IL CAMPO LARGO CHE NON REGGE E IL LIBERISMO CHE VINCE da LA FIONDA
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL CAMPO LARGO CHE NON REGGE E IL LIBERISMO CHE VINCE da LA FIONDA

Il campo largo che non regge e il liberismo che vince

Michele Agagliate    17 Dic , 2025  Sassi nello stagno

Ma dai! Ma siamo seri?

Davvero qualcuno, a Santiago del Cile come nelle redazioni europee che parlano dell’America Latina con il tono riservato alle periferie dell’Impero — da lontano, con sufficienza — pensava che un’armata brancaleone politica tenuta insieme con lo scotch potesse risultare credibile come proposta di governo? Davvero si immaginava che una coalizione dove convivono comunisti storici, socialdemocratici smunti, progressisti “liberal”, sinistra cristiana, verdi, riformisti senza riforme e moderati senza popolo potesse trasmettere l’idea di stabilità, direzione, solidità? O anche solo di chiarezza?

Perché il punto non è nemmeno la sconfitta di Jeannette Jara, che pure c’è stata ed è stata netta. Il punto è l’ennesima riproposizione di un copione che la sinistra globale — non solo cilena — continua a recitare come se non fosse già stato fischiato dal pubblico decine di volte. Tutti insieme, tutti buoni, tutti responsabili, tutti “unitari”. Tutti, soprattutto, incomprensibili.

In Cile l’hanno chiamata Unidad por Chile, ma il nome è quasi una beffa involontaria. Dentro c’era di tutto: il Partito Comunista del Cile con la sua storia, i socialisti post-tutto, il Frente Amplio in versione governativa e spompata, i liberali progressisti, i cristiano-sociali, gli ecologisti istituzionalizzati. Un campo così largo che, a forza di allargarsi, ha smarrito il campo. E con esso il senso.

Ora, si può anche discutere — e va fatto — del profilo di José Antonio Kast senza cedere alla caricatura. Il riflesso pavloviano che lo vuole “nazista” per discendenza familiare o per posture simboliche è pigro, moralistico, e soprattutto inefficace. Non è così che si capisce perché ha vinto. Kast non ha vinto perché il Cile sarebbe improvvisamente diventato nostalgico di Pinochet, come raccontano certi editoriali europei scritti col pilota automatico della Guerra Fredda. Kast ha vinto perché ha parlato una lingua che, giusta o sbagliata che sia, è risultata decifrabile.

Ed è qui che la faccenda si fa più seria. Perché il vero problema di Kast non è Kast. È il liberismo. È l’ennesima declinazione latinoamericana di un modello economico che si ripresenta ogni volta con facce diverse e lo stesso copione: ordine, mercato, sicurezza, capitali rassicurati, diritti sociali rinviati a data da destinarsi. Milei in Argentina, Kast in Cile, Noboa in Ecuador: cambiano le biografie, non cambia la struttura.

La sinistra si presenta come un mosaico di identità che non riescono a fondersi in un progetto riconoscibile. Il liberismo si presenta per quello che è sempre stato: semplice, brutale, coerente. “Meno Stato, più mercato, più polizia, meno complessità.” Un messaggio discutibile, certo. Ma chiaro. E in tempi di incertezza cronica, la chiarezza — anche quando è tossica — vince quasi sempre sulla sofisticazione confusa.

Il paradosso è che Jeannette Jara, come figura politica, rappresentava tutt’altro che un salto nel buio. Ministra del Lavoro, artefice della riduzione dell’orario a 40 ore, della legge contro le molestie, dell’aumento del salario minimo, incarnava una sinistra concreta, riformista nel senso serio del termine, radicata nel lavoro e non nelle narrative. Ma è stata inghiottita da una coalizione che ha fatto di tutto per apparire rassicurante verso l’alto e ha finito per risultare opaca verso il basso.

Il popolo — parola ormai impronunciabile nei salotti progressisti se non con le pinze — non chiede sinfonie ideologiche. Chiede stabilità, direzione, durata. Non governi “responsabili” che durano un quarto d’ora e passano il tempo a mediare tra correnti, sensibilità, sigle, identità in competizione permanente. Chiede qualcuno che dia l’impressione, vera o illusoria, di sapere dove andare. E se quella direzione è sbagliata, la si combatte politicamente, non con l’esorcismo morale.

Invece la sinistra cilena — come tante altre — ha preferito l’operazione campo largo: tutti dentro, nessuna frattura, nessun conflitto vero. Peccato che la democrazia non viva di consenso indistinto, ma di scelte. E le scelte escludono. Delimitano. Prendono posizione. Un’alleanza che pretende di rappresentare tutto finisce per non rappresentare niente, se non la propria sopravvivenza.

Nel frattempo, il Cile — paese laboratorio del neoliberismo fin dagli anni Settanta — viene raccontato come se stesse “scivolando a destra”, quando in realtà sta semplicemente restando dentro il perimetro occidentale così come oggi si configura: mercati aperti, sovranità economica compressa, sicurezza come feticcio politico, Washington come orizzonte implicito. Non una deviazione, ma una continuità. E Kast, in questo senso, non è un’anomalia: è un prodotto coerente.

Il dramma non è che il popolo si faccia “bindolare”, come si dice con un certo snobismo di ritorno. Il dramma è che dall’altra parte non ci sia più un’offerta capace di apparire solida, autonoma, non subalterna. Perché quando la sinistra smette di parlare di potere, di economia, di rapporti di forza, e si rifugia nel galateo istituzionale delle grandi coalizioni, lascia campo libero a chi il potere lo rivendica senza troppi giri di parole.

Kast passerà. Il liberismo, purtroppo, no — se non trova un antagonista che smetta di presentarsi come sommatoria di buone intenzioni e torni a essere progetto politico riconoscibile. Il Cile, come il resto dell’America Latina, non ha bisogno di governi “inermi ma inclusivi”. Ha bisogno di alternative che sappiano durare. E soprattutto, di essere prese sul serio.

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