, di un’atavica paura dell’Altro, ma come uno strumento di dominio, espropriazione e sfruttamento a servizio delle potenze capitalistiche. Per questo, possiamo aggiungere in conclusione, per i popoli e le classi sociali che vogliono oggi sottrarsi alla necropolitica del capitalismo contemporaneo, la solidarietà nei confronti dei palestinesi non è soltanto un atto necessario per rimanere umani, ma anche un primo passo concreto verso la propria stessa liberazione. 

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