IL VECCHIO MONDO È FINITO. REVONO RIFORME GLOBALI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Il Vecchio mondo è finito. Servono riforme globali
Francesco Sylos Labini 4 Ottobre 2025
L’ordine internazionale nato ottant’anni fa alla fine della Seconda guerra mondiale ha garantito decenni di prosperità e stabilità. Ma quel mondo non esiste più. Negli ultimi cinquant’anni si è verificato un poderoso spostamento di potere economico, scientifico e tecnologico dall’Occidente all’Oriente: un cambiamento strutturale che rende inevitabile una revisione dell’ordine mondiale.
Lo sottolinea con chiarezza Kishore Mahbubani, diplomatico e accademico di Singapore, autore di The Asian 21st Century (Springer, 2022). Alcuni dati: nel 1980 l’economia dell’Unione europea era dieci volte quella cinese; oggi hanno dimensioni equivalenti e nel 2050 l’Ue sarà la metà della Cina. Nel 1990 il Pil britannico era quattro volte quello indiano; oggi l’India ha superato il Regno Unito e nel 2050 avrà un’economia quattro volte più grande. Nel 2000 la Germania valeva tre volte l’Asean (i Paesi del Sud-Est asiatico); a metà secolo sarà la metà. Trasformazioni di tale portata, avvenute nell’arco di una sola generazione, sono rarissime nella storia e mostrano che il futuro sarà sempre più asiatico, non solo cinese. Negli ultimi cinquant’anni gli Stati Uniti hanno mantenuto stabile la propria quota di Pil mondiale, ma si sono profondamente deindustrializzati e oggi convivono con un debito pubblico di 35 trilioni di dollari: la spesa per gli interessi, seconda solo alla spesa sanitaria, ha superato quella per la difesa. L’Europa, dal canto suo, ha visto ridursi di un terzo il proprio peso economico dal 1980. In questo scenario, l’Occidente appare arretrato non solo sul piano economico, scientifico e tecnologico, ma anche su quello culturale e morale — come la tragedia di Gaza ci ricorda ogni giorno.
La Cina, al contrario, è ormai il primo partner commerciale di tutti i Paesi africani. Non si propone come modello politico da esportare, ma offre un approccio pragmatico alle relazioni economiche, in netto contrasto con l’Occidente che, salvo rare eccezioni, ha perpetuato rapporti di tipo coloniale anche dopo la fine formale del colonialismo.
La resistenza dell’Occidente a adeguarsi a questo nuovo equilibrio è evidente nelle istituzioni internazionali. Al Fondo Monetario Internazionale, l’Europa detiene il 26% dei voti pur rappresentando il 17% del Pil mondiale; la Cina, con lo stesso peso, dispone solo del 6%. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu Regno Unito e Francia, ormai potenze marginali, mantengono due seggi permanenti ereditati dal 1945, mentre Paesi come India o Brasile — che insieme contano 1,7 miliardi di abitanti — restano esclusi. Dopo trent’anni di discussioni senza risultati, il gruppo di lavoro sulla riforma è stato ironicamente ribattezzato Never-ending UN Security Council Reform Group.
L’Occidente rappresenta appena il 12% della popolazione mondiale, contro l’88% del resto del pianeta. In un “villaggio globale” interconnesso, il consiglio del villaggio deve rispecchiare i veri equilibri. Purtroppo, nel dibattito pubblico italiano i mutamenti epocali negli equilibri mondiali vengono quasi sempre ricondotti alla falsa contrapposizione tra “paesi democratici” e “paesi autoritari”. I rari tentativi di superare questa semplificazione — come la recente iniziativa “Disarma, il coraggio della pace” a Sesto Fiorentino — sono sistematicamente marginalizzati dai media mainstream. Il vero nodo non è “democrazia contro autoritarismo”, ma il conflitto tra gli interessi di pochi e quelli della maggioranza. In Russia e in Cina gli oligarchi restano ai margini del potere politico e, negli ultimi venticinque anni, si sono registrati indubbi miglioramenti nelle condizioni delle classi subalterne. In Occidente, invece, la politica appare sempre più subordinata alle grandi concentrazioni economiche e finanziarie. Questa concentrazione di ricchezza e potere ha eroso in profondità i principi democratici, escludendo ampie fasce della popolazione dalle decisioni politiche.
