L’ILLUSIONE DELLA PACE: IL VUOTO DIETRO GLI ACCORDI DELLE ÉLITE da LA FIONDA
L’illusione della pace: il vuoto dietro gli accordi delle élite
Massimiliano Civino 17 Ott , 2025
Celebriamo gli accordi di pace, ma ignoriamo il sistema che continua a riprodurre la guerra
Dovremmo sentirci sollevati. Il nuovo accordo di pace tra Israele e Hamas, la liberazione degli ostaggi, la promessa, per quanto fragile, di una tregua dopo mesi di orrore: tutto questo porta un respiro di speranza. Ogni guerra deve finire, e ogni cessate il fuoco merita di essere accolto.
Eppure, dietro il sollievo, resta un’inquietudine. Ci siamo già passati: i discorsi solenni, le strette di mano, le dichiarazioni di “pace storica”. Ma questi rituali raramente toccano le forze che rendono possibile la violenza. Congelano i conflitti, gestiscono il risentimento, rassicurano i mercati, ma non trasformano le condizioni di vita di chi abita le rovine.
Anche l’indignazione selettiva dei movimenti di sinistra rivela una confusione profonda: concetti come resistenza, liberazione e anti-imperialismo vengono applicati a corrente alternata, senza riuscire a costruire un’analisi organica che vada oltre il semplice definirsi anti-sistema. Il problema non è l’ipocrisia, ma la cecità, ovvero l’ostinazione a leggere con lenti di un’altra epoca un mondo radicalmente cambiato.
Perché ciò che stiamo vivendo non è solo una successione di guerre, ma lo sfilacciarsi di un intero ordine mondiale. Le crisi di Gaza e dell’Ucraina, le tensioni tra Cina e Occidente, la fragilità economica di Europa e Stati Uniti: tutto questo è sintomo di una contraddizione più profonda. Abitiamo un’epoca di straordinaria capacità produttiva e di paralisi sociale: povertà nell’abbondanza, disoccupazione in un mondo di bisogni insoddisfatti, insicurezza in mezzo al progresso tecnologico.
Karl Marx aveva già nominato questa contraddizione: la tensione tra le forze produttive in espansione e i rapporti sociali che le incatenano. Il capitalismo genera immense ricchezze, ma solo trasformando la cooperazione in competizione e l’abbondanza in scarsità. «Crea le condizioni materiali per una nuova società», scriveva Marx, «mentre distrugge continuamente la vecchia». La nostra capacità di produrre ha ormai superato la nostra capacità di organizzare la produzione in funzione dei bisogni umani.
Karl Polanyi, circa settant’anni dopo, chiamò questa dinamica il doppiomovimento: la spinta del mercato a sussumere in sé la vita, e il tentativo della società di difendersi. Ma oggi quel movimento di difesa si è esaurito. Le istituzioni che un tempo incarnavano la solidarietà – sindacati, partiti, associazioni civiche – sono indebolite o svuotate. La società non resiste più al dominio dei mercati: si adatta. Anche la pace, in questo contesto, diventa parte di questo adattamento: non trasformazione della vita, ma amministrazione della disperazione.
Ecco perché il nuovo accordo in Medio Oriente, come tanti altri prima, rischia di essere un’illusione. Palestinesi e israeliani saranno entrambi risucchiati nella stessa logica economica globale che genera disuguaglianza ovunque. La ricostruzione attirerà capitali e speculazione, gli aiuti arriveranno accompagnati da nuove dipendenze, e il ciclo della frustrazione ricomincerà da capo.
John Maynard Keynes, che sapeva quanto la stabilità economica fosse alla base dell’ordine politico, avrebbe riconosciuto il pericolo. “We have magneto trouble”, disse a proposito della Grande Depressione: il motore della produzione funziona, ma non serve più allo scopo umano. Oggi il problema del “magneto” è tornato su scala planetaria: milioni di persone inattive mentre scuole e ospedali cadono a pezzi, la tecnologia accelera mentre la vita si svuota di senso.
Le conseguenze politiche sono devastanti. Le democrazie liberali si sono ridotte a semplici amministratrici del quotidiano vivere economico, incapaci di governare processi che le superano. I cittadini si rifugiano nel cinismo o nell’intrattenimento. Lo spazio dell’immaginazione collettiva, la capacità di pensare un modo diverso di vivere, si è quasi dissolto.
E quando l’immaginazione muore, il risentimento la sostituisce e la vecchia merda ritorna: antisemitismo, razzismo, nazionalismo, autoritarismo. Non sono fantasmi di un passato barbaro, ma reazioni politico-emotive all’impotenza sociale. Quando non si riesce a cambiare la realtà, si comincia a odiare chi la incarna.
Questa è la simmetria tragica del nostro tempo: guerre combattute in nome della sicurezza che producono insicurezza; accordi di pace che rafforzano il conflitto invece di superarlo. Sappiamo fermare le bombe, ma non il sistema che le produce.
Polanyi, Keynes e Marx convergono su una verità essenziale: una pace senza trasformazione è un’illusione, un risultato donchisciottesco. La domanda non è come costruire trattati più equi, ma come costruire una società in cui la pace non sia ostaggio del mercato. Questo significa ripensare il modo in cui lavoriamo, produciamo, ci prendiamo cura gli uni degli altri – organizzare la vita intorno alla cooperazione invece che alla competizione, alla solidarietà invece che al profitto, alla creatività invece che alla paura.
Possiamo essere felici che le armi tacciano. Ma il compito degli individui in carne e ossa inizia proprio allora. Finché non affronteremo la contraddizione al cuore della nostra civiltà, ovverosia la capacità di produrre abbondanza senza essere capaci di fare comunità, nessun accordo durerà, e nessuna pace sarà stabile.
Solo quando cambieremo la trama delle nostre relazioni sociali, quando un nuovo umanesimo tornerà a essere la misura dell’umano, la pace smetterà di essere un intervallo nel pesante fiato della guerra e potrà finalmente farsi respiro del mondo.
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