Questa deriva è particolarmente evidente in Europa, dove le élite politiche sembrano avere come unico orizzonte quello di “indebolire la Russia”. Una strategia che porta a investire in armi senza costruire eserciti, proprio in quanto vi è un’opinione pubblica largamente contraria alla guerra. La vera sfida non è dunque ideologica, ma politica: costruire un ordine internazionale capace di rispecchiare i nuovi rapporti di forza, evitando che l’ostinazione delle classi dirigenti occidentali a conservare privilegi anacronistici si traduca in instabilità e guerre. Il mondo è già cambiato: resta da scegliere se prenderne atto e negoziare un futuro condiviso, oppure inseguire un passato che non tornerà più. Questa volta, però, a differenza che in passato, non ci sarà margine per errori: adattarsi o essere travolti.
428 milioni di giovani, un’onda politica inarrestabile
Generazioni Z Da Rabat a Nairobi, dall’Uganda al Madagascar. Sfila l’Africa del futuro
Andrea Spinelli Barrile 04/10/2025
Laddove, per anni, il capitalismo ha fatto esplodere l’e-commerce e le piattaforme digitali, le startup innovative e la crescente classe di nuovi consumatori, le mega-infrastrutture e la classe media, la politica non è stata capace, o non ha voluto, ascoltare la voce di una generazione. «Gli stadi ci sono, ma gli ospedali?» urlano da giorni i giovani marocchini mentre la polizia li trascina via. Sono 409 gli arrestati, secondo il ministero dell’Interno, «sì ma solo qui a Rabat» dice Rashid al telefono con il manifesto: a Lqliaa invece, vicino ad Agadir, i morti della GenZ sono stati almeno due: «Stavano assaltando un commissariato per liberare i loro compagni» e sono i primi morti da quando, sabato scorso, la protesta è esplosa in tutto il Regno africano.
A NAIROBI, in Kenya, i giovani attivisti sono attaccati ai loro feed di TikTok: «È pazzesco». La voce di Faith, 22 anni nata e cresciuta in un quartiere popolare della capitale keniana, trema quasi dall’emozione: «Non posso credere che siamo stati noi a dare il via a tutto questo» racconta al manifesto, ricordando quasi incredula l’estate dell’anno scorso. «Forse è arrivato davvero il momento giusto» perché le proteste della GenZ africana hanno molti tratti in comune: nascono da un sopruso o da una violenza, come l’arresto del 19 settembre di due politici malgasci nella capitale del Madagascar o come la morte, meno di un mese fa, di una partoriente all’ospedale di Agadir, l’ennesima morta di parto dall’inizio dell’anno nel Paese che ospiterà i Mondiali di Calcio 2030.
CRESCONO, montano e si auto-organizzano su TikTok, si autoalimentano con gli arresti e i morti per strada, cercano di prendere il bavero del potere per scuoterlo, per farsi sentire. I grandi investimenti come gli stadi, le arterie stradali, gli alberghi di lusso strapieni di turisti sono messi alla berlina: dove sono le fognature? Dove gli autobus, dove gli ospedali, dove le nuove scuole? E perché le tasse continuano a crescere ma la luce continua a mancare? «Adesso ci danno da bere grazie ai dissalatori – si lamenta Rashid, che fa il tassista a Rabat – ma quell’acqua costa un sacco e fa schifo». Sono piccoli tasselli, esigenze personali che diventano protesta sociale: ad Antananarivo, il fatiscente campus universitario è stato eretto a simbolo della miseria dei giovani. A Rabat, sono gli ospedali. A Nairobi è la grande «superstrada cinese» che in pochi possono permettersi di percorrere.
In Marocco, la GenZ è protagonista da sabato delle dimostrazioni di piazza più grandi dalle primavere arabe. La stessa generazione, in Madagascar, resiste da oltre dieci giorni, riuscendo ad aggregare sindacati e altri gruppi della società civile, costringendo a licenziare un governo e mettendo a serio rischio la tenuta del presidente Rajoleina, uno che ambisce a diventare un dinosauro. La GenZ, da due anni, manifesta quotidianamente in Kenya e Uganda chiedendo politiche sociali e ricevendo pallottole, sparizioni forzate, torture e deportazioni.
QUANDO SI PARLA di Generazione Z in continenti come l’Africa, ma anche in Asia con le proteste in Indonesia, Nepal e Filippine, si parla di un numero enorme di persone. È la generazione più numerosa e fa del continente la regione più giovane del mondo: sono 428 milioni i GenZ africani, oltre il 32% dell’intera popolazione, milioni di individui che influenzano i mercati dei consumi ma anche la narrazione dell’Africa vista da fuori, grazie al loro impegno e ai social media. Oggi vogliono influenzare anche la politica interna, un’onda che sembra inarrestabile e capace di attirare consensi. Di fare politica.
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